E lui, il governatore
lombardo Roberto Formigoni, non ne vuole proprio sapere di dimettersi. Un altro
dei suoi assessori, l’ennesimo, è stato pizzicato e sbattuto in galera con
accuse infamanti, gravissime. Collusione con la malavita organizzata, con la ‘ndrangheta per la precisione. Intese
finalizzate alla compravendita di voti, almeno quattromila, per cinquanta euro
a croce.
No, lui non molla.
Anzi, minaccia di far saltare le giunte di altre regioni del Nord, Piemonte e Veneto,
causa effetto domino. Così erano gli accordi siglati a suo tempo, dice, tra la
malcelata irritazione e le accuse di indebita ingerenza dei suoi colleghi
governatori (leghisti) Cota e Zaia.
Il Celeste non cede, e
non si riescono a comprendere le ragioni di tanta stupida ostinazione. Sarà
puntiglio, sarà ottusità o pura tigna, oppure semplice disperazione, forse la
consapevolezza che dopo tutto sarà finito per sempre. Niente più luci della
ribalta e sfoggio di superbia, mai più vacanze a scrocco. In ogni caso
Formigoni non esita a ostentare l’abituale faccia
di tolla, quella che lo ha sempre contraddistinto, quella dei suoi giorni
migliori. E non manca la solita prepotente arroganza, accompagnata dalla
presunzione di essere in ogni caso il più bravo, di avere operato bene, e la
certezza dell’impunità. Sì, perché lui non ha fatto nulla di male, ma è stato
tradito da uomini nei quali aveva riposto la massima fiducia. Uomini che,
comunque, aveva scelto lui. A tale proposito dovrebbe avere almeno l’onestà di
ammettere la sua palese incapacità politica, la sua inadeguatezza ad un ruolo
che ricopre da tanto tempo.
E invece no, lui tira
dritto, azzera la giunta e la intende ricomporre. Con persone nuove, poche,
forse soltanto tecnici, il tutto allo scopo di andare avanti e di arrivare a
fine mandato, nel 2015. Il suo quarto mandato, poiché il governatore è alla
guida della Lombardia da quasi quindici anni. Tanti, troppi. Un’eternità.
Naturalmente non può
fare tutto ciò da solo. Ha bisogno dell’appoggio dei suoi alleati storici, i
leghisti. E questi all’inizio tentennano, le accuse di connivenza con la
malavita non piacciono per nulla, sono difficili da accettare, e proprio con quella
malavita che il loro eroe, “barbis”
Maroni ha combattuto con forza; addebiti pesanti che soprattutto non sono ben
digeriti dalla base, o perlomeno da quello che ne è rimasto dopo la penosa vicenda
che ha coinvolto Umberto Bossi.
Il segretario lombardo
Matteo Salvini tuona, chiede elezioni anticipate, vuole che si riparta da zero.
Insomma, la Lega intende mettere al più presto le mani sulla Lombardia, l’ultima vera roccaforte dei sognatori padani. E il popolo leghista approva, plaude, si
entusiasma per questo inconsueto scatto di reni del proprio stanco partito.
Invece Maroni frena, parla con Angelino Alfano e forse con chissà chi altri,
modera e soffoca, apre ad altre possibilità senza ben precisare quali esse
siano. La base, di nuovo, non capisce. Si indigna, incredula per questa
retromarcia, per questa improvvisa giravolta dettata da motivazioni del tutto
incomprensibili, da tatticismi non degni di un movimento quale dovrebbe essere
la Lega, già rovinata dalle scandalose questioni interne e da anni di
partecipazione a governi che hanno affossato il Paese. E fatto naufragare
soprattutto quel Nord che invece doveva essere tutelato, perché questa era la vera
missione del partito padano.
E poi, oggi, un nuovo
colpo di scena. Maroni cambia idea ancora una volta. Formigoni se ne deve
andare al più presto. Si dovrà votare ad aprile, in concomitanza con le
consultazioni politiche. La dirigenza leghista non ha retto alla pressione
della sua base come al contrario aveva fatto per lunghi anni. Stavolta però è
in gioco la sopravvivenza stessa del partito. Occorre dare ai militanti un
segnale forte, dimostrare che, al di là delle titubanze, un nuovo corso è stato
avviato.
E lui, il governatore,
rimane solo. Adesso è davvero assediato, è circondato. Formigoni dovrà cedere
per forza. Chissà se finalmente riuscirà a pronunciare quella parola,
dimissioni, che proprio non riesce a dire.
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