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sabato 13 ottobre 2012

ARRENDITI, SEET CIRCUNDA'A!



E lui, il governatore lombardo Roberto Formigoni, non ne vuole proprio sapere di dimettersi. Un altro dei suoi assessori, l’ennesimo, è stato pizzicato e sbattuto in galera con accuse infamanti, gravissime. Collusione con la malavita organizzata, con la ‘ndrangheta per la precisione. Intese finalizzate alla compravendita di voti, almeno quattromila, per cinquanta euro a croce.
No, lui non molla. Anzi, minaccia di far saltare le giunte di altre regioni del Nord, Piemonte e Veneto, causa effetto domino. Così erano gli accordi siglati a suo tempo, dice, tra la malcelata irritazione e le accuse di indebita ingerenza dei suoi colleghi governatori (leghisti) Cota e Zaia.
Il Celeste non cede, e non si riescono a comprendere le ragioni di tanta stupida ostinazione. Sarà puntiglio, sarà ottusità o pura tigna, oppure semplice disperazione, forse la consapevolezza che dopo tutto sarà finito per sempre. Niente più luci della ribalta e sfoggio di superbia, mai più vacanze a scrocco. In ogni caso Formigoni non esita a ostentare l’abituale faccia di tolla, quella che lo ha sempre contraddistinto, quella dei suoi giorni migliori. E non manca la solita prepotente arroganza, accompagnata dalla presunzione di essere in ogni caso il più bravo, di avere operato bene, e la certezza dell’impunità. Sì, perché lui non ha fatto nulla di male, ma è stato tradito da uomini nei quali aveva riposto la massima fiducia. Uomini che, comunque, aveva scelto lui. A tale proposito dovrebbe avere almeno l’onestà di ammettere la sua palese incapacità politica, la sua inadeguatezza ad un ruolo che ricopre da tanto tempo.
E invece no, lui tira dritto, azzera la giunta e la intende ricomporre. Con persone nuove, poche, forse soltanto tecnici, il tutto allo scopo di andare avanti e di arrivare a fine mandato, nel 2015. Il suo quarto mandato, poiché il governatore è alla guida della Lombardia da quasi quindici anni. Tanti, troppi. Un’eternità.
Naturalmente non può fare tutto ciò da solo. Ha bisogno dell’appoggio dei suoi alleati storici, i leghisti. E questi all’inizio tentennano, le accuse di connivenza con la malavita non piacciono per nulla, sono difficili da accettare, e proprio con quella malavita che il loro eroe, “barbis” Maroni ha combattuto con forza; addebiti pesanti che soprattutto non sono ben digeriti dalla base, o perlomeno da quello che ne è rimasto dopo la penosa vicenda che ha coinvolto Umberto Bossi.
Il segretario lombardo Matteo Salvini tuona, chiede elezioni anticipate, vuole che si riparta da zero. Insomma, la Lega intende mettere al più presto le mani sulla Lombardia, l’ultima vera roccaforte dei sognatori padani. E il popolo leghista approva, plaude, si entusiasma per questo inconsueto scatto di reni del proprio stanco partito. Invece Maroni frena, parla con Angelino Alfano e forse con chissà chi altri, modera e soffoca, apre ad altre possibilità senza ben precisare quali esse siano. La base, di nuovo, non capisce. Si indigna, incredula per questa retromarcia, per questa improvvisa giravolta dettata da motivazioni del tutto incomprensibili, da tatticismi non degni di un movimento quale dovrebbe essere la Lega, già rovinata dalle scandalose questioni interne e da anni di partecipazione a governi che hanno affossato il Paese. E fatto naufragare soprattutto quel Nord che invece doveva essere tutelato, perché questa era la vera missione del partito padano.
E poi, oggi, un nuovo colpo di scena. Maroni cambia idea ancora una volta. Formigoni se ne deve andare al più presto. Si dovrà votare ad aprile, in concomitanza con le consultazioni politiche. La dirigenza leghista non ha retto alla pressione della sua base come al contrario aveva fatto per lunghi anni. Stavolta però è in gioco la sopravvivenza stessa del partito. Occorre dare ai militanti un segnale forte, dimostrare che, al di là delle titubanze, un nuovo corso è stato avviato.
E lui, il governatore, rimane solo. Adesso è davvero assediato, è circondato. Formigoni dovrà cedere per forza. Chissà se finalmente riuscirà a pronunciare quella parola, dimissioni, che proprio non riesce a dire. 

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