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domenica 12 agosto 2012

BISOGNA SAPER PERDERE



Si era preparato con cura meticolosa per quattro lunghi anni. I sacrifici e le rinunce erano stati enormi, inenarrabili. Era vissuto in una specie di mondo a parte, parallelo, a stretto contatto soltanto con i compagni di fatica, i tecnici, i medici e i dirigenti. Tutti gli altri non erano più esistiti, non più la famiglia, non più gli amici. Non c’era più stata una vita normale, fatta di tanti piccoli e, in apparenza, insignificanti gesti. Solo gli allenamenti, continui e massacranti. La ripetizione fino alla noia, fino alla nausea, fino allo sfinimento, degli stessi movimenti, alla ricerca di una perfezione che non sembrava arrivare mai. Il suo organismo era stato sollecitato all’estremo, ma aveva resistito. Giorni, mesi e anni tutti uguali, scanditi dagli ordini degli allenatori, da una disciplina interiore che non era mai venuta meno, da una inflessibile volontà che non aveva mai dato segno di cedimento alcuno.
Perché chi si arrende ha già perso. Chi si rivela più debole e rinuncia si priva della possibilità di competere, tutto diventa inutile e privo di senso. Non era il suo caso. Lui non aveva mai tentennato, neppure per un solo attimo, quasi invasato da una determinazione feroce, incrollabile. Niente era stato in grado di scalfirla. Né le difficoltà, che pure si erano presentate, né lo scoramento che, inevitabilmente, a volte lo aveva assalito. Di sera, soprattutto, quando si ritrovava solo, quando ripensava alla giornata trascorsa, agli errori o alle semplici imperfezioni di cui si era macchiato. Durante la notte, preda del pesante silenzio, quando soffriva di insonnia ed era colto dall’angoscia al pensiero del giorno successivo che poi, quando finalmente arrivava, si mostrava non più spietato dei tanti già trascorsi. Ma, per buona sorte, c’erano anche le piccole soddisfazioni. Un lieve miglioramento, quasi impercettibile ma significativo, salutato da tutti con congratulazioni sincere, con abbracci e amichevoli pacche sulle robuste spalle; oppure una prestazione atletica particolarmente riuscita, che per primo aveva stupito lui stesso, ancor prima di ricevere il meritato plauso da parte dei compiaciuti istruttori.
E poi c’erano quelle voci, quelle dicerie maligne che, nonostante tutto, riuscivano a penetrare le spesse pareti del suo sofferto isolamento. Chiacchiere e pettegolezzi, chissà se fondate o meno, sull’uso di certe sostanze e sull’esercizio di pratiche proibite da parte degli avversari. Lui non ci voleva credere, rifiutava a priori quelle malevoli supposizioni, tuttavia un tarlo pernicioso si insinuava ugualmente nella sua mente provata, e iniziava a rodere, rovinando e rendendo ancora più dure le sue giornate. Alla fine, però, riusciva a scacciarlo, a trasformarlo in un fantasma innocuo, e riprendeva il suo impegno con rinnovato entusiasmo.
Tutto ciò, tutta l’inumana fatica, e i terribili tormenti che la accompagnavano, era indirizzato a un unico scopo, a un solo ed esclusivo traguardo: vincere.
Poco alla volta, nondimeno, lui si era reso conto che non avrebbe mai vinto. Gli mancava qualcosa, quel pizzico di talento in grado di trasformare un ottimo atleta in un vincente, in un campione. Questa cruda consapevolezza non aveva comunque scalfito la sua fermezza. Anzi, aveva rappresentato per lui addirittura una spinta in più, soprattutto da quando aveva assunto quella sua originale determinazione, quella di essere in ogni caso il migliore, ma il migliore tra gli sconfitti.
Da quel momento aveva lavorato soltanto per quello. Aveva proseguito, indomito, ad esercitare il fisico ma, nello stesso tempo, aveva iniziato a preparare la mente.
E, alla fine, pensava proprio di esserci riuscito. Perché si sentiva forte, anche se non abbastanza forte per vincere, ma si sentiva soprattutto sereno.
Ne ebbe la prova decisiva proprio la sera della sua gara. Naturalmente, pur facendo una grande prestazione, non vinse. In realtà, non vinse per pochissimo. Tutti quegli che gli stavano attorno furono molto delusi, imprecarono, invocarono la sorte avversa, cercarono in tutti i modo di consolarlo. Ma non ce n’era bisogno, e ben presto tutti se ne resero conto, e si meravigliarono. Mai nessuno era stato in grado di perdere in quel modo, conservando quella tranquillità, quella stupenda leggerezza. Fu lui stesso a rincuorare il suo allenatore, che era scoppiato in lacrime, lacrime di rabbia e di sconforto. Ed era stato bellissimo abbracciare il vincitore, e il terzo classificato, scambiare con loro gesti camerateschi e affettuosi, fondere con il loro il proprio sudore, parlare con quei ragazzi in una lingua che non era la sua, e che forse non era di nessuno, ma che permetteva loro, in ogni caso, di comprendersi.  
Ed era stato delizioso vederli salire sul podio, ricevere le meritate medaglie, scorgere gli occhi lucidi del vincitore mentre ascoltava l’inno del proprio paese, tra il tripudio dell’intero stadio.
No, non si sentiva per nulla un perdente. Tantomeno si sentiva umiliato. Ed era difficile esternare ad altri quelle profonde e complesse sensazioni, perché temeva che non avrebbero compreso. Perché lui, per il solo fatto di aver partecipato, si sentiva comunque un vincitore.
E poi, pensò sorridendo tra sé, se non ci fossero stati gli sconfitti, com’era lui, non avrebbero potuto esistere nemmeno i vincitori. Proprio per tale ragione, chissà, i suoi avversari lo avevano ringraziato con così tanto calore.

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