Da alcuni giorni ha fatto il suo ingresso in scena alle
Olimpiadi la Regina dei Giochi: l’atletica
leggera. Per gli autentici cultori di questa disciplina, per i veri
appassionati, questo sport merita di essere apprezzato in tutti i suoi aspetti,
nell’intera varietà delle discipline che lo contraddistinguono: la corsa, i
salti e i lanci. Chi invece segue l’atletica soltanto in occasione delle grandi
manifestazioni internazionali, come appunto le Olimpiadi oppure i campionati
Mondiali, si esalta soprattutto di fronte alle imprese dei campioni della
velocità, cioè delle gare di corse breve.
Usain Bolt, il fantastico atleta giamaicano, è riuscito a
riconfermarsi campione olimpico della distanza breve, i 100 metri, e tutto fa
pensare che l’impresa possa essere ripetuta, senza grossi affanni, sulla
distanza doppia.
Anche altre specialità della velocità, come i 400 metri e i
400 metri a ostacoli, sono state dominate da atleti di piccole nazioni
caraibiche, come Grenada e la Repubblica Dominicana.
Tutto ciò potrebbe far pensare che certe distanze siano
ormai completa prerogativa di un gruppo di sportivi dotati di peculiari
caratteristiche fisiche, una specie di razza
superiore. Un fenomeno in estensione da tempo ma che ha trovato la completa
consacrazione in particolare negli ultimi due decenni o poco più.
È tramontata da tempo, e tutto fa supporre in maniera
definitiva, l’era degli sprinter europei bianchi. Il ricordo di velocisti di
grande valore come l’allora sovietico Valery Borzov o del britannico Alan Wells,
per non parlare del nostro Pietro Mennea (campione olimpico e primatista
mondiale dei 200 metri) sbiadisce sempre di più, e le loro memorabili imprese
sportive sono ormai memoria di pochi.
Ci si domanda che cosa abbia condotto alla situazione
attuale, quali siano le vere ragioni, e se sia possibile fornire spiegazioni
convincenti.
Gli atleti afro-americani (sempre trionfatori fino a qualche
anno fa) e quelli caraibici (adesso) sono senza dubbio il prodotto di una
selezione genetica involontaria, le cui radici sono da ricercarsi nella storia,
in un evento che si è perpetuato per lungo tempo, vale a dire la tratta degli
schiavi.
Dalle varie nazioni africani gli esseri umani migliori, i più sani, i più resistenti,
i più robusti, sono stati deportati con la forza verso gli attuali Stati Uniti,
i paesi dei Caraibi, il Brasile e sono stati costretti a lavorare, in
condizioni inumane, nelle piantagioni di cotone, di caffè e di canna da
zucchero. Nel corso del tempo le generazioni successive a quelle dei primi
schiavi hanno ottenuto finalmente la libertà, hanno migliorato sempre di più le
loro condizioni di vita, si sono inseriti a pieno titolo nelle società dei loro
paesi, si sono moltiplicati i contatti con le altre culture, hanno avuto infine
la possibilità di praticare lo sport e di essere seguiti dai migliori tecnici. Fino
a raggiungere gli strabilianti risultati dei quali tutti siamo attualmente testimoni.
E il prevalere ultimo degli atleti caraibici rispetto ai neri americani indica
che questi ultimi hanno già iniziato una inversione di tendenza, nel senso che,
in parte, si sta verificando un loro lento ma progressivo imborghesimento, dovuto sopra ogni cosa alle eccellenti condizioni
di vita (gli sportivi americani di buon valore sono vezzeggiati, all’eccesso,
fin dalla giovane età).
Nei prossimi anni sarà quindi inevitabile assistere a un
predominio sempre più netto, nelle discipline dell’atletica sopra citate, da
parte di quella che, con un termine un po’ infelice, può essere definita, in
tale ambito, come una vera e propria razza
padrona.
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