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giovedì 29 novembre 2012

LA MONETA



SBAM! Mi chiudo dietro la porta con una pedata e rimango immobile al buio per qualche istante. Poi accendo la luce del mio monolocale. Scalcio via le scarpe, una dopo l’altra, quelle scarpe così costose che mi piacciono tanto, e le mando a sbattere contro la parete. Scalza sul pavimento di legno lucido mi guardo attorno inebetita e, con gesti automatici, mi sfilo la gonna. La ripiego con estrema cura quindi, in un improvviso impeto d’ira, la lancio attraverso la stanza. La veste, ridotta a misero cencio senza più forma, vola scomposta e va a posarsi su una sedia. Slaccio con furia i bottoni della camicetta di seta, quella beige che mi ha regalato mia madre al compleanno e che è stata da lei definita “tanto elegante”, e la getto a terra proprio di fronte a me. Incurante della sua ormai inutile presenza la calpesto con indifferenza e mi butto sul letto.
Vorrei poter piangere ma non ci riesco. Sono troppo nervosa, troppo eccitata, troppo sconnessa e disorientata e le lacrime non arrivano. Comunque singhiozzo frigno lagno per qualche minuto senza trovare in ciò il minimo appagamento. Uno sfogo vano e inefficace, una crisi di nervi bella e buona come a volte mi succede quando qualcosa mi turba e mi tormenta. Quando non riesco a ottenere quel che desidero, una manifestazione del tutto infantile, mi rendo conto, ma alla quale non riesco in nessun modo a oppormi e a resistere. Si tratta soltanto di aspettare che tale doloroso e penoso stato d’animo mi abbandoni e cessi di angosciarmi. Respiro a lungo, in maniera profonda, come mi è stato insegnato alle lezioni di yoga, ormai abbandonate, e stando ben attenta (mi raccomando signorina!) a non entrare in iperventilazione che pure mi piace perché la momentanea piacevole euforia è sempre accompagnata da una violenta nausea. E poi ho pure bevuto, anzi ho soltanto bevuto a quel maledetto aperitivo dato che il mio stomaco era completamente serrato sbarrato chiuso ermetico e tutte quelle tartine colorate che mi sono passate davanti agli occhi non hanno suscitato in me nessuna reazione, nessuna voglia di agguantarne una e portarla alla bocca per soddisfare l’appetito che pure c’era, prima.
Prima di vedere lui, naturalmente.
Mi alzo di scatto dal letto, in preda a una inspiegabile frenesia e mi sistemo di fronte allo specchio, quello grande che rimanda l’intera mia figura. Mi esamino con attenzione, con sguardo un po’ critico e non so decidere quanto mi possa piacere quella donna che vedo riflessa. Tuttavia considero che non sono poi così male, mica ho vent’anni no? Ma quando penso in quale misura la stessa donna, proprio quella che sto osservando in questo momento producendomi in smorfie con la bocca ancora impiastricciata di rossetto arancione, possa piacere a qualcun altro, a lui intendo, mi coglie una inquietudine che mi mozza il fiato. Distolgo lo sguardo dal mio viso, quello proprio non l’ho mai amato perché è troppo paffuto e mi fa sembrare una vecchia bambina, e lo dirigo sul corpo. Prima sul busto, su quel seno che appare prosperoso solo in virtù della decisa azione di sostegno esercitata da quell’attrezzo che vero indumento non è e che lo sospinge in alto. C’è il trucco mi dico, ma che importa, quasi tutte le donne ricorrono a qualche artificio per apparire migliori di quel che sono e nel mio caso lo stratagemma è del tutto veniale perché il mio petto è davvero esuberante, o almeno lo era prima di diventare un po’ cascante. Contro gli anni che passano, contro la forza di gravità che schiaccia tutto verso il basso non si può fare altro che barare.
I miei fianchi, benché un po’ appesantiti, conservano quasi del tutto intatta l’antica sinuosità, quella di cui sono stata sempre orgogliosa. Così le gambe, abbastanza slanciate anche se racchiuse strizzate imprigionate compresse nella morsa dei collant che mi segnano la vita, che quasi mi impediscono di respirare e che non vedo l’ora di togliere. Mi volto di sbieco e scruto le natiche e rabbrividisco per l’orrore. Strizzo chiudo gli occhi, solo buio, poi mi sollevo sulle punte dei piedi mi giro di nuovo e già mi piaccio di più. Ma subito dopo scappo, non reggo più l’immagine del mio corpo, quell’insieme di materia dentro al quale vivo, che ogni giorno espongo al giudizio di tutti quelli che incontro, quel corpo del quale a volte mi compiaccio e che altre volte, le più, mi provoca vergogna senso di inadeguatezza e disagio.
Be’, penso, prima di ributtarmi a capofitto sul letto, anche lui non è proprio perfetto. Il fatto è che mi piace lo stesso, con i suoi difetti imperfezioni mancanze. È alto alto magro magro però ha un fascino del tutto particolare, una maniera tutta sua di muoversi e atteggiarsi, un che di attraente, e adoro tutte le premure che manifesta nei miei confronti la sua dolcezza e gentilezza, la sua voce suadente dal colore basso. Non importa se ci siamo incontrati poche volte e mai da soli, quel minimo tempo è stato più che sufficiente per farmi innamorare di lui, per far sì che percepissi nei suoi occhi brillanti il suo sicuro interesse per me. Da come mi osserva mi tocca la mano e la spalla e sfiora i miei capelli con le sue lunghe dita e so che vorrebbe osare di più ma qualcosa lo frena e lo fa indugiare e trattenere e gli impedisce di essere veramente se stesso. E pure io sono rigida esitante imbarazzata, forse con la mia eccessiva ritrosia gli impedisco di sbloccarsi di sciogliersi.
A pancia in giù su quel materasso ultra-moderno, ultra-morbido e ultra-confortevole e anche tanto costoso allungo un braccio, quasi alla cieca, e apro il cassetto del comodino e frugo nei suoi più reconditi anfratti nell’immenso disordine finché non la trovo e la afferro e la porto davanti agli occhi, dai quali finalmente cominciano a scorrere stentate calde lacrime, e la scruto e la riconosco è proprio lei, la mia moneta porta-fortuna che custodisco da sempre, sfavillante come appena lucidata.
La stringo nel pugno e mi rizzo a sedere, ahi l’elastico dei collant che tira sempre più e mi spezza in due, mi concentro un attimo e formulo quella richiesta alla quale soltanto lei saprà dare una risposta: io e Alberto, perché quello è il suo nome, il nome di quell’uomo meraviglioso, ci baceremo mai? Non oso chiedere di più, anche se lo vorrei, ma non ne ho il coraggio, non ho intenzione di sfidare la sorte oltre misura, non voglio dovermi dolere per la mia smodata sfrontatezza.
Allora lancio in aria la moneta, in alto, molto in alto, e mentre lei volteggia impazzita ribadisco mentalmente un’ultima volta la mia disperata richiesta: testa ci baceremo, croce le nostre labbra non si incontreranno mai.
E la moneta ricade sulla coperta, quella di color rosa antico molto signorile, e il responso è quello che desideravo auspicavo sognavo. Testa, Testa. Testa. Bacio. Bacio. Bacio.
Non posso domandarti altro, adorata monetina, mia diletta! Carissima amica mia!
Il resto lo conosci soltanto tu, e non lo dividerai con nessuno, neppure con me.
No, non posso chiederti quando ciò che hai predetto accadrà.          

martedì 27 novembre 2012

PRIMARIE SI', PRIMARIE FORSE...



