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domenica 14 ottobre 2012

NON CHIAMARMI PIU'



Appena mi siedo sul divano, di fronte al televisore acceso, squilla il telefono. Vorrei non rispondere, ma ormai la mia quiete è stata turbata, sarebbe un gesto inutile, una vana ripicca. Sbuffo e mi alzo, senza che il fastidio mi abbandoni.
“Ciao, sono io…”
“Scusi, chi parla?” domando, anche se ho riconosciuto quella voce. Non tollero chi non si presenta, soprattutto quando quel qualcuno irrompe senza preavviso nella mia vita attraverso l’odioso apparecchio.
“Sono Rina! Ti ho forse disturbato?”
Non è il caso di tergiversare, di mostrarsi falsamente gentile. Permetto alla mia insofferenza di affiorare e affondo, crudele.
“Ti avevo chiesto di non chiamarmi più” dico, con asprezza.
“Lo so…”
“E allora? Perché l’hai fatto?” Giro il coltello, la lama penetra in profondità. Lacera.
“Mi sentivo sola, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Ho pensato a te.”
Tento di placare la mia irritazione. Me la immagino, all’altro capo del filo. I suoi capelli biondastri, mai troppo puliti, il suo sguardo obliquo.
“Che cosa mi devi dire?” chiedo, cercando di controllare il tono di voce, che risulta comunque troppo acuto.
“Sei solo, vero?”
“Sono quasi sempre solo” rispondo.
“Perché non vieni da me?”
Colpito. Mi aspettavo qualsiasi richiesta, ma non quella. Ho un attimo di confusione, fatico a riordinare le idee, a rimetterle una dietro l’altra in una successione ordinata e coerente. Non rispondo.
“Allora?” insiste lei. Vuole insinuarsi in quella breccia che si è aperta, lo so.
“Non so…”
“Ti aspetto.”
“Non credo che verrò” riesco a dire, fingendo sicurezza. Che non ho.
Lei non bada alla mia risposta. Una strategia che ho imparato a conoscere, ma dalla quale non mi so difendere. Rimango zitto.
“Sai, sono a letto…”
“Ah…”
“Pensa a come sono vestita.”
“Non saprei…” Ogni mia risposta potrebbe essere fatale. Preferisco la prudenza, non desidero scoprirmi.
“In realtà sono quasi nuda. Indosso soltanto una leggera sottoveste. Sai, di quelle corte e trasparenti, e sotto non ho nulla.”
Deglutisco, poi mi maledico. Di sicuro il disgustoso suono è stato amplificato dal telefono. Lei lo avrà sentito e chissà che cosa avrà pensato. Forse ha sorriso soddisfatta, corrucciando le labbra sottili in una espressione compiaciuta.
“Su, vieni…” La sua voce ora è roca, sensuale.
“Non hai rispettato i patti” dico, contegnoso.
“Eh?” Disappunto. Sì, ho compromesso quell’atmosfera costruita da lei con tanta fatica. Sono orgoglioso di me.
“Non avresti dovuto telefonare. Così avevamo stabilito” aggiungo.
“Perché sei così spietato con me? Così insensibile? Sei cambiato, sei diverso rispetto a quella prima volta.”
Mi rendo conto che la sua è una manovra diversiva. Che cosa dovrei fare a questo punto? Riattaccare? No, non ci riesco e allora cerco di guadagnare tempo.
“A cosa ti riferisci?” chiedo, prudente.
“Ma come? Non ti ricordi più? Parlo di quando siamo usciti insieme, quel pomeriggio…”
“Ah! Scusa se ti correggo, ma quella volta ci siamo incontrati per caso, anche se già ci conoscevamo…”
“Però non hai proseguito per la tua strada, come facevi sempre, mi hai accompagnato.”  
“Non eri sola…” ribatto con scarsa convinzione.
“Che importa? Ero con la mia amica Carla. Ti sei fermato per lei, forse?”
“No, certo che no. Tra l’altro quella tua amica non è molto simpatica.”
“Che dici?”
“Non ha detto una parola, e ha continuato a scrutarmi per tutto il tempo” ribatto, ripensando a quell’atteggiamento che mi aveva parecchio infastidito.
“Le avevo parlato di te, era soltanto curiosa.”
“Mi è sembrata una gran cafona…”
“Smettila! È la mia migliora amica! E poi se n’è andata quasi subito, ci ha lasciato soli. In fondo è stata discreta.”
“Mi hai chiamato per difendere il comportamento della tua amica?” Il mio tono è ridiventato duro, quasi feroce, tale da ferire.
“No, scusa. Ti ricordi che cosa abbiamo fatto dopo?”
“Non abbiamo fatto nulla” replico.
“Non è vero, siamo andati in un bar.”
“Appunto.”
“Stupido! Io ho ordinato un grosso gelato e tu soltanto un misero caffè. Rammento che guardavi di continuo l’orologio, anche se cercavi di farlo di nascosto. Però sei rimasto, anche se avevi fretta, e hai ascoltato tutto ciò che ti ho detto.”
“Hai parlato soltanto tu” mi affretto a ribattere.
“Ho raccontato tutto di me…”
“Già…”
