Si era preparato con
cura meticolosa per quattro lunghi anni. I sacrifici e le rinunce erano stati
enormi, inenarrabili. Era vissuto in una specie di mondo a parte, parallelo, a
stretto contatto soltanto con i compagni di fatica, i tecnici, i medici e i dirigenti.
Tutti gli altri non erano più esistiti, non più la famiglia, non più gli amici.
Non c’era più stata una vita normale, fatta di tanti piccoli e, in apparenza,
insignificanti gesti. Solo gli allenamenti, continui e massacranti. La
ripetizione fino alla noia, fino alla nausea, fino allo sfinimento, degli stessi
movimenti, alla ricerca di una perfezione che non sembrava arrivare mai. Il suo
organismo era stato sollecitato all’estremo, ma aveva resistito. Giorni, mesi e
anni tutti uguali, scanditi dagli ordini degli allenatori, da una disciplina
interiore che non era mai venuta meno, da una inflessibile volontà che non aveva
mai dato segno di cedimento alcuno.
Perché chi si arrende
ha già perso. Chi si rivela più debole e rinuncia si priva della possibilità di
competere, tutto diventa inutile e privo di senso. Non era il suo caso. Lui non
aveva mai tentennato, neppure per un solo attimo, quasi invasato da una
determinazione feroce, incrollabile. Niente era stato in grado di scalfirla. Né
le difficoltà, che pure si erano presentate, né lo scoramento che,
inevitabilmente, a volte lo aveva assalito. Di sera, soprattutto, quando si
ritrovava solo, quando ripensava alla giornata trascorsa, agli errori o alle
semplici imperfezioni di cui si era macchiato. Durante la notte, preda del
pesante silenzio, quando soffriva di insonnia ed era colto dall’angoscia al
pensiero del giorno successivo che poi, quando finalmente arrivava, si mostrava
non più spietato dei tanti già trascorsi. Ma, per buona sorte, c’erano anche le
piccole soddisfazioni. Un lieve miglioramento, quasi impercettibile ma
significativo, salutato da tutti con congratulazioni sincere, con abbracci e
amichevoli pacche sulle robuste spalle; oppure una prestazione atletica
particolarmente riuscita, che per primo aveva stupito lui stesso, ancor prima
di ricevere il meritato plauso da parte dei compiaciuti istruttori.
E poi c’erano quelle
voci, quelle dicerie maligne che, nonostante tutto, riuscivano a penetrare le spesse
pareti del suo sofferto isolamento. Chiacchiere e pettegolezzi, chissà se
fondate o meno, sull’uso di certe sostanze e sull’esercizio di pratiche proibite da
parte degli avversari. Lui non ci voleva credere, rifiutava a priori quelle
malevoli supposizioni, tuttavia un tarlo pernicioso si insinuava ugualmente
nella sua mente provata, e iniziava a rodere, rovinando e rendendo ancora più
dure le sue giornate. Alla fine, però, riusciva a scacciarlo, a trasformarlo in
un fantasma innocuo, e riprendeva il suo impegno con rinnovato entusiasmo.
Tutto ciò, tutta l’inumana
fatica, e i terribili tormenti che la accompagnavano, era indirizzato a un
unico scopo, a un solo ed esclusivo traguardo: vincere.
Poco alla volta, nondimeno,
lui si era reso conto che non avrebbe mai vinto. Gli mancava qualcosa, quel
pizzico di talento in grado di trasformare un ottimo atleta in un vincente, in
un campione. Questa cruda consapevolezza non aveva comunque scalfito la sua
fermezza. Anzi, aveva rappresentato per lui addirittura una spinta in più,
soprattutto da quando aveva assunto quella sua originale determinazione, quella
di essere in ogni caso il migliore, ma il migliore tra gli sconfitti.
Da quel momento aveva
lavorato soltanto per quello. Aveva proseguito, indomito, ad esercitare il
fisico ma, nello stesso tempo, aveva iniziato a preparare la mente.
E, alla fine, pensava
proprio di esserci riuscito. Perché si sentiva forte, anche se non abbastanza
forte per vincere, ma si sentiva soprattutto sereno.
Ne ebbe la prova
decisiva proprio la sera della sua gara. Naturalmente, pur facendo una grande
prestazione, non vinse. In realtà, non vinse per pochissimo. Tutti quegli che
gli stavano attorno furono molto delusi, imprecarono, invocarono la sorte
avversa, cercarono in tutti i modo di consolarlo. Ma non ce n’era bisogno, e
ben presto tutti se ne resero conto, e si meravigliarono. Mai nessuno era stato
in grado di perdere in quel modo, conservando quella tranquillità, quella
stupenda leggerezza. Fu lui stesso a rincuorare il suo allenatore, che era
scoppiato in lacrime, lacrime di rabbia e di sconforto. Ed era stato bellissimo
abbracciare il vincitore, e il terzo classificato, scambiare con loro
gesti camerateschi e affettuosi, fondere con il loro il proprio sudore, parlare
con quei ragazzi in una lingua che non era la sua, e che forse non era di nessuno,
ma che permetteva loro, in ogni caso, di comprendersi.
Ed era stato delizioso
vederli salire sul podio, ricevere le meritate medaglie, scorgere gli occhi
lucidi del vincitore mentre ascoltava l’inno del proprio paese, tra il tripudio
dell’intero stadio.
No, non si sentiva per
nulla un perdente. Tantomeno si sentiva umiliato. Ed era difficile esternare ad
altri quelle profonde e complesse sensazioni, perché temeva che non avrebbero
compreso. Perché lui, per il solo fatto di aver partecipato, si sentiva
comunque un vincitore.
E poi, pensò sorridendo
tra sé, se non ci fossero stati gli sconfitti, com’era lui, non avrebbero potuto
esistere nemmeno i vincitori. Proprio per tale ragione, chissà, i suoi avversari lo
avevano ringraziato con così tanto calore.
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