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lunedì 27 agosto 2012

RITORNO A LHASA - parte 2°



Lhasa, Tibet. Il cielo è terso e l’aria frizzante. Sul grande spiazzo antistante l’altura di Marpo Ri, la Collina Rossa, dove sorge il palazzo di Potala, scorrono pigre rare automobile e qualche autobus. E poi gente in bicicletta, qualche carretto trainato a mano, uomini a piedi, soprattutto tibetani. I pochi cinesi di etnia han, riconoscibili da lontano per i loro abiti dai colori smorti, si affrettano per andare ad aprire le loro botteghe. Altri cinesi, ma in divisa militare, sono sparsi qua e là nella piazza. Sono le sette del mattino, e la città non ha ancora ripreso del tutto il ritmo di ogni giorno.
Due militari, sostando in piedi accanto alla loro camionetta, fumano con aria annoiata. Spengono una sigaretta e ne accendono subito un’altra, e il tempo non passa mai. A un tratto la loro attenzione è attirata da uno strano rumore che sembra provenire dal cielo. Un fragore che, a poco a poco, diviene loro sempre più familiare. Il più giovane dei due alza gli occhi e rimane a bocca aperta. La sigaretta gli cade sul selciato.
“Gualda!” dice, rivolto al collega. “Un elicottelo! Sta pel attellale nella piazza!”
“Non ne siamo stati infolmati. Che cosa dobbiamo fale?” domanda l’altro.
“Sei tu il capo! Devi decidele tu!”
“Ah! Allola aspettiamo e vediamo che cosa succede. Folse si tlatta di una emelgenza.”
L’elicottero si abbassa sempre più e la sua sagoma diventa sempre più grande. I due soldati sono investiti da un forte vortice d’aria ma, stoicamente, resistono e non si spostano. Alla fine il grosso velivolo si posa a terra. Dopo pochi istanti, quando ancora le pale stanno mulinando, si apre uno sportello e scende un uomo. I suoi capelli d’argento sono scompigliati dal vento.
“Stanno gilando un film!” esclama il militare ragazzino.
“Che cosa?” domanda il suo superiore, gridando per farsi udire nel gran trambusto.
“L’ho liconosciuto! Quello è Lichald Gil, il famoso attole amelicano!”
“Sei siculo?”
“Celto! Ploplio il mese scolso ho visto un suo film, Plitty Vuman!”
“Che dici? L’ho visto anch’io ma non mi sembla sia lui.”
“Ti dico che è lui! Solo che nel film ela più giovane.”
“Molto più giovane!” dice l’altro, ridendo. Poi si accende l’ennesima sigaretta.
“Gualda!”
“Che c’è ancola?”
“Quell’altlo chi è?”
Dall’elicottero sta scendendo un’altra persona. Sembra un uomo piuttosto anziano e indossa una tunica svolazzante, dai colori accesi, giallo e arancione.
“Sembla un monaco!”
“Salà un attole vestito da monaco…”
“Passami il binocolo, plesto!” L’altro esegue e porge lo strumento.
“Polca puttana di una tloia!”
“Che cosa c’è?” domanda il giovane militare.
“Non è un attole! È lui! É il Dalai Lama! Plesto! Plesto! Chiama Pechino! Chiama tutti!”
“Melda!”
L’elicottero sta già ripartendo. E i due uomini che ne sono scesi, quello alto con i capelli d’argento e quello basso, un po’ ingobbito e con il cranio rasato, si stanno già dirigendo verso il palazzo di Potala, dove qualcuno li sta aspettando. Subito dopo tutti spariscono alla vista, inghiottiti dal ventre capace dell’immenso edificio.