Le primarie del centro-sinistra hanno avuto una ottima riuscita, su questo non ci possono essere dubbi. Innanzitutto sono state un grande successo riguardo alla partecipazione. I cittadini hanno risposto con entusiasmo e si sono recati al voto in gran numero: dai dati diffusi risulterebbe che abbiano preso parte alla consultazione oltre tre milioni di lettori. Il desiderio di avere finalmente una buona politica, in grado di coinvolgere e suscitare passioni che si credevano sopite, è stato pienamente soddisfatto. Tutto ciò va al di là del risultato, che ha visto prevalere in questo primo turno Pierluigi Bersani su Matteo Renzi, e lo sovrasta. La coalizione progressista ha dimostrato impegno, serietà e responsabilità; ha dato prova di credibilità e si candida, in maniera del tutto autorevole, alla guida del Paese. Chiunque prevarrà alla fine del percorso, tra i due contendenti rimasti in lizza, potrà contare su una chiara e indiscutibile legittimazione popolare. Nessuno tra i competitori risulterà davvero sconfitto, perché ognuno di loro ha contribuito a scrivere questa bella pagina di politica. Si sono confrontate posizioni e idee differenti, sono state messe in campo ricette diverse per contribuire a risolvere i gravi problemi del Paese, ci sono state schermaglie a volte anche dure tra i cinque candidati, tuttavia il fronte comune non ne è risultato scalfito bensì arricchito, così come è stata preservata l’unità d’intenti che sta alla base dell’alleanza. Bersani si è confermato uomo solido e di buon senso, di sicuro adatto a ricoprire ruoli di governo di primissimo piano. Renzi, da parte sua, ha proposto nuovi modelli di azione politica e qualche suggerimento innovativo, idee forse non sempre del tutto condivisibili da parte della vecchia base ma comunque sempre rivolte al rinnovamento. Vendola ha finalmente messo in mostra una insolita concretezza, unita alle innegabili doti di umanità che da sempre hanno contraddistinto il suo messaggio politico. Onore delle armi anche a Laura Puppato e a Bruno Tabacci, competitori più che meritevoli. 
Se ci spostiamo invece sull’altro fronte, quello del centro-destra, la situazione è del tutto diversa. Si tratta di una versa e propria immersione nella commedia. Anzi, nella farsa. Il PDL, a un certo punto, ha deciso che era opportuno, analogamente a quanto stava facendo la parte avversa, ricorrere a delle consultazioni primarie, se non di coalizione (quale?) almeno di partito per procedere alla scelta del candidato premier. Da quel momento in poi ha avuto inizio il divertimento. Il presunto segretario di quella forza politica, Angelino Alfano, ha indetto le elezioni per il 16 dicembre. Ed è iniziato il suo dramma. Il proprietario del partito, Silvio Berlusconi, non ha manifestato grande interesse per tale iniziativa, e ha tentato in tutti i modi di ostacolarla e di boicottarla. Alfano (per il quale è inevitabile provare un po’ di pena, dopo che in passato ha suscitato rabbia e irritazione) ha deciso di proseguire dritto per la sua strada. Di più. Le primarie sono diventate “all’americana”. Quindi svolgimento delle stesse su base regionale con una durata di alcuni mesi. Una mostruosità, insomma. Nel frattempo l’occhio porcino di Berlusconi diventava sempre più vitreo, il suo risentimento montava. All’improvviso c’è stato un contrordine: le elezioni politiche sono ormai troppo vicine, non c’è il tempo necessario per espletare l’intero macchinoso procedimento. Si torna alle origini: data unica. E poi all’ormai confuso segretario è scappata quella improvvida frase: nessun indagato tra i candidati delle primarie del PDL! Apriti cielo! Un vero e proprio schiaffo in faccia al vegliardo di Arcore, che non ha retto più e ha dato sfogo a tutta la sua stizza nei confronti del povero ex-delfino. E lo ha fatto nell’unico modo possibile, vale a dire minacciando l’ennesima discesa in campo, magari alla testa di un partito del tutto nuovo (tranne il capo, naturalmente). Per prima cosa Berlusconi ha intimato ai numerosi candidati di ritirarsi (alcuni di loro erano davvero improponibili oltre che indagati, per la verità, e anche in questo di sicuro c’era il suo zampino) i quali, quasi tutti, hanno obbedito al richiamo del padrone. Chi non l’ha fatto ha messo una croce definitiva sul proprio futuro politico. E uno di questi sarà di certo quel misero tapino di Alfano, l’uomo senza dignità, bollato come traditore e ormai del tutto sconnesso, preda di uno stato di choc dal quale gli sarà difficile riprendersi. E delle fantomatiche primarie del centro-destra è probabile che non si saprà più nulla. Ecco, questa è la cronaca degli ultimi concitati e divertenti giorni del centro-destra. Un declino certamente annunciato, ma che si è rivelato ancora più patetico del previsto. E pensare che molti cittadini hanno affidato a queste ignobili e ridicole persone il destino del loro Paese per quasi vent’anni! Incredibile ma purtroppo vero.   

sabato 24 novembre 2012

IL SOGNO DI ABRAHAM



Scendo le scale lentamente e guardo le pareti, cerco di distinguere nelle crepe dell’intonaco le familiari figure del leone, del delfino e della giraffa. Ma oggi non riesco a scorgerle. Vedo al loro poste altre sagome, che mi mettono i brividi. Lassù un aereo da combattimento, più in basso un carro armato. E qui, proprio vicino alla mia spalla, la forma allungata di un missile. Sopraffatto da un pesante senso di inquietudine distolgo lo sguardo, accelero il passo ed esco in strada. Ma il marciapiede non c’è, e non c’è nient’altro. Non ci sono gli alti palazzi, e neppure automobili, né i soliti passanti frettolosi del primo mattino. C’è soltanto sabbia, tutto intorno a me. E silenzio, un angosciante silenzio. I miei piedi affondano fino al polpaccio, i miei occhi sono abbagliati da una luce intensa, quasi bianca. Provo a spostarmi, ad andare verso il mare, ma le mie gambe sono ormai bloccate in una morsa di fine polvere dorata. Mi volto, in preda al terrore, e vedo che anche la mia casa non c’è più. Dove prima sorgeva l’edificio, adesso c’è soltanto sabbia. Una immensa distesa di polvere che sembra non avere fine. Poi…

