Lhasa, Tibet. Il cielo
è terso e l’aria frizzante. Sul grande spiazzo antistante l’altura di Marpo Ri,
la Collina Rossa, dove sorge il palazzo di Potala, scorrono pigre rare
automobile e qualche autobus. E poi gente in bicicletta, qualche carretto
trainato a mano, uomini a piedi, soprattutto tibetani. I pochi cinesi di etnia
han, riconoscibili da lontano per i loro abiti dai colori smorti, si affrettano
per andare ad aprire le loro botteghe. Altri cinesi, ma in divisa militare,
sono sparsi qua e là nella piazza. Sono le sette del mattino, e la città non ha
ancora ripreso del tutto il ritmo di ogni giorno.
Due militari, sostando
in piedi accanto alla loro camionetta, fumano con aria annoiata. Spengono una
sigaretta e ne accendono subito un’altra, e il tempo non passa mai. A un tratto
la loro attenzione è attirata da uno strano rumore che sembra provenire dal
cielo. Un fragore che, a poco a poco, diviene loro sempre più familiare. Il più
giovane dei due alza gli occhi e rimane a bocca aperta. La sigaretta gli cade
sul selciato.
“Gualda!” dice, rivolto
al collega. “Un elicottelo! Sta pel attellale nella piazza!”
“Non ne siamo stati
infolmati. Che cosa dobbiamo fale?” domanda l’altro.
“Sei tu il capo! Devi
decidele tu!”
“Ah! Allola aspettiamo
e vediamo che cosa succede. Folse si tlatta di una emelgenza.”
L’elicottero si abbassa
sempre più e la sua sagoma diventa sempre più grande. I due soldati sono
investiti da un forte vortice d’aria ma, stoicamente, resistono e non si
spostano. Alla fine il grosso velivolo si posa a terra. Dopo pochi istanti,
quando ancora le pale stanno mulinando, si apre uno sportello e scende un uomo.
I suoi capelli d’argento sono scompigliati dal vento.
“Stanno gilando un
film!” esclama il militare ragazzino.
“Che cosa?” domanda il
suo superiore, gridando per farsi udire nel gran trambusto.
“L’ho liconosciuto!
Quello è Lichald Gil, il famoso attole amelicano!”
“Sei siculo?”
“Celto! Ploplio il mese
scolso ho visto un suo film, Plitty Vuman!”
“Che dici? L’ho visto
anch’io ma non mi sembla sia lui.”
“Ti dico che è lui!
Solo che nel film ela più giovane.”
“Molto più giovane!”
dice l’altro, ridendo. Poi si accende l’ennesima sigaretta.
“Gualda!”
“Che c’è ancola?”
“Quell’altlo chi è?”
Dall’elicottero sta
scendendo un’altra persona. Sembra un uomo piuttosto anziano e indossa una
tunica svolazzante, dai colori accesi, giallo e arancione.
“Sembla un monaco!”
“Salà un attole vestito
da monaco…”
“Passami il binocolo,
plesto!” L’altro esegue e porge lo strumento.
“Polca puttana di una
tloia!”
“Che cosa c’è?” domanda
il giovane militare.
“Non è un attole! È
lui! É il Dalai Lama! Plesto! Plesto! Chiama Pechino! Chiama tutti!”
“Melda!”
L’elicottero sta già
ripartendo. E i due uomini che ne sono scesi, quello alto con i capelli
d’argento e quello basso, un po’ ingobbito e con il cranio rasato, si stanno
già dirigendo verso il palazzo di Potala, dove qualcuno li sta aspettando.
Subito dopo tutti spariscono alla vista, inghiottiti dal ventre capace
dell’immenso edificio.
“Accompagna il Maestro
nei suoi appartamenti, al Palazzo Bianco, sarà molto stanco e ha bisogno di
riposare” ordina Richard Gere a un giovane monaco. Tenzin Gyatso conferma, si
inchina con umiltà di fronte all’attore e poi segue il ragazzo dal cranio
rasato nel labirinto di piani e stanze del palazzo. Gere rimane con un altro
monaco.
“Portami dai miei
amici. Sono arrivati tutti?” Il monaco annuisce e si incammina a passo veloce,
seguito dall’americano. I due camminano a lungo, attraverso corridoi infiniti,
salendo e scendendo di piano, finché giungono nei pressi di un ampio salone, situato
nel Palazzo Rosso, e di solito utilizzato da gruppi di monaci per le loro abituali
preghiere.
“Accidenti” esclama
Gere, meravigliato. “Qui dentro è facile smarrirsi.”
“Le stanze sono più di
mille” risponde il monaco, che poi si allontana con discrezione, a rapidi
passi.
L’attore entra nel
salone e subito è travolto da un ciclone con fattezze femminili. La donna lo
abbraccia e poi lo bacia sulla bocca, con un gran schiocco prodotto dalle sue
labbra carnose e cosparse di un rossetto dal colore rosso brillante.
“Tina!”
“Richard! Finalmente!”
La cantante indossa un
top dorato, una microgonna nera e un paio di stivali a mezza coscia.