“Accompagna il Maestro nei suoi appartamenti, al Palazzo Bianco, sarà molto stanco e ha bisogno di riposare” ordina Richard Gere a un giovane monaco. Tenzin Gyatso conferma, si inchina con umiltà di fronte all’attore e poi segue il ragazzo dal cranio rasato nel labirinto di piani e stanze del palazzo. Gere rimane con un altro monaco.
“Portami dai miei amici. Sono arrivati tutti?” Il monaco annuisce e si incammina a passo veloce, seguito dall’americano. I due camminano a lungo, attraverso corridoi infiniti, salendo e scendendo di piano, finché giungono nei pressi di un ampio salone, situato nel Palazzo Rosso, e di solito utilizzato da gruppi di monaci per le loro abituali preghiere.
“Accidenti” esclama Gere, meravigliato. “Qui dentro è facile smarrirsi.”
“Le stanze sono più di mille” risponde il monaco, che poi si allontana con discrezione, a rapidi passi.
L’attore entra nel salone e subito è travolto da un ciclone con fattezze femminili. La donna lo abbraccia e poi lo bacia sulla bocca, con un gran schiocco prodotto dalle sue labbra carnose e cosparse di un rossetto dal colore rosso brillante.
“Tina!”
“Richard! Finalmente!”
La cantante indossa un top dorato, una microgonna nera e un paio di stivali a mezza coscia.
“Ehi! Che cosa hanno detto i monaci riguardo al tuo abbigliamento?”
Tina Turner scuote il capo leonino.
“Nulla! Erano talmente in apprensione per il Maestro che non mi hanno neppure guardato! Sono proprio da buttare?”
“Sei deliziosa, come sempre. Anzi, sempre di più!”
“Grazie, mio caro.”
Quindi Richard Gere si guarda attorno, alla ricerca degli altri compagni d’avventura. In un angolo appartato scorge due uomini non più giovani impegnati in una partita a carte. Uno è bianco, magro, con un gran naso e indossa una vistosa coppola bianca. Accanto a lui è appoggiata una chitarra. L’altro invece è un nero dai capelli ricci leggermente spruzzati di bianco, e porta degli occhiali scuri. Gere si avvicina alla strana coppia. Entrambi appaiono molto concentrati nel gioco.
“Scopa!” esclama all’improvviso il bianco.
L’altro sbuffa, contrariato.
“Diavolo di un ebreo, mi hai fregato ancora!”
Quando finalmente si avvedono del nuovo arrivato, i due giocatori si alzano e lo salutano con grande cordialità.
“La rivincita della rivincita?” propone Herbie Hancock al suo avversario di gioco. Leonard Cohen annuisce sornione.
“E gli altri? Dove sono finiti gli altri? E quel ragazzino chi sarebbe?” domanda Gere alla Turner, che lo segue come un cagnolino. Seduto in maniera scomposta su una grossa poltrona di legno, con un videogioco stretto tra le mani, c’è un giovane biondo. Avrà non più di quindici anni.
“Ah! Quello? È il caddy di Tiger. Sai, se lo porta sempre dietro.”
“Anche Tiger è arrivato?”
“Arrivato? Guarda che Tiger era già qui da mesi.”
“Sul serio?”
“Certo, stava seguendo un percorso di meditazione…”
“E si è portato il caddy?”
Tina Turner si stringe nelle spalle.
“Be’… perlomeno qui a Potala non ci sono donne. O meglio, non c’erano fino al tuo arrivo” si corregge appena in tempo Gere. “E dov’è adesso quel birbante di Tiger Woods?”
“Credo sia di sopra. Ha scovato un corridoio lungo più di trecento metri e, con l’aiuto dei monaci, lo ha ricoperto interamente con degli spessi tappeti. Un green un po’ rudimentale, comunque utile per provare alcuni dei suoi colpi. Sai, ha intenzione di riprendere alla grande!”
“Riprendere a fare che cosa?” domanda Gere, preoccupato.
“Stai tranquillo, vuole ricominciare giocare a golf. Con l’altro sport ha smesso, grazie all’aiuto dei monaci.”
“Bene, sono contento per lui.”
Richad Gere riprende ad avanzare nell’ampio salone, sempre seguito come un’ombra, una grande ombra scura, dalla Turner. Poi si arresta di colpo.
“E quello?” domanda, distinguendo nell’oscurità una figura accovacciata accanto a una finestra.
“Quello? Boh! È un italiano. Mi pare si chiami Roberto Bagghio, o Baggio che sia. Afferma di essere un caro amico del Maestro, e appena ha saputo delle nostre intenzioni è subito accorso. Si trovava in Birmania, e stava partecipando a una battuta di caccia.”
“Caccia? Un buddista che pratica la caccia?”
L’attore si avvicina al piccoletto. Nota i suoi capelli ricci, e il sottile codino che ricade morbido sulla nuca. L’italiano sfila il fucile da caccia grossa dalla feritoia della finestra e gli porge la mano destra. Naturalmente, da buon italiano, parla inglese in maniera tremenda. Riesce in qualche modo a presentarsi.
“Sei un attore?” gli chiede Gere.
“No, ero un calciatore” risponde l’altro.
“Un calciatore? Ma non hai il fisico adatto!”
“Forse si riferisce al soccer” interviene Tina Turner. E Baggio conferma con un impercettibile cenno del capo.
“E come hai fatto a portare con te quel mostruoso fucile?” domanda ancora l’attore americano.
“In cambio di alcuni autografi. Sai, sono ancora piuttosto conosciuto, qui in Oriente.”
“Ah!” esclama Gere, meravigliato. Non ha mai sentito parlare di lui, di quel piccolo italiano dallo sguardo determinato.
Un rimbombo di passi sul pavimento.
“Richard, eccoci!”
Steven Seagal e Orlando Bloom arrivano di corsa. Entrambi sono fradici di sudore.
“Ehi! Che cosa stavate facendo?”
“Abbiamo praticato un po’ di arti marziali, tanto per mantenerci in forma. E poi, chissà, ne potremmo aver bisogno” spiega Seagal, che sovrasta tutti con la sua alta statura.
“Mi auguro di no” dice Gere. (continua)

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