Marino ha visto tutto.
Ha assistito, impietrito e sgomento, alla tragica scena. Ha visto i poliziotti
accelerare il passo, imbracciare le mitragliette e sparare. Infine, ha
osservato quel povero ragazzo abbattersi a terra fulminato. L'uomo sente il proprio corpo ribollire, ma sa che non si
tratta di un sentimento di rabbia, bensì di profondo disgusto. Altre volte gli
è accaduto, nel corso della sua esistenza, sia quando è stato in guerra che
quando era partigiano, di essere diretto testimone di fatti tragici. Ma ora non
è preparato alla barbarie, lui è sceso in piazza per manifestare in maniera
pacifica, e l'intero suo essere si
ribella. Marino non riesce più a trattenere le proprie emozioni, i suoi occhi
si riempiono di lacrime amare. Appena si slancia oltre l'angolo della via, nel generoso tentativo di portare
soccorso al giovane colpito, è falciato a sua volta da una sventagliata di
mitra. La follia prevale, e non c'è posto per la pietà.
Chissà se i suoi carnefici hanno udito risuonare, tra tutta quella confusione,
il suo ultimo disperato grido: “Assassini!”
Il vice-questore sembra impazzito. Si muove a
scatti, gesticola, si rivolge in modo concitato a un suo sottoposto che, senza
risultato, cerca di indurlo alla calma. Avanza di qualche metro sulla piazza,
poi ci ripensa e torna indietro, riaccostandosi ai propri uomini. Il suo volto
è congestionato, quasi trasfigurato, per il caldo, la tensione e, soprattutto,
per la paura. Tutta quella folla, inaspettata, scatena in lui un'ondata di panico. Teme di essere sopraffatto, costretto in
un angolo, ha timore di finire calpestato. Allora, senza consultare nessun
altro, assume su di sé la tremenda decisione. Non si può sottrarre, perché è
lui il responsabile sul campo, il suo ruolo lo obbliga ad affidarsi con tempestività
a una scelta, per quanto sciagurata potrà essa rivelarsi. Osserva per un'ultima volta i visi impauriti dei ragazzi che gli sono più
prossimi, considera come non sia più possibile indugiare oltre, poiché tutti
sono in ansiosa attesa di un suo comando. Si potrebbe ancora decidere di
indietreggiare, di ripiegare verso i margini esterni della piazza e attendere
così l'evolversi della situazione. Alla fine,
comunque, l'alternativa prescelta è
un'altra, ed è quella di avanzare andando incontro
ai dimostranti, di caricarli e di disperderli con l'uso della forza. E Giulio, il vice-questore, con un cenno
della mano scatena l'infernale baraonda.
Trecento e più celerini, sia a piedi sia a bordo delle camionette, invadono l'ampio piazzale e, fin da subito incapaci di rimanere in
formazione unita e compatta, si sparpagliano tra la folla. Immediatamente dopo,
avanzando dal vertice opposto, uno sparuto drappello di carabinieri attua la
medesima manovra. Il vice-questore, che è rimasto indietro per dirigere la scellerata
operazione, rafforza l'ordine precedente con
parole destinate a rimanere scolpite per sempre nella memoria di chi quel
giorno le sente pronunciare. “Sparate verso le persone, altrimenti siamo in
pericolo!” E ancora, per dare più forza alla sferzata di dolore e morte che si
abbatte sulla folla inerme. “Sparate, sparate, sparate. Presto, sparate, non
preoccupatevi, sparate!”
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
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