Il risveglio fu brusco. Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la cornetta.
Ascoltò a lungo, senza parlare.
“D’accordo, ho capito. È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando. Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito, già dopo il primo squillo.
Abraham gli fornì una succinta spiegazione, lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e alla quale teneva molto.
“Non ti preoccupare, ci penso io” lo rassicurò il collega e amico.
“Grazie, Amos.”
“Comunque me lo sentivo” aggiunse l’altro.
“Eh? Che cosa?” domandò Abraham.
“Che ti avrebbero chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.”
“Non dire sciocchezze. Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.”
Amos sogghignò.
“Già! Il fatto è che a te capita sempre!” esclamò, divertito.
“Guarda che prima o poi potrebbe toccare anche a te.”
“Figurati! Con il mio piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine, insomma.”
“Quante stronzate dici! Ti saluto, mio caro.”
“D’accordo. Mi raccomando, appena puoi fatti sentire.”
“Va bene, prima o poi lo farò.”
Abraham pose così termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa, tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio la necessità.
Prima di uscire, tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino, fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente.
Rassicurato, Abraham afferrò un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto in caserma.
Abraham chiuse l’uscio dietro sé e si fiondò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e non era proprio il caso di ravvivarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui, la gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i timpani, accresceva la paura delle persone. Una ragazza si lanciò su di lui, che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo guardò senza dire una parola, la prese per mano e la costrinse a correre.
“Vieni con me” disse il ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole.
Giunsero in prossimità dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel parco, dove si era già rifugiata altra gente.
“I rifugi, saranno aperti i rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi accanto a un grosso cespuglio.
Abraham costrinse la ragazza a gettarsi a terra, poi si adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla con il proprio corpo. Seguì un lungo, interminabile istante di silenzio quasi assoluto prima che si percepisse un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una violenta deflagrazione.
“Un missile” disse Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso.
E poi un altro scoppio, più soffocato, più lontano.
“Questo è finito in mare” aggiunse il ragazzo.
Ancora le sirene, ma questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano.
I due giovani si rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era umida, ma loro non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham osservò con attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era molto giovane, e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a caschetto. La pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi.
“Mi chiamo Abraham” disse, rivolto a lei.
“E io sono Leah. Ti chiedo scusa per il mio comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura” rispose la ragazza. La sua espressione non esprimeva più sorpresa e timore, come qualche istante prima, bensì crescente indignazione.
“Nessun problema, ormai è tutto finito. Per ora, almeno.”
“Hanno attaccato Tel Aviv! Incredibile!”
“Non è la prima volta, e temo non sarà neppure l’ultima.”
“Vuoi dire che era già accaduto?” domandò Leah.
“Certo, non ti ricordi? No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non eri ancora nata. È successo più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne conservo chiara memoria. Fu quella volta quando aiutai i miei genitori a rivestire i vetri delle finestre con il nastro adesivo. Per me si trattò quasi di un divertimento. I continui allarmi non mi facevano paura. Sai, era come una specie di gioco. L’unica cosa che davvero mi inquietava era la maschera antigas, che i miei mi costringevano sempre a indossare, anche quando non esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di vivere in mezzo a tanti grossi insetti, e provavo un senso di soffocamento che mi atterriva. Non vedevo l’ora di toglierla e di tornare a respirare normalmente.”
“I missili Scud!” esclamò Leah.
Abraham sorrise.
“Già, proprio loro. E avevo pure molta paura di quel pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della giornata il suo faccione feroce, con quei grossi baffi neri, compariva in televisione. Non guardavo più i miei programmi preferiti, nel timore che all’improvviso sullo schermo spuntasse lui.”
“È per questo che prima non hai perso il sangue freddo?” domandò la ragazza.
“Può essere, ma anche per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in Libano, qualche anno fa.”
“In guerra?”
“Sì.”
“Allora sei un militare?”
“In verità sono un impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come sottufficiale.”  
“Ah!”
Abraham distolse le sguardo dagli occhi scuri e penetranti di Leah. Lo diresse verso il cielo, che era grigio.
“Sai, sono stato richiamato proprio oggi. Domani parto.”
“No!”
“E invece sì! Qualcuno lo dovrà pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi divertito.
Lei annuì, seria.
“Ehi! Che ne dici se andassimo a prendere un caffè? Credo che ne abbiamo entrambi bisogno” propose Abraham.
“Tutti i locali saranno chiusi!”
“Stai scherzando? Il nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di missili!”
“Dici?”
“Su, vieni” disse lui, riprendendola per mano.
Camminarono per un paio di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto. Come previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare per gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi passanti, il traffico era di nuovo intenso.
I due giovani presero posto a un minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte opposta un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a intrattenere altri anziani, semplici e remissivi assentitori, urlando invettive.
“Quelli ci vogliono annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il fucile. E invece i nostri giovani se stanno qui tranquilli, e pensano soltanto a bere e a fottere!”
Le ultime parole erano state pronunciate volgendo lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah. Il ragazzo fu lì per reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e questo fu sufficiente a calmarlo.
“Sai che cosa diceva mio nonno?” domandò Abraham.
Lei scosse il capo.
“Diceva che a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel Aviv ci si diverte. Pare sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che da domani io non mi divertirò affatto…”
“Lascia perdere, Abraham. Quel vecchio è pieno di rabbia.”
“O di paura?” rispose il ragazzo, mentre un giovane cameriere portava loro i caffè.
Mentre sorseggiavano la bevanda, Abraham raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto turbato.
“Quale sarà il suo significato, secondo te?”
Lei si strinse nelle spalle, e sembrò ancora più minuta di quanto fosse.
“Non lo so. In ogni caso è soltanto un sogno” rispose.
“Potrebbe essere una sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la guerra?” chiese lui.
Leah lo guardò, un po’ stranita.
“Scusa, di quale guerra stai parlando?” domandò.
“Ehi! Non ti ricordi più? Domani dovrò presentarmi…”
Lei lo interruppe.
“Tu sei un militare, o quasi, quindi correggimi se sbaglio. Le guerre non consistono in due eserciti che si fronteggiano? Dov’è l’esercito nemico? Contro chi combattiamo, insomma?”
“Aspetta…”
“Rispondi alla mia domanda, per favore.”
“Hai ragione, spesso ci tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla loro parte, sono quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli, perché l’odio nei nostri confronti è notevole, ma pur sempre innocenti.”
“Soprattutto i bambini…”
“Già” ammise Abraham. “In ogni caso Tsahal fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili, cioè…”
“Tsahal!” esclamò Leah, in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove in una cristalleria! Appena si sposta provoca disastri.”
“Hai ragione, tuttavia non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può essere abbattuto da un pugno di cacciatori.”
“Abraham…”
“Uh?”
“Ti chiedo scusa…”
“Per quale motivo?”
“Mezz’ora fa ero una ragazzina tremante mentre adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu andrai in guerra…”
“In gran parte la penso come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se ci difendiamo quasi l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo non ci possiamo permettere mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma soprattutto a noi stessi, che siamo forti, molto forti, e che non abbiamo alcuna paura. E lo dobbiamo fare di continuo. Questa è la nostra dannazione, è quello che siamo costretti a sopportare in cambio della nostra esistenza.”
“Avrà mai fine tutto questo?” chiese Leah.
“Vuoi davvero la mia opinione? Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai! L’odio troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu, vera guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri figli…”
Leah chinò il capo, affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul quale annotò il proprio numero di telefono, prima di darlo ad Abraham.
“Quando tornerai, se vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi.
“Lo farò, Leah. Lo farò” rispose il ragazzo.
Poi i due giovani si alzarono e uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno riprese la sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora gridando, sempre più infervorato.  

