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martedì 31 luglio 2012

L'ALTRA FACCIA DELLE MEDAGLIE



Durante queste intense giornate “olimpiche” se da un lato è doveroso celebrare le imprese degli atleti dall’altro è necessario rivolgere lo sguardo a quello che da sempre è il volto oscuro dello sport: il doping.
Ben prima dell’inizio delle gare alcuni atleti (una decina) sono stati esclusi dalla partecipazione alle stesse a causa della loro facile propensione all’utilizzo di sostanze chimiche non consentite dagli attuali rigidi regolamenti del Comitato Internazionale Olimpico.
A tale proposito, nei giorni scorsi hanno destato stupore e meraviglia (nonché perplessità e sospetto) le straordinarie prestazioni agonistiche della nuotatrice cinese Ye Shiwen. L’accusa, tutt’altro che velata, è partita dai tecnici della nazionale statunitense di nuoto. La giovane, in alcuni tratti delle competizioni in cui è stata impegnata, ha nuotato a livelli mai raggiunti neppure dai colleghi uomini. Una insinuazione, dunque, supportata dai fatti. Almeno, questa è stata la tesi di allenatori - e fisiologi dello sport - rimasti increduli di fronte a tali strabilianti risultati.
Naturalmente sia l’interessata che la federazione di appartenenza hanno subito rigettato tutti i sospetti, con grande fermezza e non nascondendo l’inevitabile indignazione (e irritazione) per la gravità della denuncia.
Il Comitato Olimpico, chiamato pesantemente in causa, proprio oggi è intervenuto ribadendo che l’atleta cinese ha superato tutti i controlli antidoping e che pertanto è da considerarsi “pulita”; le sue portentose prove sono frutto esclusivamente del suo immenso talento. E le accese polemiche - per il momento - si sono sgonfiate.
Il fatto, innegabile, che tutti i controlli ai quali è stata sottoposta l’atleta cinese siano risultati negativi certamente rassicura; inoltre, fino prova contraria siamo tenuti a credere alla buone fede di Ye Shiwen e di chi le sta attorno.
Tuttavia l’ormai lunga esperienza maturata nel campo dimostra quanto le tecniche di verifica risultino essere sempre un passo indietro rispetto a pratiche di doping invece sempre più sofisticate.
Molti ricorderanno, nella seconda metà degli Anni Novanta, le mirabolanti imprese nella corsa proprio di alcune sportive cinesi. Ebbene, tutte quelle ragazze, nel giro di pochi anni, incorsero in pesanti squalifiche per pratiche illecite e di loro non si ebbe più alcuna notizia.
Alcuni sport, e pensiamo ad esempio al ciclismo, alla ginnastica, alla pesistica, hanno rischiato più volte di minare per sempre la loro credibilità proprio per l’abuso, da parte di alcuni esponenti di tali discipline, anche di spicco, di sostanze vietate.
Perché si ricorre, sempre di più, al doping? La risposta può essere, allo stesso tempo, semplice e complessa.
Innanzitutto c’è il desiderio di prevalere ad ogni costo, di essere ricordati, di ottenere gloria e riconoscimenti, e tutto ciò che ne consegue. Aspirazioni umane spinte all’estremo, allo scopo di soddisfare aspirazioni e vanità personali. Stiamo parlando, naturalmente, delle iniziative individuali, portate avanti all’insaputa delle federazioni e dei propri tecnici. Ben altra cosa - decisamente più grave – è il doping programmato, quello di Stato, messo in pratica per soddisfare le ambizioni dell’intero movimento sportivo di una nazione. Tanto per intenderci, ciò che è stato praticato per molti anni dall’ex Germania Est, forse anche dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi del disciolto blocco socialista. Un doping condotto senza scrupoli, spesso tenendo all’oscuro gli stessi atleti, e comunque sempre sulla loro pelle. Sì, perché l’uso indiscriminato di sostanze dopanti ha prodotto (e continua a produrre) gravi danni agli organismi sottoposti a tali pratiche.
Poi, da ultimo, è essenziale tenere pure conto dell’aspetto etico dell’uso del doping. Lo sportivo “arricchito” da sostanze chimiche è un falso atleta, così come risulta falsata la competizione alla quale prende parte. In tal modo si viene meno al principio fondamentale dello sport, quello di lealtà, un valore che non deve mai essere messo in discussione, pena la sopravvivenza dello sport stesso.     

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