Da molto tempo, per non dire da sempre, ho considerato il Carnevale una
festa triste. Nonostante la sua fama di allegria e spensieratezza, mi è sempre
sembrato gravato da un obbligo: divertirsi a tutti i costi. Il travestimento,
la maschera, non erano per me un gioco innocente, ma quasi un rinnegare la propria
identità. Come se per ridere fosse necessario diventare qualcun altro,
nascondere ciò che si è davvero. In quella forzatura ho sempre avvertito una
nota malinconica, un vuoto che nessuna risata poteva colmare.
Con il passare del tempo, la stessa sensazione ha cominciato a insinuarsi
anche nel Capodanno. Lì l’obbligo non è la maschera, ma la festa stessa: la
necessità di trovare qualcosa da fare, di organizzare una serata memorabile, di
scambiarsi auguri inflazionati e ripetuti, spesso privi di sincerità. È un
divertimento imposto, che stride con la realtà di un anno trascorso senza gioia
e con la consapevolezza che il successivo sarà uguale, se non peggiore. La
tristezza del Capodanno non sta nel tempo che passa, ma nell’illusione che
basti una notte per cambiare ciò che non si è riusciti a trasformare in dodici
mesi.
Tra tutte le feste, è rimasto soltanto il Natale a suscitare in me qualche
emozione. Emozioni che guardano più indietro che avanti, certo, ma che
resistono. Nonostante il consumismo che ha invaso ogni angolo, il Natale
conserva ancora un nucleo autentico. Non parlo dell’aspetto religioso, che non
riguarda tutti, ma di quel senso di raccoglimento che la festa porta con sé. È
un momento in cui ci si guarda dentro, ci si chiede chi si è davvero, quale
livello etico si è raggiunto nei rapporti con gli altri. È come se, almeno un
giorno l’anno, ciascuno di noi decidesse se merita o no l’assoluzione.
E poi c’è il pranzo. Non un dettaglio marginale, ma il simbolo di un calore
che resiste: la tavola imbandita, la famiglia riunita, il gesto semplice del
condividere. In quel pranzo c’è la vera sostanza del Natale: non l’obbligo di
divertirsi, ma la possibilità di ritrovare, anche solo per poche ore, un senso
di comunità e di umanità.
Così, se Carnevale e Capodanno mi appaiono come feste dell’obbligo, il
Natale rimane la festa del raccoglimento. Non perché prometta un futuro
migliore, ma perché ci ricorda chi siamo stati, e ci invita a chiederci chi
vogliamo essere.


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