…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre impazzita contro di me…

domenica 18 novembre 2012

IN PISCINA



Socchiudo la porta, mi accerto che nessun vicino stia ficcando il naso, e la faccio entrare. Lei scaraventa sul pavimento dell’ingresso una grossa borsa sportiva, poi sospira.
“Che cos’è?” chiedo.
“Non lo vedi? Ho detto che andavo in piscina.”
“A lui?”
“A chi, se no?”
Mi guarda con sarcasmo. Distolgo gli occhi, un po’ in imbarazzo. Lo ammetto, quella di fare domande superflue è una mia marcata prerogativa. Comunque proprio non lo avevo capito a cosa servisse quella sacca!
“Sei furba” aggiungo, dopo un lungo istante di esitazione.
Lei annuisce, poi inizia a svuotare il borsone. Estrae un accappatoio azzurro e un costume da bagno intero. Quindi si dirige con decisione verso il bagno (ormai sa dov’é…). Inizia ad armeggiare con il microfono della doccia. Vedo che inumidisce entrambi gli indumenti, poi li stende sul bordo della vasca. Infine contempla la sua opera, soddisfatta.
“Però!” esclamo, ammirato.
“È meglio se non li riporto a casa asciutti. Non si sa mai…”
“Fai tutto questo per me?”
“Zitto, scemo” dice lei, sorridendo e mettendo bene in mostra i suoi grandi denti bianchi.
Poi si avvicina a me, ormai rilassata. Anzi, sembra accorgersi davvero di me soltanto in questo momento. La stringo tra le braccia, le accarezzo la schiena, poi le mie mani si appoggiano sulle sue natiche sode e sporgenti. Il suo petto esuberante preme contro il mio, trasmettendomi mille diverse sensazioni. Tra le quali anche un vago senso di oppressione. Mi sollevo sulle punte dei piedi, perché lei è più alta di me. Sono in pantofole, mentre lei indossa delle scarpe con un tacco molto alto. Si rende conto di ciò e le sfila con un rapido movimento, gettandole lontane. Ho gli occhi chiusi, sento soltanto un rumore secco sul parquet. Sempre stando allacciati ci spostiamo sul soffice tappeto posto al centro del salotto. Cerco la sua bocca e la trovo. I nostri baci, avidi e famelici, possiedono quella disperazione che può derivare solamente dalla trasgressione. Dopo un po’ stacco le labbra già dolenti e le affondo nei suoi capelli, nei suoi morbidi e lunghi capelli. Percepisco un intenso sapore di shampoo, un profumo dolce che inebria. Mi avvolgo i suoi ricci castani attorno al capo, e non colgo più il trascorrere del tempo.
È lei che mi riporta alla realtà. Si stacca da me e mi appoggia una mano sulla spalla.
“Vieni” dice, suadente.
Mi guida verso il divano, mi fa sedere. Lei rimane in piedi. Sorride. Poi, lentamente, inizia a sbottonare la camicetta. Lo fa con gesti misurati, languidi, che non possono lasciare insensibile un uomo. Rimane in reggiseno, un indumento striminzito, di colore grigio chiaro, che a stento trattiene l’esplosione dei sui seni. Ma io osservo soprattutto le sue spalle, quelle spalle larghe da nuotatrice, perfettamente modellate e abbronzate, e che mi fanno impazzire fin dalla prima volta che le ho viste. Si volta, offrendomi la visione della sua schiena ben forgiata, sulla quale spiccano alcuni minuscoli nei. In un baleno si sfila i pantaloni, li abbandona a terra e di nuovo si gira verso me. Allarga le braccia. Le sue gambe sono strettamente fasciate in un paio di collant scuri, sotto i quali non indossa altro. Non ho neppure il tempo di sublimare tale seducente visione che lei mi raggiunge sul divano. I suoi occhi brillano, la sua bocca è atteggiata in una smorfia di bramosia. Si avventa sulla mia cintura, la slaccia e la toglie tirandone con forza un capo. Sento uno schiocco secco, che mi lascia attonito. Ma lei sta già lavorando sui bottoni dei calzoni, e io lascio fare. Mi invita, con un cenno deciso, a inarcare la schiena, e in tal modo mi sveste, come fossi un bambino. Mi riscuoto dallo sbigottimento e mi disfo della maglietta. Rimango in mutande e canottiera, l’unica foggia in grado di trasformare quasi ogni uomo in una ridicola caricatura. Per buona sorte non indosso i calzini, perché fa caldo. Ma queste non sono altro che mie misere considerazioni, perché lei non ci bada. Invece mi scruta, divertita e beata. Poi mi costringe a stendermi e il suo corpo si sovrappone al mio. Dapprima mi sento schiacciare, poiché lei è di certo più pesante di me, un attimo dopo già non ci penso più. Lei inizia a strusciarsi su di me, non tralasciando nessuna parte. La sensazione provocata dallo sfregamento delle sue calze sulla mia pelle, ma pure sulla sottile stoffa della biancheria che ancora porto, è molto forte. Tale da causare stordimento, da rendere il respiro affannoso, da far boccheggiare. Lei nuota, è proprio come se nuotasse su di me, avanti e indietro. Sono la sua acqua, quella sulla quale galleggia e si sposta. Avanti e indietro, senza sosta.
Quando infine sospende le potenti bracciate, quando la sua attenzione si concentra su un pezzo di me, su quel frammento così fragile e così sensibile, e ne provoca l’ineludibile deflagrazione, da tempo non connetto più: esisto soltanto in un’altra dimensione, dove il dominio dei sensi regna incontrastato.
Appena mi riprendo noto con stupore che lei indossa ancora i collant. Non li ha tolti. Eppure il mio appagamento è totale. Assoluto. E lo devo a lei, a quella che non è una donna, ma un autentico demonio. In grado di evocare ciò che di diabolico c’è in me, di farlo emergere, di permettergli di manifestarsi in modo compiuto. Oppure tutte queste fantasie sono soltanto il frutto avvelenato del senso di colpa che mi attanaglia il petto? E che mi fa soffrire, come sempre accade quando il pentimento è tardivo, ormai inutile, e ci si rende conto che si tornerà a sbagliare, perché la consapevolezza del mancare, del ripetersi dell’errore, è proprio ciò che nutre quel perverso piacere al quale è impossibile rinunciare.
Mi alzo, afferro la sua mano e la conduco in camera da letto. Ci stendiamo. Rimaniamo immobili, senza parlare.
Proprio allora il mio cellulare, posto sul comodino, inizia a vibrare. Lo ignoro.
“Perché non rispondi?”
“Deve essere lei” dico, mentre l’agitazione sale.
“Rispondi” insiste. Il tono è perentorio, quasi fosse un ordine. Ubbidisco, considerando tra me se tale categorico invito possa essere per la mia amante un riguardo nei miei confronti oppure parte del suo piacere. Prendo il telefono, lo accosto all’orecchio e mi sposto all’estremità del letto.
La voce di mia moglie, attraverso l’apparecchio, è soltanto un mormorio metallico. La mia, parole scandite in sordina.
“Ciao, tutto bene?”
“Eh? No, non sto facendo nulla. E tu, piuttosto?”
“Adesso mi senti?”
“Sì, dal lavoro sono tornato presto.”
“Non, non esco. Perché dovrei uscire?”
“Certo che domani ti verrò a prendere.”
“Va bene, a domani. Ciao.”
Riattacco e la guardo, per valutare la sua reazione. Nella penombra intravedo un sorriso furbo, complice e quasi sbarazzino. Ma nei suoi occhi chiari c’è il gelo. Mi avvicino a lei, la accarezzo ma non reagisce. Non accade più nulla finché non inizia a parlare. Racconta di un suo vecchio amante, un uomo che lei spesso riceveva a casa sua quando il marito era assente. Fa intendere che la storia non sia ancora conclusa, che a volte si vedono. Le mie viscere si attorcigliano preda di spasmi violenti provocati da una gelosia feroce. Ma non mi posso permettere di obiettare, devo fingermi interessato a ciò che lei sta dicendo, anche se non vedo l’ora che se ne vada. Lei intuisce il mio stato d’animo, dice che proprio deve scappare via, perché è tardi. Si riveste, ci salutiamo con un bacio un po’ stanco. Esce.
Mi abbandono sul divano. Stanco, spossato sia nel corpo che nella mente. Cerco di ripercorre quanto è accaduto questo pomeriggio. Mi soffermo sugli aspetti positivi, cercando di rimuovere le ombre.
Un suono mi distoglie dalle mie moleste riflessioni. È di nuovo il telefono, ma stavolta si tratta di un semplice messaggio. Lo leggo.

