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mercoledì 27 marzo 2024

IL SOGNO DI ABRAHAM (Seconda e ultima parte)


Una ragazza si lanciò su di lui, che era rimasto fermo sul marciapiede. Lo abbracciò, in preda a un incontrollabile terrore. I suoi occhi erano spalancati, e tremava. Abraham, non sapendo che cosa fare, la strinse a sé, nel tentativo di calmarla. Sentì le unghie della giovane sulla sua schiena attraverso la stoffa del giubbotto. E di nuovo l’ululato delle sirene, sempre più forte. Si staccò dalla ragazza, che lo guardò senza dire una parola, poi la prese per mano e la costrinse a correre. “Vieni con me” disse il ragazzo. Lei ubbidì, arrendevole. Giunsero in prossimità dell’Hahovevim Garden e, sempre tenendosi per mano entrarono nel parco, dove si era già rifugiata altra gente. “I rifugi, saranno aperti i rifugi?” domandò un pallido quarantenne prima di raggomitolarsi accanto a un grosso cespuglio. Abraham costrinse la ragazza a gettarsi a terra, poi si adagiò su di lei, allo scopo di proteggerla con il proprio corpo. Seguì un lungo, interminabile istante di silenzio quasi assoluto prima che si percepisse un acuto sibilo, e subito dopo ci fu una violenta deflagrazione. “Un missile” disse Abraham, rivolgendosi quasi a se stesso. E poi un altro scoppio, più soffocato, più lontano. “Questo è finito in mare” aggiunse il ragazzo. Ancora le sirene, ma questa volta il suono era diverso. Cessato allarme, dicevano. I due giovani si rialzarono. I loro abiti si erano sporcati, perché l’erba era umida, ma loro non vi badarono. Adesso che era ritornata la calma, Abraham osservò con attenzione la sua occasionale compagna. Notò che la ragazza era molto giovane, e piuttosto graziosa. Aveva i capelli neri e corti, tagliati a caschetto. La pelle del suo viso era bruna, così come i suoi occhi. “Mi chiamo Abraham” disse, rivolto a lei. “E io sono Leah. Ti chiedo scusa per il mio comportamento di poco fa, ma avevo davvero paura” rispose la ragazza. La sua espressione non esprimeva più sorpresa e timore, come qualche istante prima, bensì crescente indignazione. “Nessun problema, ormai è tutto finito. Per ora, almeno.” “Hanno attaccato Tel Aviv! Incredibile!” “Non è la prima volta, e temo che non sarà neppure l’ultima.” “Vuoi dire che era già accaduto?” domandò Leah. “Certo, non ti ricordi? No, in effetti non puoi ricordare, perché di sicuro non eri ancora nata. È successo più di vent’anni fa, io ero un ragazzino ma ne conservo chiara memoria. Fu quella volta quando aiutai i miei genitori a rivestire i vetri delle finestre con il nastro adesivo. Per me si trattò quasi di un divertimento. I continui allarmi non mi facevano paura. Sai, era come una specie di gioco. L’unica cosa che davvero mi inquietava era la maschera antigas, che i miei mi costringevano sempre a indossare anche quando non ne esisteva un reale bisogno. Mi sembrava di vivere in mezzo a tanti grossi insetti, e provavo un senso di soffocamento che mi atterriva. Non vedevo l’ora di toglierla e di tornare a respirare normalmente.” “I missili Scud!” esclamò Leah. Abraham sorrise. “Già, proprio loro. E avevo pure molta paura di quel pazzo di Saddam Hussein. A tutte le ore della giornata il suo faccione feroce, con quei grossi baffi neri, compariva in televisione. Non guardavo più i miei programmi preferiti, nel timore che all’improvviso sullo schermo spuntasse lui.” “È per questo che prima non hai perso il sangue freddo?” domandò la ragazza. “Può essere, ma anche per altre vicende che ho vissuto. Sono stato in Libano, qualche anno fa.” “In guerra?” “Sì.” “Allora sei un militare?” “In verità sono un impiegato di banca, però faccio parte della riserva, come sottufficiale.” “Ah!” Abraham distolse le sguardo dagli occhi scuri e penetranti di Leah. Lo diresse verso il cielo, che era grigio. “Sai, sono stato richiamato proprio oggi. Domani parto.” “No!” “E invece purtroppo sì. Qualcuno lo dovrà pur difendere questo disgraziato paese, no?” disse il ragazzo, quasi divertito. Lei annuì, seria. “Ehi! Che ne dici se andassimo a prendere un caffè? Credo che ne abbiamo entrambi bisogno” propose Abraham. “Tutti i locali saranno chiusi!” “Stai scherzando? Il nostro popolo non si abbatte di certo per un paio di missili!” “Dici?” “Su, vieni” disse lui, riprendendola per mano. Camminarono per un paio di isolati, poi