“Ehi! Che cosa hanno
detto i monaci riguardo al tuo abbigliamento?”
Tina Turner scuote il
capo leonino.
“Nulla! Erano talmente
in apprensione per il Maestro che non mi hanno neppure guardato! Sono proprio
da buttare?”
“Sei deliziosa, come
sempre. Anzi, sempre di più!”
“Grazie, mio caro.”
Quindi Richard Gere si
guarda attorno, alla ricerca degli altri compagni d’avventura. In un angolo
appartato scorge due uomini non più giovani impegnati in una partita a carte.
Uno è bianco, magro, con un gran naso e indossa una vistosa coppola bianca.
Accanto a lui è appoggiata una chitarra. L’altro invece è un nero dai capelli
ricci leggermente spruzzati di bianco, e porta degli occhiali scuri. Gere si
avvicina alla strana coppia. Entrambi appaiono molto concentrati nel gioco.
“Scopa!” esclama
all’improvviso il bianco.
L’altro sbuffa,
contrariato.
“Diavolo di un ebreo,
mi hai fregato ancora!”
Quando finalmente si
avvedono del nuovo arrivato, i due giocatori si alzano e lo salutano con grande
cordialità.
“La rivincita della
rivincita?” propone Herbie Hancock al suo avversario di gioco. Leonard Cohen
annuisce sornione.
“E gli altri? Dove sono
finiti gli altri? E quel ragazzino chi sarebbe?” domanda Gere alla Turner, che
lo segue come un cagnolino. Seduto in maniera scomposta su una grossa poltrona
di legno, con un videogioco stretto tra le mani, c’è un giovane biondo. Avrà
non più di quindici anni.
“Ah! Quello? È il caddy
di Tiger. Sai, se lo porta sempre dietro.”
“Anche Tiger è
arrivato?”
“Arrivato? Guarda che
Tiger era già qui da mesi.”
“Sul serio?”
“Certo, stava seguendo
un percorso di meditazione…”
“E si è portato il
caddy?”
Tina Turner si stringe
nelle spalle.
“Be’… perlomeno qui a
Potala non ci sono donne. O meglio, non c’erano fino al tuo arrivo” si corregge
appena in tempo Gere. “E dov’è adesso quel birbante di Tiger Woods?”
“Credo sia di sopra. Ha
scovato un corridoio lungo più di trecento metri e, con l’aiuto dei monaci, lo
ha ricoperto interamente con degli spessi tappeti. Un green un po’ rudimentale,
comunque utile per provare alcuni dei suoi colpi. Sai, ha intenzione di
riprendere alla grande!”
“Riprendere a fare che
cosa?” domanda Gere, preoccupato.
“Stai tranquillo, vuole
ricominciare giocare a golf. Con l’altro sport ha smesso, grazie all’aiuto dei
monaci.”
“Bene, sono contento
per lui.”
Richad Gere riprende ad
avanzare nell’ampio salone, sempre seguito come un’ombra, una grande ombra
scura, dalla Turner. Poi si arresta di colpo.
“E quello?” domanda,
distinguendo nell’oscurità una figura accovacciata accanto a una finestra.
“Quello? Boh! È un
italiano. Mi pare si chiami Roberto Bagghio, o Baggio che sia. Afferma di
essere un caro amico del Maestro, e appena ha saputo delle nostre intenzioni è
subito accorso. Si trovava in Birmania, e stava partecipando a una battuta di
caccia.”
“Caccia? Un buddista
che pratica la caccia?”
L’attore si avvicina al
piccoletto. Nota i suoi capelli ricci, e il sottile codino che ricade morbido
sulla nuca. L’italiano sfila il fucile da caccia grossa dalla feritoia della
finestra e gli porge la mano destra. Naturalmente, da buon italiano, parla
inglese in maniera tremenda. Riesce in qualche modo a presentarsi.
“Sei un attore?” gli
chiede Gere.
“No, ero un calciatore”
risponde l’altro.
“Un calciatore? Ma non
hai il fisico adatto!”
“Forse si riferisce al soccer” interviene Tina Turner. E Baggio
conferma con un impercettibile cenno del capo.
“E come hai fatto a
portare con te quel mostruoso fucile?” domanda ancora l’attore americano.
“In cambio di alcuni
autografi. Sai, sono ancora piuttosto conosciuto, qui in Oriente.”
“Ah!” esclama Gere,
meravigliato. Non ha mai sentito parlare di lui, di quel piccolo italiano dallo
sguardo determinato.
Un rimbombo di passi
sul pavimento.
“Richard, eccoci!”
Steven Seagal e Orlando
Bloom arrivano di corsa. Entrambi sono fradici di sudore.
“Ehi! Che cosa stavate
facendo?”
“Abbiamo praticato un
po’ di arti marziali, tanto per mantenerci in forma. E poi, chissà, ne potremmo
aver bisogno” spiega Seagal, che sovrasta tutti con la sua alta statura.
“Mi auguro di no” dice
Gere. (continua)
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