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lunedì 11 marzo 2024

LA PIAZZA (4)


 

Ovidio si trova in piazza Cavour quando si scatena il finimondo. Proprio in quell'istante stava pensando di unirsi ai lavoratori delle Officine meccaniche Reggiane, ma non ha osato farlo. Lui non è uno di loro, anche se, in cuor suo, spera di esserlo presto. In un primo momento rimane sbalordito per la sorpresa. Poi, appena si rende conto di ciò che sta davvero accadendo, si sposta alla ricerca di un riparo. Le scene alle quali assiste gli sembrano irreali. Nel trambusto crescente scorge persone che fuggono in preda al terrore, altre che urlano disperate, in preda all'angoscia. Sente ruggiti di rabbia impotente. Preoccupato, Ovidio cerca con lo sguardo suo fratello Silvano, che da qualche minuto ha perso di vista, ma non lo scorge. Allora indietreggia, con cautela, cercando di raggiungere una zona più tranquilla. La piazza sbanda, impaurita. Lui osserva gli uomini in divisa insinuarsi tra la gente, assiste alle folli scorribande delle jeep colme di poliziotti. I mezzi procedono scartando come bestie impazzite inseguite dai cacciatori. I cacciatori, invece, sono loro. Ovidio vorrebbe scappare, e allontanarsi in fretta da quel luogo spaventoso; il suo desiderio, in quel momento, sarebbe quello di essere a casa, circondato dai suoi cari. Tra i colpi secchi dei moschetti e delle pistole, e le raffiche rabbiose delle mitragliette, Ovidio riesce a udire, proprio vicino a sé, il suono lancinante della sirena di un'ambulanza che cerca di farsi largo nell'immensa confusione. La vede, e nello stesso istante si rende conto che una staccionata mobile di legno ne impedisce il passaggio. Il ragazzo, d'istinto, senza per nulla riflettere, si appresta a rimuovere quell'ingombro. Fa un passo, e una stilettata di ghiaccio gli trafigge l'addome. Freddo, tanto freddo, questa è l'unica sensazione che Ovidio percepisce. Non dolore, soltanto freddo. Ma il dolore non attende a lungo prima di manifestarsi in tutta la sua crudeltà. Ovidio barcolla, sta per cadere, e si afferra a una serranda. Un uomo, pure ferito, si avvicina a lui per aiutarlo. Proprio allora sopraggiunge il poliziotto e, non ancora appagato, spara di nuovo. Dopo l'infame azione compiuta dall'uomo in divisa, l'esistenza di Ovidio non dura più di qualche istante.

Orlando sbuffa, impaziente. L'autobotte procede a passo d'uomo, lento pachiderma ingabbiato tra mura umane. Lui muove l'idrante, indirizza il potente getto d'acqua tra la gente, a casaccio, prima su un lato e poi sull'altro. Salvatore è accanto a lui, e nei suoi occhi si legge la paura. All'improvviso il camion si arresta. Dalla cabina, il poliziotto alla guida fa un cenno d'impotenza. Non è più possibile avanzare, non senza correre il pericolo di schiacciare qualcuno. Salvatore è sempre più agitato. Si guarda attorno nella speranza che qualche collega giunga in loro aiuto. Orlando invece riesce a mantenere la calma. La loro situazione è difficile, è necessario trovare una soluzione per non soccombere all'assedio della folla. Non gli è mai capitato di essersi trovato in un frangente simile, in precedenza, e si rende conto con desolazione che tutto il suo addestramento si rivela inutile. È ormai certo che la sua sopravvivenza, come quella dei suoi giovani colleghi, sia in pericolo, scorge mani che si protendono nella sua direzione, incuranti della lancia che ancora impugna, per ghermirlo. Non riesce a focalizzare i volti di quelle persone, soltanto le loro mani. Allora qualcosa scatta dentro di lui. Con un gesto rapido passa l'idrante nelle mani di Salvatore che, sorpreso, quasi se la lascia sfuggire. Poi balza giù dal cassone dell'autobotte. Intorno a lui, di colpo, si crea il vuoto. Orlando, quasi stupito, avanza nella piazza ad ampi passi, non ha bisogno di farsi largo. Intorno a lui non riesce a percepire nulla di definito. Soltanto rumore, confusione e ombre. Senza pensare, ormai stordito, ubbidendo a un riflesso automatico, estrae la pistola. A un tratto vede, proprio di fronte a lui, finalmente nitida, una figura. Un bersaglio, un semplice e inanimato bersaglio. Nulla di più. Si arresta e appoggia un ginocchio a terra. Prende la mira, almeno crede di farlo, e spara. Un istante prima ha udito un grido, anche se non ne è sicuro. La voce sembrava proprio quella del suo collega Salvatore. “Orlando! No! Non farlo!” Forse si è sbagliato. Com'è possibile distinguere una singola voce in mezzo a tutto quel trambusto?


Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012

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