Powered By Blogger

lunedì 25 marzo 2024

IL SOGNO DI ABRAHAM (Prima parte)


Scendo le scale lentamente e guardo le pareti, cerco di distinguere nelle crepe dell’intonaco le familiari figure del leone, del delfino e della giraffa. Ma oggi non riesco a scorgerle. Vedo al loro posto altre sagome, che mi mettono i brividi. Lassù un aereo da combattimento, più in basso un carro armato. E qui, proprio vicino alla mia spalla, la forma allungata di un missile. Sopraffatto da un pesante senso di inquietudine distolgo lo sguardo, accelero il passo ed esco in strada. Ma il marciapiede non c’è, e non c’è nient’altro. Non ci sono gli alti palazzi, e neppure automobili, né i soliti passanti frettolosi del primo mattino. C’è soltanto sabbia, tutto intorno a me. E silenzio, un angosciante silenzio. I miei piedi affondano fino al polpaccio, i miei occhi sono abbagliati da una luce intensa, quasi bianca. Provo a spostarmi, ad andare verso il mare, ma le mie gambe sono ormai bloccate in una morsa di fine polvere dorata. Mi volto, in preda al terrore, e vedo che anche la mia casa ora non c’è più. Dove prima sorgeva l’edificio, adesso c’è soltanto sabbia. Una immensa distesa di polvere che sembra non avere fine. Poi…

Il risveglio fu brusco. Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la cornetta. Ascoltò a lungo, senza mai parlare. “D’accordo, ho capito. È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando. Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito, già dopo il primo squillo. Abraham gli fornì una succinta spiegazione, poi lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e alla quale teneva molto. “Non ti preoccupare, ci penso io” lo rassicurò il collega e amico. “Grazie, Amos.” “Comunque me lo sentivo” aggiunse l’altro. “Eh? Che cosa?” domandò Abraham. “Che ti avrebbero chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.” “Non dire sciocchezze. Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.” Amos sogghignò. “Già! Il fatto è che a te capita sempre!” esclamò, divertito. “Guarda che prima o poi potrebbe toccare anche a te.” “Figurati! Con il mio piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine, insomma.” “Quante stronzate dici! Ti saluto, mio caro.” “D’accordo. Mi raccomando, appena puoi fatti sentire.” “Va bene, prima o poi lo farò.” Abraham pose così termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa, tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio la necessità. Prima di uscire, tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino, fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente. Rassicurato, Abraham afferrò un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto in caserma. Abraham chiuse l’uscio dietro di sé e si precipitò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e non era proprio il caso di richiamarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui la gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i timpani, accresceva la paura delle persone.  

                                                                                                                                (Continua)

Nessun commento:

Posta un commento