entrarono in un caffè, che naturalmente era aperto. Come previsto da Abraham, la vita aveva già ripreso a scorrere in modo regolare per gli abitanti di Tel Aviv. Le strade erano tornate a riempirsi di frettolosi passanti, il traffico era di nuovo intenso. I due giovani presero posto a un minuscolo tavolo situato in un angolo del locale. Dalla parte opposta alla loro un vecchio, che indossava una kippah bianca e azzurra, era intento a intrattenere altri anziani, gente semplice e remissiva, urlando invettive. “Quelli ci vogliono annientare! Distruggere! Se avessi vent’anni avrei già imbracciato il fucile. E invece i nostri giovani se ne stanno qui tranquilli, e pensano soltanto a bere e a fottere!” Le ultime parole erano state pronunciate volgendo lo sguardo proprio in direzione di Abraham e Leah. Il ragazzo stava per reagire. Lei gli appoggiò una mano sull’avambraccio, e questo fu sufficiente a calmarlo. “Sai che cosa diceva mio nonno?” domandò allora Abraham. Lei scosse il capo. “Diceva che a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e che a Tel Aviv ci si diverte. Pare sia un luogo comune piuttosto diffuso, il fatto è che da domani io non mi divertirò affatto…” “Lascia perdere, Abraham. Quel vecchio è pieno di rabbia.” “O di paura?” rispose il ragazzo, mentre un giovane cameriere portava loro i caffè. Mentre sorseggiavano la bevanda, Abraham raccontò a Leah il sogno che aveva fatto e che lo aveva tanto turbato. “Quale sarà il suo significato, secondo te?” Lei si strinse nelle spalle, e sembrò ancora più minuta. “Non lo so. In ogni caso è soltanto un sogno” rispose. “Potrebbe essere una sorta di premonizione? Qualcosa che ha a che fare con la guerra?” chiese lui. Leah lo guardò, un po’ stranita. “Scusa, di quale guerra stai parlando?” domandò. “Ehi! Non ti ricordi più? Domani dovrò presentarmi…” Lei lo interruppe. “Tu sei un militare, o quasi, quindi correggimi se sbaglio. Le guerre non consistono in due eserciti che si fronteggiano? Dov’è l’esercito nemico? Contro chi combattiamo, insomma?” “Aspetta…”  “Rispondi alla mia domanda, per favore.” “Hai ragione, spesso ci tocca combattere contro dei fantasmi. E le vittime, dalla loro parte, sono quasi sempre degli innocenti. Non del tutto incolpevoli, perché l’odio nei nostri confronti è notevole, ma si tratta pur sempre di innocenti.” “Soprattutto i bambini…” “Già” ammise Abraham. “In ogni caso Tsahal fa di tutto per limitare i danni… collaterali. Tra i civili, cioè…” “Tsahal!” esclamò Leah, in tono quasi sprezzante. “Tsahal è come un elefante che si muove in una cristalleria! Appena si sposta di un passo provoca disastri.” “Hai ragione, tuttavia non scordarti che anche il più grosso degli elefanti può essere abbattuto da un pugno di cacciatori.” “Abraham…” “Uh?” “Ti chiedo scusa.” “Per quale motivo?” “Mezz’ora fa ero una ragazzina tremante mentre adesso sto sputando sentenze, e scordo che domani tu andrai in guerra.” “In gran parte la penso come te, ma non ho scelta. Se cediamo per noi è finita, se invece ci difendiamo quasi l’intero mondo ci bollerà come assassini. Purtroppo non ci possiamo permettere mezze misure, dobbiamo dimostrare a tutti, ma soprattutto a noi stessi, che siamo forti, molto forti, e che non abbiamo alcuna paura. E lo dobbiamo fare di continuo. Questa è la nostra dannazione, è quello che siamo costretti a sopportare in cambio della nostra esistenza.” “Avrà mai fine tutto questo?” chiese Leah. “Vuoi davvero la mia opinione? Desideri che sia sincero fino in fondo? No, tutto ciò non finirà mai. L’odio troverà sempre il suo alimento, e questa folle guerra che, come dici tu, vera guerra non è, sarà proseguita dai nostri figli, e poi dai figli dei nostri figli…” Leah chinò il capo, affranta. Quindi prese un tovagliolo di carta, sul quale annotò il proprio numero di telefono, prima di darlo ad Abraham. “Quando tornerai, se vuoi chiamami” disse con un filo di voce, gli occhi lucidi. “Lo farò, Leah. Lo farò” rispose il ragazzo. Poi i due giovani si alzarono e uscirono dal locale. Si salutarono con una stretta di mano e ognuno riprese la sua strada. Il vecchio con la kippah bianca e azzurra stava ancora gridando, sempre più infervorato.

…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre impazzita contro di me…

(Fine)

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