Una ragazza si lanciò
su di lui, che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un
incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non
sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le
unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di
nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo
guardò senza dire una parola, poi la prese per mano e la costrinse a correre.
“Vieni con me” disse il ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole. Giunsero in
prossimità dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel
parco, dove si era già rifugiata altra gente. “I rifugi, saranno aperti i
rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi accanto a un
grosso cespuglio. Abraham costrinse la ragazza a gettarsi a terra, poi si
adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla con il proprio corpo. Seguì un
lungo, interminabile istante di silenzio quasi assoluto prima che si percepisse
un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una violenta deflagrazione. “Un missile”
disse Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso. E poi un altro scoppio, più
soffocato, più lontano. “Questo è finito in mare” aggiunse il ragazzo. Ancora
le sirene, ma questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano. I
due giovani si rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era
umida, ma loro non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham
osservò con attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era
molto giovane, e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a
caschetto. La pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi. “Mi chiamo
Abraham” disse, rivolto a lei. “E io sono Leah. Ti chiedo scusa per il mio
comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura” rispose la ragazza. La sua
espressione non esprimeva più sorpresa e timore, come qualche istante prima,
bensì crescente indignazione. “Nessun problema, ormai è tutto finito. Per ora,
almeno.” “Hanno attaccato Tel Aviv! Incredibile!” “Non è la prima volta, e temo
che non sarà neppure l’ultima.” “Vuoi dire che era già accaduto?” domandò Leah.
“Certo, non ti ricordi? No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non
eri ancora nata. È successo più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne
conservo chiara memoria. Fu quella volta quando aiutai i miei genitori a
rivestire i vetri delle finestre con il nastro adesivo. Per me si trattò quasi
di un divertimento. I continui allarmi non mi facevano paura. Sai, era come una
specie di gioco. L’unica cosa che davvero mi inquietava era la maschera
antigas, che i miei mi costringevano sempre a indossare anche quando non ne
esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di vivere in mezzo a tanti grossi
insetti, e provavo un senso di soffocamento che mi atterriva. Non vedevo l’ora
di toglierla e di tornare a respirare normalmente.” “I missili Scud!” esclamò
Leah. Abraham sorrise. “Già, proprio loro. E avevo pure molta paura di quel
pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della giornata il suo faccione feroce,
con quei grossi baffi neri, compariva in televisione. Non guardavo più i miei
programmi preferiti, nel timore che all’improvviso sullo schermo spuntasse
lui.” “È per questo che prima non hai perso il sangue freddo?” domandò la
ragazza. “Può essere, ma anche per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in
Libano, qualche anno fa.” “In guerra?” “Sì.” “Allora sei un militare?” “In
verità sono un impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come
sottufficiale.” “Ah!” Abraham distolse le sguardo dagli occhi scuri e penetranti
di Leah. Lo diresse verso il cielo, che era grigio. “Sai, sono stato richiamato
proprio oggi. Domani parto.” “No!” “E invece purtroppo sì. Qualcuno lo dovrà
pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi divertito.
Lei annuì, seria. “Ehi! Che ne dici se andassimo a prendere un caffè? Credo che
ne abbiamo entrambi bisogno” propose Abraham. “Tutti i locali saranno chiusi!”
“Stai scherzando? Il nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di
missili!” “Dici?” “Su, vieni” disse lui, riprendendola per mano. Camminarono
per un paio di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto.
Come previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare
per gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi
passanti, il traffico era di nuovo intenso. I due giovani presero posto a un
minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte opposta alla loro
un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a intrattenere
altri anziani, gente semplice e remissiva, urlando invettive. “Quelli ci
vogliono annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il
fucile. E invece i nostri giovani se ne stanno qui tranquilli, e pensano
soltanto a bere e a fottere!” Le ultime parole erano state pronunciate volgendo
lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah. Il ragazzo stava per
reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e questo fu sufficiente a
calmarlo. “Sai che cosa diceva mio nonno?” domandò allora Abraham. Lei scosse
il capo. “Diceva che a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel
Aviv ci si diverte. Pare sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che
da domani io non mi divertirò affatto…” “Lascia perdere, Abraham. Quel vecchio
è pieno di rabbia.” “O di paura?” rispose il ragazzo, mentre un giovane
cameriere portava loro i caffè. Mentre sorseggiavano la bevanda, Abraham
raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto turbato. “Quale
sarà il suo significato, secondo te?” Lei si strinse nelle spalle, e sembrò
ancora più minuta. “Non lo so. In ogni caso è soltanto un sogno” rispose.
“Potrebbe essere una sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la
guerra?” chiese lui. Leah lo guardò, un po’ stranita. “Scusa, di quale guerra
stai parlando?” domandò. “Ehi! Non ti ricordi più? Domani dovrò presentarmi…”
Lei lo interruppe. “Tu sei un militare, o quasi, quindi correggimi se sbaglio.
Le guerre non consistono in due eserciti che si fronteggiano? Dov’è l’esercito
nemico? Contro chi combattiamo, insomma?” “Aspetta…” “Rispondi alla mia domanda, per favore.” “Hai
ragione, spesso ci tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla
loro parte, sono quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli,
perché l’odio nei nostri confronti è notevole, ma si tratta pur sempre di
innocenti.” “Soprattutto i bambini…” “Già” ammise Abraham. “In ogni caso Tsahal
fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili, cioè…” “Tsahal!”
esclamò Leah, in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove
in una cristalleria! Appena si sposta di un passo provoca disastri.” “Hai
ragione, tuttavia non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può
essere abbattuto da un pugno di cacciatori.” “Abraham…” “Uh?” “Ti chiedo
scusa.” “Per quale motivo?” “Mezz’ora fa ero una ragazzina tremante mentre
adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu andrai in guerra.” “In
gran parte la penso come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se
invece ci difendiamo quasi l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo
non ci possiamo permettere mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma
soprattutto a noi stessi, che siamo forti, molto forti, e che non abbiamo
alcuna paura. E lo dobbiamo fare di continuo. Questa è la nostra dannazione, è
quello che siamo costretti a sopportare in cambio della nostra esistenza.”
“Avrà mai fine tutto questo?” chiese Leah. “Vuoi davvero la mia opinione?
Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai. L’odio
troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu, vera
guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri
figli…” Leah chinò il capo, affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul
quale annotò il proprio numero di telefono, prima di darlo ad Abraham. “Quando
tornerai, se vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi. “Lo
farò, Leah. Lo farò” rispose il ragazzo. Poi i due giovani si alzarono e
uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno riprese la
sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora gridando,
sempre più infervorato.
…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si
ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre
impazzita contro di me…
(Fine)
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