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mercoledì 31 agosto 2011

FORMICHE



Da ragazzo mi divertivo a torturare le formiche.
L’estate, allora, era lunga, e i pomeriggi interminabili. Spesso mi assaliva la noia. Quando avevo esaurito tutte le – poche – possibilità di svago, rivolgevo la mia attenzione al mondo di quei minuscoli esseri. Carponi,  percorrevo l’ampio cortile, partendo da un punto qualunque, e cercavo di individuare i mucchietti di terriccio fine che segnalavano la presenza di nidi. Per forza di cose – poiché mi trovavo in campagna – la ricerca richiedeva poco tempo ed era sempre fruttuosa.
A quel punto, mi appostavo paziente e iniziavo a osservare l’andirivieni dei laboriosi insetti. Spesso sul terreno erano presenti briciole di pane o altri residui commestibili e, quando non era così, vi provvedevo personalmente. Ciò attirava immediatamente l’attenzione delle formiche che, dopo una rapida ispezione, si mettevano subito al lavoro. Uscivano dalla tana numerose e disposte in fila indiana, afferravano in qualche modo quei resti, un peso enorme, sproporzionato per i loro piccoli corpi, e li trascinavano fino ai loro cunicoli sotterranei. Uno spettacolo straordinario che, nondimeno, dopo un po’ diventava monotono. E di nuovo ero aggredito dal tedio. Per le povere formiche iniziava il tormento. Mi alzavo in piedi e cominciavo a schiacciarle, frantumando, spezzettando quei piccoli corpi scricchiolanti. I poveri insetti si contorcevano per la sofferenza, ormai stritolati e quasi ridotti in polvere. Tutto ciò mi lasciava indifferente, anche quando portavo a termine la mia opera distruttrice utilizzando strumenti quali grosse pietre oppure un martello. Molte volte ricorrevo al fuoco. Osservavo, come detto, in modo freddo, distaccato, senza provare alcuna emozione. Lo facevo quasi tutti giorni. Tale crudele attività era diventata per me un normale passatempo.
Le formiche, tuttavia, erano gli unici insetti bersaglio della mia persecuzione. Stavo alla larga da tutti gli altri, non perché ne avessi timore, e neppure per particolare avversione; il vero motivo era che non avrei sopportato la vista dei loro umori colorati, delle loro viscere spiaccicate sul selciato.
Poi sono cresciuto e non ho più praticato quella spietata forma di divertimento. Mai più. Però, anche adesso che sono ormai un uomo maturo, la coscienza ancora mi rimorde. Ho cercato, nel corso della mia vita, di espiare quella mia antica colpa in tutti i modi. Non ho mai più ucciso un insetto, ho cercato, anzi, di proteggerli in tutte le maniere. Quante volte ne ho raccolti, in casa e per le strade, e, con estrema delicatezza, li ho posti in salvo! Ma tutto ciò non è stato sufficiente. Benché a distanza di tanti anni, un profondo e incessante senso di colpa mi assilla, mi impedisce di essere sereno. Non importa se allora ero solo un bambino, la mia responsabilità mi appare comunque grave.
Ora però ho deciso: la mia riparazione deve essere finalmente definitiva.
Appena l’ho saputo, mi sono subito precipitato qui, in questa grande città per me del tutto sconosciuta, dove la visuale dell’orizzonte è impedita dagli alti e innumerevoli grattacieli. Una città che è un immenso formicaio, anche se in questo momento è deserta. Sono qui, in mezzo alla strada, da solo. So che sta per arrivare, il grande uragano sta per giungere. Il vento sta rinforzando, la pioggia è sempre più fitta. Ma io non scapperò, rimarrò invece qui, ad attenderlo.
Per un giorno, il mio ultimo giorno, sarò formica.                                      

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