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mercoledì 8 agosto 2012

RAZZA PADRONA



Da alcuni giorni ha fatto il suo ingresso in scena alle Olimpiadi la Regina dei Giochi: l’atletica leggera. Per gli autentici cultori di questa disciplina, per i veri appassionati, questo sport merita di essere apprezzato in tutti i suoi aspetti, nell’intera varietà delle discipline che lo contraddistinguono: la corsa, i salti e i lanci. Chi invece segue l’atletica soltanto in occasione delle grandi manifestazioni internazionali, come appunto le Olimpiadi oppure i campionati Mondiali, si esalta soprattutto di fronte alle imprese dei campioni della velocità, cioè delle gare di corse breve.
Usain Bolt, il fantastico atleta giamaicano, è riuscito a riconfermarsi campione olimpico della distanza breve, i 100 metri, e tutto fa pensare che l’impresa possa essere ripetuta, senza grossi affanni, sulla distanza doppia.
Anche altre specialità della velocità, come i 400 metri e i 400 metri a ostacoli, sono state dominate da atleti di piccole nazioni caraibiche, come Grenada e la Repubblica Dominicana.
Tutto ciò potrebbe far pensare che certe distanze siano ormai completa prerogativa di un gruppo di sportivi dotati di peculiari caratteristiche fisiche, una specie di razza superiore. Un fenomeno in estensione da tempo ma che ha trovato la completa consacrazione in particolare negli ultimi due decenni o poco più.
È tramontata da tempo, e tutto fa supporre in maniera definitiva, l’era degli sprinter europei bianchi. Il ricordo di velocisti di grande valore come l’allora sovietico Valery Borzov o del britannico Alan Wells, per non parlare del nostro Pietro Mennea (campione olimpico e primatista mondiale dei 200 metri) sbiadisce sempre di più, e le loro memorabili imprese sportive sono ormai memoria di pochi.
Ci si domanda che cosa abbia condotto alla situazione attuale, quali siano le vere ragioni, e se sia possibile fornire spiegazioni convincenti.
Gli atleti afro-americani (sempre trionfatori fino a qualche anno fa) e quelli caraibici (adesso) sono senza dubbio il prodotto di una selezione genetica involontaria, le cui radici sono da ricercarsi nella storia, in un evento che si è perpetuato per lungo tempo, vale a dire la tratta degli schiavi.
Dalle varie nazioni africani gli esseri umani migliori, i più sani, i più resistenti, i più robusti, sono stati deportati con la forza verso gli attuali Stati Uniti, i paesi dei Caraibi, il Brasile e sono stati costretti a lavorare, in condizioni inumane, nelle piantagioni di cotone, di caffè e di canna da zucchero. Nel corso del tempo le generazioni successive a quelle dei primi schiavi hanno ottenuto finalmente la libertà, hanno migliorato sempre di più le loro condizioni di vita, si sono inseriti a pieno titolo nelle società dei loro paesi, si sono moltiplicati i contatti con le altre culture, hanno avuto infine la possibilità di praticare lo sport e di essere seguiti dai migliori tecnici. Fino a raggiungere gli strabilianti risultati dei quali tutti siamo attualmente testimoni. E il prevalere ultimo degli atleti caraibici rispetto ai neri americani indica che questi ultimi hanno già iniziato una inversione di tendenza, nel senso che, in parte, si sta verificando un loro lento ma progressivo imborghesimento, dovuto sopra ogni cosa alle eccellenti condizioni di vita (gli sportivi americani di buon valore sono vezzeggiati, all’eccesso, fin dalla giovane età).
Nei prossimi anni sarà quindi inevitabile assistere a un predominio sempre più netto, nelle discipline dell’atletica sopra citate, da parte di quella che, con un termine un po’ infelice, può essere definita, in tale ambito, come una vera e propria razza padrona.  

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