Su Reggio Emilia, il
pomeriggio del 7 luglio, è calata una cappa di piombo. L'afa è opprimente, il caldo insopportabile. Poco alla volta,
una gran folla è affluita nelle piazze dei teatri, le ha quasi riempite. Si
tratta di almeno ventimila persone: sono operai, pensionati, donne e ragazzi.
Tra questi ultimi, molti indossano jeans e magliette a righe. Gente comune, che
vuole far sentire la propria voce in maniera pacifica, uomini e donne che hanno
a cuore la libertà. Le forze dell'ordine hanno steso un
cordone attorno a loro e vigilano nervose. Il loro compito sarebbe quello di
far rispettare il divieto di manifestare imposto dalle autorità, ma ben presto
si rendono conto di non essere in grado di poter svolgere tale incarico. E la
loro inquietudine aumenta sempre più, perché la gente scesa in piazza è davvero
tanta. Troppa. Un evento del tutto inaspettato, che provoca disorientamento,
che suscita allarme. Una macchina della CGIL percorre lenta la piazza, si fa
strada a fatica tra la folla. Un altoparlante, collocato sul mezzo, invita con
voce metallica la folla ad allontanarsi, a disperdersi, a sgombrare il
piazzale. Senza alcun effetto. A un tratto sopraggiunge un nutrito gruppo di
operai, saranno almeno trecento e sono i lavoratori delle Officine Meccaniche
Reggiane. Sorreggono striscioni e bandiere rosse e si sistemano proprio davanti
al Monumento ai Caduti. Iniziano a intonare canti patriottici e vecchie canzoni
partigiane. Poliziotti e carabinieri serrano le fila, avanzano, tentano di chiudere
l'intero spazio in una morsa. Da qualche parte,
nelle retrovie, si svolgono frenetiche trattative. La richiesta di installare
alcuni altoparlanti all'esterno della Sala
Verdi è respinta. Gli organizzatori, i dirigenti sindacali, sembrano ormai
impotenti di fronte a quella situazione del tutto inattesa. Il notevole
afflusso di gente ha colto di sorpresa anche loro, nessuno aveva previsto una
simile partecipazione. Ci si rende conto del pericolo incombente quando ormai è
troppo tardi. Il gracchiare dell'altoparlante non riesce
più a sovrastare il brusio della piazza, che aumenta sempre più. Pochi riescono
a udire quelle parole, quegli inviti che, poco per volta, si trasformano in
sconfortate e inutili suppliche. I poliziotti premono sulla compatta massa di
manifestanti, ne provocano lo scompiglio. All'improvviso
ha inizio un primo lancio di lacrimogeni, le camionette tentano di insinuarsi
tra la folla, aprono a fatica corridoi nei quali tentano di incunearsi gli
agenti, creando disordine. Poi, all'improvviso, tra le urla
eccitate di chi si fronteggia, un suono cupo squarcia l'aria. Inizia il ballo di morte.
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
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