Ciao! Sto andando a casa a piedi. Sai, avevo bisogno di un po’ di moto. Oggi è stato bellissimo, conservo ancora sul mio corpo il ricordo di te! Mi pulirò dopo… Dove sono adesso è buio, ma non ho paura. Che mi può succedere? Qualcuno che mi violenta? Perché no? Bacio!

Scaglio a terra il telefono.

venerdì 16 novembre 2012

IL ROTTAMATORE



Simpatico, sembra simpatico. Quando appare in televisione appare addirittura un po’ strafottente. E molto pieno di sé. É il suo carattere, quello di un toscano piuttosto estroverso. Non risparmia le battute, e sfoggia il meglio del suo repertorio nei comizi, quando può parlare libero dalle costrizioni imposte dal mezzo televisivo. Quando si rivolge in special modo ai suoi entusiasti sostenitori. Però non racconta mai barzellette, per non indurre a rievocare una triste figura che ha spadroneggiato per un ventennio, e al quale non vuole essere paragonato o accomunato, anche se la tentazione di farlo, da parte di chi osserva con spirito critico, è forte. No, lui preferisce affidarsi a brevi slogan, a facili freddure, a praticare un morbido dileggio nei confronti dei suoi avversari, la maggior parte dei quali sono anche compagni di partito. Alcuni di loro ha già provveduto a rottamarli, come dice lui, utilizzando un termine poco elegante e rispettoso ma che è ormai entrato nell’uso comune.
Esperienza non ne ha molta, ma neppure poca, soprattutto se si considera la sua giovane età, trentasette anni. È stato presidente della provincia di Firenze, e attualmente ricopre la carica di sindaco del capoluogo toscano, la sua città. Nonostante sia uno sbarbatello ha già portato a termine quasi due mandati politici. Secondo Beppe Grillo ciò sarebbe più che sufficiente per essere lui stesso oggetto di rottamazione.
La sua competenza è tutta da verificare. Così come le sua preparazione. Si sa, non è semplice improvvisarsi candidato alla guida del Paese. Perché è proprio questa la sua grande ambizione, che d’altra parte non ha mai nascosto. Per questo motivo si è buttato a capofitto nell’impresa di contendere tale aspirazione comune al segretario del suo partito. Lo ha fatto quando ha deciso di candidarsi alle elezioni primarie del Partito Democratico, consultazioni che si terranno tra breve nelle quali è tra i favoriti. Di sicuro riuscirà ad arrivare fino al ballottaggio finale - così dicono tutti i sondaggi - magari risultando addirittura in vantaggio dopo il primo turno.
Se così fosse - e nulla fa pensare il contrario - la sua corsa verso Palazzo Chigi incontrerebbe a quel punto l’unico vero ostacolo. Poiché difficilmente riuscirebbe a prevalere nel confronto decisivo sul suo competitore (sempre lui, il segretario del PD), sulla cui figura quasi di certo confluiranno i voti di chi ha appoggiato al primo turno gli altri candidati. Una vera beffa, in considerazione del fatto che, a detta di tutti gli osservatori, il sindaco di Firenze non avrebbe alcuna difficoltà nello sbaragliare qualsiasi avversario alle elezioni politiche. Uno scenario che, senza dubbio, provoca non poca frustrazione nell’animo del rampante politico toscano.
In ogni modo lui ha già detto che, in caso di sconfitta, non accetterà incarichi di consolazione nel partito e tantomeno nel futuro governo se questo sarà un esecutivo guidato dal centro-sinistra. Rimarrà a fare il sindaco. Gli dobbiamo credere, salvo prova contraria.
Sulla questione dei diritti civili il primo cittadino di Firenze si dimostra alquanto aperto, e questo è un bene, mentre è inflessibile nella rinuncia al finanziamento pubblico. O meglio, ai rimborsi elettorali. E questo perché i cittadini, attraverso una consultazione referendaria che si è svolta tempo fa, così hanno deciso, e la volontà dei cittadini deve essere rispettata. Ineccepibile. Tanto più che lui ha dato prova di non avere eccessivi problemi nel reperire risorse private a sostegno della sua battaglia politica. Ha infatti corteggiato con successo l’alta finanza, quella buona naturalmente, dice sempre lui, ottenendone un positivo riscontro (e conseguente sostegno finanziario).
Sul fronte delle possibili alleanze invece la questione è più complessa. Il rottamatore ha detto in modo chiaro che non gradisce affatto la compagnia dell’UDC di Casini, a differenza di quanto espresso dal segretario del PD, apparso invece, a riguardo, più possibilista oltre che più pragmatico. Il nostro uomo, tuttavia, non si è pronunciato in maniera netta sull’altro alleato-cardine (ormai acquisito) della coalizione progressista, vale a dire SEL di Vendola. È parso di capire che lui non disdegnerebbe affatto, nel caso gli toccasse davvero di governare, di farlo da solo, senza compagni che potrebbero risultare ingombranti e vincolanti. Considerando il nostro sistema elettorale (presente e futuro) tutto ciò appare come un’autentica chimera. Inoltre, sempre nell’eventualità di un coronamento della corsa verso Palazzo Chigi, ha fatto intendere che anche il suo partito dovrebbe essere il più possibile “leggero”, nel senso che sarebbe tenuto a garantire sì il pieno sostegno, ma rinunciando a qualsiasi pressione e ingerenza sull’azione del governo. Una pretesa non da poco, ma che testimonia la grande determinazione del giovane sindaco.  
Insomma, tutto è ancora da decidere riguardo al destino politico del rottamatore. Al di là di tutti i pronostici e di tutte le previsioni, può ancora accadere qualunque cosa. Non resta che attendere, con curiosità e anche con un po’ di trepidazione. Non si tratta di faccenda da poco, ma del destino del nostro Paese.
Ah! Per chi non lo avesse ancora capito - nessuno, naturalmente - si parlava di Matteo Renzi.