“Poi tu all’improvviso ti sei alzato e sei scappato via. Ti ho osservato, mentre camminavi sotto i portici. La tua andatura era strana, ti affrettavi ma, nello stesso tempo, sembravi intento a pensare. Volgevi il capo prima in una direzione poi in un’altra, senza sosta, come se fossi impegnato in un muto dialogo con te stesso. Chi era l’oggetto di quelle tormentate riflessioni? Ero forse io? Adesso me lo puoi dire…”
“Senti, ora ti devo lasciare” dico. Non ho alcuna intenzione di parlare del passato, né di farmi coinvolgere in una discussione cerebrale. Non ne ho più voglia.
“E poi ci siamo rivisti, alcuni giorni dopo. Hai accettato di incontrarmi ai giardini.”
“È stato più facile dire di sì che di no. Avevi insistito così tanto” dico, volutamente perfido.
“Bugiardo, confessa che eri contento che te l’avessi proposto. Desideravi stare solo con me, ammettilo.”
“Forse…”
“Quel giorno ci siamo baciati.”
“Tu hai baciato me” preciso, con un puntiglio del tutto fuori luogo.
“È vero, ma anche tu lo volevi. Soltanto, non hai avuto il coraggio di farlo. Ho dovuto prendere l’iniziativa, ma non ne sono pentita, lo rifarei.”
La conversazione sta diventando patetica, addirittura penosa. La devo interrompere.
“Senti…”
“Ci siamo baciati a lungo. Provavo dolore alle labbra, ma ero felice” prosegue lei, imperterrita.
Non replico, le permetto di continuare. Un errore.
“E ti ricordi l’altra volta al bar? In quel salottino al piano di sopra? Eravamo soli” dice.
“Mi rammento il cameriere…”
“Era buffo, con quei ridicoli piedi piatti. E poi era anziano, poveretto…”
“Temevo che salisse a ogni momento. Invece non lo fece più, dopo averci servito.”
“Forse aveva capito.”
“Chissà…”
“Mi hai accarezzata a lungo.”
“Eh?”
“Le gambe. Prima le ginocchia, poi poco alla volta hai sollevato la mia gonna, e la tua mano ha iniziato a sfiorare, leggera, le mie cosce. In un primo momento all’esterno, quasi con timore, dopo sempre più su, all’interno…”
Al pensiero deglutisco di nuovo, le mie fauci sono aride. Non riesco proprio a reprimere i miei più bassi istinti.
“Portavi le calze” dico soltanto.
“Certo, era inverno e faceva freddo. Però ho percepito ugualmente, anche attraverso il tessuto, il tuo desiderio.”
“A un certo punto avevo le dita indolenzite” mi scappa. Dall’altra parte sento un risolino.
“Lo avevo capito!” dice, con voce squillante. “Per questo hai cambiato obiettivo?” aggiunge.
“Come?” Fingo di non aver compreso, ma non è così.
“Mi hai sbottonato la camicetta. Senza guardare, non so se perché temevi di incrociare il mio sguardo oppure se per tenere d’occhio la scala. E i movimenti del vecchio cameriere.”
“Tu eri tutta rossa in viso” dico, un po’ indispettito.
“Per forza, ero molto eccitata. Tu no?”
“Può essere…”
“Dopo mi hai abbassato il reggiseno…”
“Lo hai fatto tu.”
“No, ti sbagli. Mi hai scoperto un seno, hai stretto un capezzolo tra due dita, lo hai sfregato ha lungo. Quindi vi hai appoggiato le labbra…”
“Ho dovuto smettere quasi subito. Non riuscivi a controllarti, hai iniziato a mugolare…”
“Certo, non possiedo la tua imperturbabilità” dice, seccata.
“Ascolta, non mi va più di parlare del passato. Da allora è trascorso del tempo, e siamo entrambi cambiati. Abbiamo fatto altre cose, avuto altre esperienze.”
“Rinneghi ciò che hai fatto?”
“No, perché sarebbe come rinnegare me stesso, e non intendo farlo. Ma è del tutto inutile…”
“Vieni da me, ti prego.” Quasi una disperata invocazione.
“Non lo so…” avverto che qualcosa dentro di me si sta incrinando. La mia determinazione a resistere si attenua sempre più.
“Se stasera non sarai qui con me non ti vorrò mai più vedere!”
Crollo, ma non del tutto.
“Potrei passare da te dopo la partita” propongo con una certa cautela.
“Come? Quale partita?”
“Stasera c’è la finale della Coppa. Deve essere già iniziata.” Mi rendo conto che la mia proposta è un po’ azzardata. Ma ormai i miei freni hanno ceduto, e voglio tutto.
“Ascoltami bene. Io sono qui, distesa sul letto, e mi sto toccando in attesa di te. Ti aspetto, ma se non ti vedrò entro mezz’ora davvero non ti chiamerò più!”
Proprio ciò che avevamo deciso, penso. E che lei non ha fatto.
Farfuglio qualcosa, poi ci salutiamo senza che nulla sia stato definito. Da una parte un’incertezza che dilania, dall’altra qualcosa di più dcheuna speranza.
Riattacco, e torno a sedere sul divano, zuppo di sudore gelido. Rivolgo per un attimo l’attenzione allo schermo del televisore e mi accorgo che la mia squadra sta perdendo.

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