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giovedì 16 agosto 2012

IL BUCO



Ecco, lo vedo bene, è proprio sotto lo scrittoio. Poso il libro che sto leggendo, perché non riesco a proseguire, ormai ho perso del tutto la concentrazione, e mi sporgo dalla poltrona. Il mio sguardo si posa sempre su quel punto, che in è parte nascosto. Mi volto e osservo mia moglie. È distesa sul letto, e sta sfogliando una delle sue riviste di architettura. Non sono mai riuscito a comprendere quel suo stupido interesse per divani, soprammobili e tappeti. Per le eleganti dimore di campagna, che noi non ci potremo mai permettere. E lei lo sa. A me tutte quelle cose, quegli inutili oggetti, non interessano per niente. Mi tocca dissimulare di continuo, fingere una partecipazione che non provo affatto, allo scopo di assecondarla. In fondo, che cosa mi costa?
Senza dire nulla mi alzo e mi dirigo verso quel pezzo di pavimento, verso quella mattonella che tanto mi inquieta. Mi sistemo a quattro zampe e mi abbasso. Guardo con attenzione quel buco, quel foro netto che, ne sono certo, ieri non c’era. Perché, se ci fosse stato, di sicuro l’avrei subito notato. Come è accaduto oggi, d’altra parte.
Mia moglie nota il mio improvviso movimento. Lo intuisco dal fruscio delle lenzuola. Si toglie gli occhiali, con il suo solito gesto elegante, immagino, mi apostrofa.
“Che cosa stai facendo?” domanda, un po’ stupita.
Non mi volto.
“C’è un buco” dico.
“Eh?”
Non rispondo. Avvicino ancora di più un occhio all’allarmante pertugio. Noto i suoi bordi regolari, lisci. Non riesco a vedere nulla, però sento una specie di ronzio, un suono ad alta frequenza. No, non è proprio una vibrazione, la mia impressione è che si tratti piuttosto di un lancinante lamento. Mi scosto di colpo, con un balzo mi proietto all’indietro. Mi ritrovo seduto a terra, sul freddo pavimento. Sento una risata.
“Ehi! Ma sei impazzito?”
Mi rialzo, cercando di recuperare un minimo di dignità. La posizione eretta mi permette di farlo nel volgere di un attimo.
“C’è un buco” ripeto come un automa. Il cuore mi martella nel petto.
“Ho capito!” dice mia moglie. “Forse c’è sempre stato e non l’abbiamo mai visto. Per fortuna è nascosto.”
Mi avvicino a lei, e vedo che la sua espressione da divertita diventa all’improvviso seria. Forse ha notato il pallore del mio volto, il mio evidente turbamento.
“Dentro c’è qualcosa” aggiungo, con voce dal timbro irriconoscibile.
“Ah! Insetti!” grida mia moglie, e nello stesso tempo scatta a terra e mi si avvicina.
“Vado a prendere l’insetticida” dice, mentre esce dalla camera e si dirige verso il ripostiglio. A differenza di me, lei è un tipo pratico.
“Aspetta!” dico, e la blocco. “Portami una torcia, presto!”
Lei torna sui suoi passi, mi scruta per un attimo, poi apre un cassetto del comodino e mi porge quanto le ho chiesto.
“Che cosa vuoi fare?” domanda.
“Voglio dare un’occhiata” rispondo. Ho la bocca secca, faccio fatica a deglutire.
Lei annuisce, poco convinta.
Accendo la torcia e mi avvicino di nuovo al buco. Con estrema cautela, perché ho paura di udire ancora quel terribile sibilo. Il foro è abbastanza grande, e il fascio di luce riesce a penetrare al suo interno, tanto da consentirmi di scorgere qualcosa. Un brulichio, una ridda di piccoli esseri. Esamino la scena con maggiore attenzione, tentando di vincere l’inspiegabile e irrazionale terrore che si sta impossessando di me. Vedo distintamente le loro teste, e poi i sottili arti scuri. E i loro scudi rossi, rotondi, dai quali spuntano minacciose delle minuscole lance.
È troppo. Lancio un urlo straziante, la torcia mi sfugge di mano, mi ritraggo e mi scontro con mia moglie, che sta accorrendo. L’abbraccio, tremante. Sono sconvolto, e balbetto in maniera penosa.
Lei non capisce ciò che sto cercando di dire, con una vigorosa spinta mi scosta da sé e si precipita sul buco. Prende la torcia e, accucciandosi, osserva a sua volta. Dopo un po’ si rialza, e viene verso di me scuotendo il capo.
“Che hai visto?” dice, tranquilla. “Sono soltanto degli scarafaggi. Sembrano rossi.”
“No!”
“Ehi! Si può sapere che ti prende? Non hai mai avuto timore degli insetti. Che cosa credi, che a me non facciano schifo? Vado a prendere l’insetticida e li faccio fuori!”
“No, aspetta!”
“Smettila!” E cerca di slanciarsi nuovamente fuori dalla stanza. Le afferro un braccio, con violenza.
“Non si tratta di insetti, sono guerrieri” dico, tutto di un fiato.
Lei si blocca, sbigottita.
“Lo sai che adesso mi fai paura?” dice. Nei suoi occhi, in effetti, scorgo lo spavento.
“Se li aggrediamo loro reagiranno. Sono bene armati, e non sappiamo quanti siano. Potrebbero essere milioni, ed avere ormai invaso tutta la casa.”
“Lasciami.” La sua voce è roca, irriconoscibile.
“No, non posso:”
“Che cosa intendi fare?” aggiunge, sempre con quella voce strana, dal timbro sconosciuto.
“Dobbiamo trattare”. Ecco, l’ho detto. Mi rendo conto di quanto la mia affermazione possa apparire assurda e priva di logica, tuttavia a me pare del tutto giustificata, ragionevole. Mia moglie invece non sembra essere d’accordo. Segue tra noi un silenzio carico di tensione. Poi, di colpo, lei si divincola ma io resisto. Un attimo dopo sento la pesante lampada di ottone, l’unico vero pezzo di design che abbiamo mai posseduto, abbattersi sul mio capo. Il buio mi assale. Forse cado a terra, forse muoio. In realtà, come faccio a saperlo?

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