mercoledì 14 novembre 2012

QUANTO TEMPO



Acchiappo il bicchiere dal banco e mi vado a sedere nell’angolo, là dove è più buio. Come se mi volessi nascondere, ma non dagli altri, da me stesso. Butto giù un sorso di liquore, poi un altro. Non sento nulla, la mia gola ormai è anestetizzata, così come il mio stomaco. Questo è l’ultimo, penso, anche se so che non sarà così. Berrò fino a quando sarò completamente stordito, e i miei pensieri saranno del tutto confusi. Il senso di tristezza che provo ne risulterà attenuato, ma non scomparirà del tutto. È difficile riuscire ad annegare i ricordi. Così come sarà impossibile scacciare la pena e il compatimento, i compagni con i quali trascorrerò la notte.
Tutte i giorni è la stessa storia. Ogni volta mi riprometto di non ricadere nel solito comportamento, ma proprio non ci riesco. A un certo punto un demone afferra la mia anima, la strizza, mi costringe a uscire da casa e a girovagare per i locali della città. In alcuni la sosta è più breve, in altri più lunga, ma l’esito finale non cambia mai. Mi annullo, mi distruggo, poi finalmente mi arrendo.
Questa è l’ultima tappa, la stessa di ogni serata. Questo caffè un po’ equivoco, frequentato dopo una certa ora soltanto da disperati come me, da gente che non conosce più la normalità, o che non l’ha mai incontrata.
Troppo preso dalla smania del compatimento, mi accorgo all’ultimo momento dell’uomo che è entrato nel bar e che si sta dirigendo verso il mio tavolo. Non l’ho mai visto prima, il suo aspetto è trasandato e il suo passo incerto. Nulla di strano, niente che possa sorprendermi. È inevitabile: ubriaco attira ubriaco. Sembra proprio che abbia intenzione di accomodarsi al mio tavolo. Di sicuro mi ha puntato appena ha fatto il suo ingresso nel locale, poiché non ha fatto alcuna sosta al banco. Non ho alcuna voglia di parlare con uno sconosciuto, eppure faccio buon viso a cattivo gioco e acconsento alla sua muta richiesta. Lui si siede ed emette un lungo sospiro. Ha l’aspetto stanco, pare completamente spossato, eppure riesce a sorridermi. La sua presentazione è una richiesta. D’altra parte, me l’aspettavo.
“Mi offri qualcosa?” dice, sfregandosi subito dopo una mano sugli occhi arrossati.
Annuisco, intercetto lo sguardo del cameriere e ordino da bere per quell’estraneo che sta invadendo la mia vita, ciò che ne rimane. E ordino anche per me. Questo sarà davvero l’ultimo, mi riprometto. Poi basta, fino a domani sera.
“Quanto tempo hai?” domanda l’uomo, cogliendomi un po’ di sorpresa. Preferirei bere in silenzio, pur se in compagnia. Gli indico il bicchiere, quasi vuoto, l’unica cosa importante per me in questo istante.
“Non vedi? Ho tutto il tempo del mondo!”
Lui scuote il capo, si fa più serio.
“No, intendo dire se hai idea di quanto tempo vivrai ancora…” precisa.
Se fossi sobrio, una domanda del genere mi farebbe imbestialire. Ma come si permette? Non ci conosciamo neppure e si prende simili libertà! E che richiesta, poi! Però sono tutt’altro che lucido, e in fondo quella stravagante domanda non mi sorprende più di tanto dal momento che la mia percezione della realtà è alquanto distorta. Per la prima volta rivolgo con attenzione lo sguardo su quel viso, su quegli occhi sorprendentemente chiari. Riguardo agli alcolizzati è diffusa una falsa convinzione: che vedano doppio. Vi assicuro che non è affatto così. Il volto dello sconosciuto mi appare perfettamente nitido. Distinguo con chiarezza persino i pori dilatati della sua pelle, le sottili screpolature sulle sue labbra secche.
Alla fine, la mia lunga riflessione non partorisce granché.
“E che ne so? Nessuno di noi conosce quanto tempo vivrà! Perché mi chiedi questo? Hai forse bevuto?” E poi scoppio a ridere, compiaciuto per la battuta.
Lui alza le spalle, poi si concentra sul bicchiere che il barista ha appena appoggiato sul tavolo. Beve una lunga sorsata, accompagna il gesto con una smorfia che rivela grande sofferenza. La mia ilarità cessa subito.
“E tu, sapientone? Sai dirmi quando morirai?” lo incalzo, con crescente perfidia.
“Può darsi.”
Il mio grugnito lo fa sussultare. Con mano tremante porta il bicchiere alla bocca.
“Si può sapere chi sei? E che vuoi da me?”
Lui fa un gesto accomodante. In qualche modo teme la mia ira. Mi invita a calmarmi. Lo accontento, poiché considero non valga la pena alterarsi per quella che è nient’altro che una disputa tra ubriachi. Dai tratti surreali, per giunta. Poi riprende a parlare, con la sua voce pacata.
“Se tu sapessi che domani sarà il tuo ultimo giorno di vita, come ti comporteresti?”
“Insisti? Uff!” E attacco il bicchiere pieno. Ne butto giù quasi metà.
“Allora?”
“Che cosa farei? Prenderei tutti i miei soldi e pagherei una donna. Mi farei sollazzare da lei per l’intera giornata, fino al completo sfinimento!”
“Non credo faresti una cosa del genere” ribatte l’uomo, imperturbabile.
“Lo dici tu! Si vede che non mi conosci!”
Lui mi guarda con commiserazione. Il gran bastardo!
“E tu invece?” lo aggredisco. “Dimmi che cosa faresti. Forza!”
Lui acconsente, poi arriccia il naso.
“Mi alzerei alla solita ora, per andare al lavoro.”
“Eh? Tu sei pazzo! Il lavoro!”
“Farei il mio dovere, come sempre. Scherzerei con i colleghi, cercherei di nascondere il mio vero stato d’animo. Poi tornerei a casa, stanco ma soddisfatto.”
Scuoto il capo con energia. Questo tipo, questo ubriacone da strapazzo mi sta prendendo in giro!
“Verso sera mi siederei a tavola con mia moglie e i miei figli…”
“Sei sposato?” domando.
“Sì.”
“Salute!” e alzo il bicchiere, ormai quasi vuoto.
“Poi mi accomiaterei, senza dire loro nulla. Non avrebbe senso, d’altronde. Perché farli soffrire inutilmente?”
“Ehi, guarda che la tua giornata sembra un po’ noiosa…” dico, irridendo lo sconosciuto, che tuttavia non si adombra per l’impertinenza.
“A quel punto farei una cosa che non ho mai fatto. Uscirei da casa.” aggiunge lui, con serenità.
“Vale a dire?” lo stuzzico. “Andresti a suonare i campanelli per poi scappare?”
“No, farei un’ultima lunga passeggiata in città, nel silenzio della notte.”
“Ah! E poi?”
“Alla fine cederei di schianto. Sai, quando il momento si avvicina per davvero, e tu nei sei consapevole, le difese non reggono più.”
“Dici?” lo canzono.
“È così, credimi. A quel punto inizierei a fare il giro di tutti i locali ancora aperti, bevendo e spendendo tutti i soldi che ho. Non molti, per la verità, non ho l’abitudine di portare molto danaro con me.”
“Mmm… interessante…” Proprio non riesco a trattenermi dal dileggiare questo poveraccio. “E alla fine, quando avrai finito i soldi e l’ora finale si sarà avvicinata ancora di più?”
“Be’… allora entrerei in un ultimo caffè, uno qualsiasi. Mi siederei al tavolo di un ubriaco, una persona che, a differenza di me, vedrà apparire un’altra alba, e mi farei offrire da bere.”

domenica 11 novembre 2012

PRIMA CHE IL GRILLO CANTI



Ci si chiede spesso – quando proprio non si ha di meglio da fare – se sia possibile contrastare, in qualche modo, l’impetuosa avanzata del Movimento Cinque Stelle; se sia verosimile farlo e, soprattutto, quale ne può essere l’esito.
Riguardo al primo quesito, è doveroso ammettere che, di fronte a fenomeni quali l’espansione improvvisa di un movimento politico, quasi nessuna azione di opposizione si sia mai dimostrata valida. Ci si trova di fronte come a una specie di eruzione vulcanica, la quale deve trovare sfogo, impossibile da reprimere, che deve fare necessariamente il suo corso finché non si esaurisce in maniera spontanea.
Tuttavia, a differenza degli avvenimenti naturali, nel caso di eventi politici esiste l’occorrenza di operare con una azione di contenimento, al solo fine di limitare i probabili danni, del tutto prevedibili, derivanti da essi. In passato ciò è stato fatto troppo debolmente.
È stato così per il fenomeno Forza Italia-Berlusconi. Sorto all’improvviso, prima di esaurire la sua spinta ha comunque caratterizzato un ventennio di vita pubblica, attraverso successive trasformazioni, e producendo gravi danni. Ancora tutti da riparare.  
La fiducia dei cittadini nella classe politica è ridotta ai minimi termini. Nulla porta a pensare che un rapporto virtuoso possa essere ricostruito in breve tempo. I politici stessi sembra non abbiamo percepito fino in fondo il grado di tale motivata disaffezione. Lo dimostrano tutti i giorni con il loro quasi immutato comportamento. Commettendo un grave errore di valutazione, pensano di scamparla, di potersi in qualche modo riciclare per poi riproporsi ammantati di nuova verginità. Si sbagliano.
Una simile situazione costituisce ideale terreno di coltura per il nascere e l’emergere di movimenti che cavalcano l’anti-politica, che mettono al centro della loro azione la lotta a quella che viene considerata una Casta autoreferenziale, quella dei politici appunto. Le proposte e le nuove idee passano in secondo piano. Il vero obiettivo è la distruzione di un sistema, marcio corrotto e inadeguato finché si vuole, ma che necessita di essere rinnovato e non semplicemente annientato. Perché non si può fare a meno della politica.
Occorre quindi, pur nella attuale grande confusione, mantenersi lucidi e riuscire a fare delle distinzioni, per salvare quel poco che c’è ancora da salvare, e ripartire. Soltanto così si possono, se non bloccare, almeno osteggiare e rallentare le spinte populiste ben rappresentate da movimenti come quello di Grillo e Casaleggio. È facile farsi irretire, è ben più difficile reagire, farlo in maniera intelligente e costruttiva.
L’opposizione a tali pressioni deve dunque essere condotta con forza, per evitare di precipitare dal buio verso tenebre ancora più fitte. Per fare ciò con convinzione è sufficiente ricorrere alla memoria recente, ripensare a quella che è stata la politica negli ultimi vent’anni. In tale esercizio purtroppo gli italiani non eccellono, il ricordo sfuma troppo in fretta e si è subito pronti a commettere altri errori fatali. La nostra storia ce lo insegna.
Il M5S, sorto dal nulla, in breve tempo è riuscito a consolidarsi fino a conseguire risultati di grande rilievo come quello nelle recenti elezioni regionali siciliane. Raccolto attorno al capo-portavoce, il comico genovese, questa forza politica (perché tale ormai è) non possiede una struttura ben definita. Non esiste, pertanto, alcuna forma di democrazia interna. Il capo propone e dispone (soprattutto dispone), i militanti obbediscono. E, proprio riguardo alle proposte, bisogna dire che queste appaiono assai deboli, mai ben definite, spesso semplicemente provocatorie. A fronte di alcune idee logiche, di buon senso, c’è una miriade di progetti utopistici, irrealizzabili, per nulla concreti. E poi, chi conosce le idee del Movimento Cinque Stelle riguardo la politica estera o su altri temi che sono del tutto ignorati?
Con le parole non si governa, e neppure con la buona volontà. Buoni propositi che di sicuro caratterizzano i militanti del movimento di Grillo. Ma chi sono questi attivisti? Be’, si tratta di persone del tutto sconosciute (e ciò potrebbe essere un pregio) che hanno deciso di impegnarsi in un progetto sì innovativo ma che presenta dei vizi di origine che loro in questo momento di grande entusiasmo non riescono a cogliere. La loro buona fede deve essere riconosciuta, allo stesso modo deve essere ammessa la loro inesperienza. Dilettanti allo sbaraglio, sarebbe facile dire. In gran parte è vero, anche se ciò può suonare assai ingeneroso nei loro confronti. Per fare politica sono indispensabili la preparazione e la motivazione, lo spirito di servizio e l’onestà. L’esperienza si può acquisire sul campo, senza dubbio, ma quando proprio tutti ne sono privi, in un movimento politico, si rischia di dover pagare (e di far pagare ai cittadini) uno scotto tremendo.
In ogni caso mettiamoci il cuore in pace. Nella prossima legislatura avremo in Parlamento numerosi esponenti del M5S. Rifiutando, per principio, qualsiasi alleanza, il loro sarà un ruolo di opposizione, ideale dunque per maturare esperienza e impratichirsi dei meccanismi (quelli buoni, ci si augura) della politica nazionale. E questo a meno di incredibili sorprese, al momento non prevedibili e, sia consentito dirlo, per niente auspicabili.  

venerdì 9 novembre 2012

SEI UN BEL TIPO, TU!



“Hai sempre lo stesso vestito!” esclama Sara quando mi vede.
Cerco di nascondere il mio evidente imbarazzo dietro al solito sorriso accattivante, quello che riesce a intenerire le donne. Ma non funziona. Lei ha ragione, da giorni mi presento al lavoro indossando lo stesso abito. Non che io sia una persona poco attenta all’igiene personale. No, questo no. Non esco mai di casa senza aver fatto una doccia, la mia biancheria è pulita. E così la camicia, che cambio ogni giorno.
“Sono pigro” rispondo, un po’ a disagio.
“Che cosa vuol dire?”
“Adesso ti spiego. Quando mi alzo è ancora buio, e preferisco non accendere la luce. Mi disturba, mi ferisce gli occhi. Afferro una camicia a caso, tanto le mie sono tutte uguali. Poi rimetto l’abito del giorno prima, e la stessa cravatta.”
“Perché non cambi vestito?” mi incalza lei.
“Uh? Non ne ho tanti.”
“Di sicuro ne hai più di uno.”
“Certo, è così. Vedi, ogni sera mi riprometto di toglierne un altro dall’armadio, ma non lo faccio mai. E al mattino mi ritrovo spiazzato. A quel punto agisco in maniera automatica, con il risultato che tu hai evidenziato:”
“Sei un bel tipo, tu! Te la sei presa? Sei offeso?”
Sorrido, in modo disarmante.
“No, non preoccuparti. Non mi offendo mai. Puoi dirmi qualsiasi cosa.”
“E tutto ciò è dovuto alla tua pigrizia, dici?”
“Credo di sì. Sono molto indolente riguardo tutto ciò che non mi interessa.”
“Vuoi dire che l’abbigliamento non ti interessa?”
“Non tanto. Anzi, poco per la verità.”
Sara mi guarda a lungo, mi esamina. Tuttavia non si concentra sul mio aspetto. No, quello lo conosce bene. Tenta di andare oltre, vuole capire che cosa mi frulla per la testa. Ai suoi occhi, tutto sommato, appaio come un individuo singolare, che stimola la sua curiosità. Vorrebbe cogliere la mia vera essenza, supponendo che ne esista una, ma non ci riesce. Me ne rendo conto.
“In quali altri campi si manifesta quella che tu definisci pigrizia?” mi domanda.
“Non saprei…”
“Dovresti essere più sicuro di te stesso.”
“Mi sforzo di acquisire maggiore autostima attraverso l’utilizzo delle parole.”
“A volte proprio non ti capisco. Sei troppo difficile per me.”
“Sai che ognuno di noi utilizza soltanto un numero limitato di parole e di espressioni, vero?”
“L’ho sentito dire.”
“Ebbene, io faccio di tutto per ampliare la varietà di termini che impiego. Mi riferisco al linguaggio parlato, naturalmente. Quando si scrive è un’altra cosa.”
“Non mi pare che i risultati siano molto brillanti. Sei un tipo troppo laconico per i miei gusti, punto e basta. Dov’è lo sfoggio di parole ricercate? No, proprio non lo vedo.”
Un po’ ci rimango male.
“Davvero? Hai fatto bene a dirmelo, così posso cercare di migliorare. Mi piacciono le persone sincere. La verità può far male, ma aiuta a crescere, a maturare.”
“E questa dove l’hai letta?”
“Eh? In un libro, credo. Ma non ricordo quale.”
“Di me ti piace soltanto questo?”
“Che cosa intendi dire?”
“Non fare il finto tonto. C’è qualche altra qualità che io possiedo che tu gradisci in particolare?”
“Ti esprimi bene.”
“Rispondi alla mia domanda.”
“Credo di avere risposto.”
“Tutto lì?”
“No, sei una persona molto simpatica.”
“Ho l’impressione che tu sia svogliato anche nel campo dei sentimenti.”
“Sul serio? Nessuno me l’aveva mai detto prima d’ora.”
“Te lo sto dicendo io.”
“Già.”
“Tra l’altro sono persuasa che tu raggiunga l’apice dell’abulia in amore.”
“Ma no!”
Mi piace molto stare a discorrere con Sara. C’è un unico inconveniente: non riesco mai a capire dove voglia andare a parare. Questo mi disorienta un po’, mi costringe ad assumere un atteggiamento troppo difensivo, ad essere eccessivamente timoroso e prudente. Però non ho intenzione di snaturarmi, così decido di stare al gioco. In fondo lei è la mia migliore amica, l’unica che possiedo.
“Secondo me ti piaccio, ma non lo vuoi ammettere.”
“Non ho mai detto che tu non mi piaccia.”
“E neppure il contrario…”
“Non amo sbilanciarmi più del dovuto.”
“Sempre per via della tua svogliatezza?”
“Può essere, anche se non ne sono del tutto sicuro.”
“Se io prendessi l’iniziativa e ti chiedessi di baciarmi tu che cosa faresti?”
“Non me la sento di rispondere. E poi l’ho già fatto.”
“Che cosa? Guarda che non me ne sono accorta! E comunque la mia era una domanda del tutto accademica.”
“L’ho fatto in sogno. Il bacio, intendo.”
“Ho diritto a una spiegazione.”
“Certamente. Durante il sogno ci siamo incontrati. Eravamo in strada. Hai presente quella via del centro? Dove c’è quel negozio di…”
“Vai avanti e tralascia i dettagli. Parlami del bacio. A me interessa soltanto quello.”
“Sì. L’incontro era del tutto casuale, ma io ne ho approfittato per invitarti a bere un caffè.”
“Che ardimento! Sono anni che aspetto che tu mi offra un caffè!”
“Nel sogni tutto è più semplice…”
“Uff! Prosegui, ti prego. Che cosa ho fatto?”
“Hai accettato e siamo entrati in un bar. Ricordo bene il cameriere che ci ha servito. Era molto anziano, troppo per lavorare in un bar, ho pensato. I suoi capelli erano completamente bianchi, la sua andatura piuttosto incerta. Rammento che le sue mani tremavano quando ha appoggiato le tazzine sul nostro tavolo…”
“Stringi, non mi importa nulla del cameriere decrepito.”
“L’ambientazione ha la sua importanza, anche se si tratta solo di un sogno.”
“Non tergiversare e parlami del bacio.”
“Aspetta, non essere impaziente. Ci sto arrivando. Dopo il caffè tu hai chiesto un bicchiere d’acqua. Di quella frizzante, mi pare. Non l’hai bevuta tutta e allora l’ho finita io.”
“Quindi?”
“Sono rimasto sorpreso da quel mio gesto. Tra di noi non c’era mai stata una tale confidenza prima di allora.”
“Vuoi dire bere dallo stesso bicchiere?”
“Sì.”
“Non mi pare si tratti di nulla di speciale. Indica semplicemente che tu non sei schizzinoso.”
“Questo corrisponde al vero, ma lascia che proceda. Dopo ci siamo alzati, siamo usciti da quel locale e abbiamo camminato per alcuni minuti.”
“Di cosa abbiamo parlato?”
“Non ricordo bene. Mi pare che tu mi abbia chiesto alcune informazioni riguardo a un allevamento di polli.”
“Eh?”
“Non so che dirti, era un sogno. Comunque credo di avere risposto alle tue domande. Per me era del tutto naturale, in quel momento, parlare di polli.”
“Tu sei pazzo.”
“Che ci posso fare? D’altra parte quello strano discorso lo hai iniziato tu.”
“Ma il sogno era tuo! Se mi hai reso ridicola la responsabilità è tua!”
“Non ti devi arrabbiare.”
“Non lo sono. Concludi, per favore.”
“Ti ho accompagnata fino alla fermata.”
“Del bus?”
“Mmm… in realtà si trattava di un aereo, ma ciò non riveste grande importanza…”
“Perché era un sogno!”
“Già. Alla fine tu ti sei avvicinata alla scaletta.”
“E poi?”
“Era arrivato il momento di salutarci. Allora mi sono accostato a te e ho preso le tue mani tra le mie.”
“E mi hai baciata? Sul serio?”
“Sulle tue labbra c’era ancora il sapore del caffè, anche se dopo avevi bevuto l’acqua.”
“Com’è stata la mia reazione? Su, dimmi…”
“Mi hai chiesto di partire con te.”
“Veramente? E tu che hai risposto?”
“Credo di avere detto di no. Quel giorno non ero molto in vena di partire. Ho aggiunto che lo avrei fatto un altro giorno, appena ne avessi avuto voglia.”
“Ed io come ho reagito?”
“Per fortuna il sogno si è interrotto. Sai, ti stavi per arrabbiare…”
“Certo che sei davvero un bel tipo, tu! Te la cavi sempre!”
“Quasi.”