Un lungo attimo di concentrazione. Uno, due e tre passi, in
pieno slancio. Poi la boccia si staccò dalla mano, concluse una traiettoria
lunga e tesa e ne andò a colpire un’altra. Piombò addosso alla sventurata
prescelta e, con un cozzo secco, la scagliò lontano e ne prese il posto.
“Fermo! Punto e partita!” esclamò Giors, che non riuscì a
trattenere l’entusiasmo.
Il suo compagno di gioco, Magnìn, rimase invece del tutto
imperturbabile. Lui non sbagliava mai una bocciata. Quindi, perché stupirsi
tanto?
I giocatori raccolsero in tutta fretta bocce, pallino,
stracci e bacchette. L’intero armamentario, insomma. I volti apparivano stanchi
e accaldati e in tutti si poteva scorgere la medesima espressione. Una maschera
tragica e disperata, quella di chi da giorni sta vagando nel deserto, trafitto
dai raggi incandescenti di un sole implacabile. Di chi si ritrova ormai allo
stremo delle forze, con la bocca riarsa e la pelle ustionata. Una smorfia che
poco alla volta però si modifica, finché i tratti del viso ridiventano normali,
alla vista di quel liquido elemento che rappresenta la salvezza. E da quella
gola ormai arida fuoriesce rauco e strozzato un grido di pura gioia: vino!
E vino fu. La solita quantità. Un litro a testa tanto per
cominciare. Da assaporare seduti attorno al vecchio tavolo di pietra, all’ombra
dell’enorme platano.
Ai quattro giocatori si unì anche Dolfo, il corpulento
camionista.
“Dolfo! Oggi non lavori?” domandò Giors, gioviale come
sempre. L’altro lo guardò ma non rispose.
“Perché non dice niente?” chiese Sergio, rivolgendosi agli
altri.
Luigino scosse il capo, sconfortato.
“Non parla perché non ha ancora bevuto” spiegò.
“Ah!”
Arrivò subito un bicchiere, portato da un trafelato Albino,
l’oste. Tutti guardarono Dolfo riempirlo tre volte e, ogni volta, lo videro scolare il
vino tutto di un fiato.
“Allora?” lo interrogò Giors, impaziente.
Dolfo scrollò le spalle.
“Il mio camion ha preso una giornata di ferie. Era stanco”
disse infine.
Tutti annuirono, seri. Magnìn propose un brindisi in onore
del saggio veicolo dell’amico. Si alzarono i bicchieri colmi di vino scuro, si
sollevò il bicchierino di liquore alla prugna di Luigino. E subito dopo fu
proprio Luigino ad emettere un gemito di dolore.
“Che c’è? Il liquore non è abbastanza forte?”
“Stai male?”
“Ho un tremendo mal di schiena” sibilò tra i denti Luigino.
“Saranno le bocciate.”
“Che dici? Luigino è un puntatore puro!”
“Ungila” propose Sergio.
“Eh?”
“Ti porto io il grasso, lo prendo in fabbrica. Se funziona
con il tornio, che tra l’altro è fatto di ferro, funziona anche con te.”
“No! Devi fare degli impacchi con l’acqua arnica!”
Alla parola acqua tutti si zittirono. Sguardi torvi. Dolfo,
che aveva pronunciato quel termine proibito, si guardò attorno imbarazzato.
“Scusate…” balbettò. Le sue giustificazioni furono
accettate, e la ritrovata armonia fu sancita da un nuovo brindisi. Albino portò
altre bottiglie. Il robusto oste era madido di sudore. Si fermò per un attimo
vicino al tavolo, e scrutò Luigino con occhio esperto.
“La bacchetta! Hai tolto la bacchetta dal taschino prima di
sederti?” disse.
Luigino girò su se stesso e sfilò dalla tasca posteriore dei
pantaloni la bacchetta telescopica, quella di riserva. La appoggiò sul tavolo,
la osservò a lungo e poi, lentamente, la ripiegò. La schiena non doleva più.
Per ringraziare l’oste scolò con gusto, proprio di fronte a lui, il terzo cicchetto
di liquore.
“Oggi fa molto caldo” esclamò Giors all’improvviso. “Mi
piacerebbe essere sul K2! Lì sì che si sta al fresco!”
“Cos’è il K2?” domandò Sergio.
“Ma come! È la seconda montagna più alta del mondo! Quella
dove sono arrivati per primi i nostri, Compagnoni e Lacedelli, qualche anno fa.
Pensate, più di ottomila metri!”
“Chi è arrivato secondo? Bartali? È lui il più forte in
montagna!” disse Albino, che stava servendo un altro tavolo e non aveva inteso
bene. Magnìn e tutta la banda lo ignorarono.
“Però sono andati su con l’ossigeno” disse Dolfo, malizioso.
“Dolfo ha ragione. Per andare in montagna basta avere un
buon bastone. E poi, a cosa gli serviva l’ossigeno a quei due? Io lo uso per
saldare…” intervenne Sergio.
“Ottomila metri? Con la moto ci avrei impiegato dieci minuti al massimo”
disse Luigino.
“Ma è in salita!” lo rimbeccò Giors.
“Dodici minuti, allora.” Luigino era serissimo.
“Hanno barato” intervenne con decisione Magnìn. “Io sarei
andato su e giù in un giorno solo. E senza ossigeno, idrogeno o altre
diavolerie!”
“Bravo Magnìn!”
“Sei tu l’unico vero montanaro!”
L’atmosfera esaltata che si stava creando fu
irrimediabilmente rovinata da Sergio.
“Sapete mica se sul K2 quelli hanno trovato dei
funghi? O non era stagione?”
A quel punto non rimase altro da fare se non ordinare un
altro giro di bottiglie.
A un tratto si sentì qualcuno gridare. Allarmati, tutti
rivolsero lo sguardo in direzione della strada. Videro arrivare di corsa il
vecchio Giuàn del Torchio, chiamato così perché possedeva un torchio vinario, e
che per tale ragione era rispettato dall’intero paese. L’anziano contadino si
lasciò cadere su una panca, esausto. Tutti lo circondarono.
“Da bere! Portate subito da bere!”
Si materializzò all’istante un affannato Albino. Porse al
vecchio un bicchiere (un bicchiere!) di grappa. Scambiandola forse per acqua, o forse no, l’altro
ingollò comunque il liquido in tre lunghi sorsi. In ogni caso, non fece una piega.
“Accidenti che stomaco!” esclamò Sergio, sbalordito.
“È tutto bruciato, ormai” sentenziò Luigino.
Rifocillato, Giuàn iniziò finalmente a parlare. Anzi, a
urlare.
“Hanno portato via tutto! Le immagini, la croce…”
Magnìn gli si avvicinò.
“Dove? Dove hanno portato via tutto?” domandò, dopo essersi
acceso una sigaretta senza filtro.
“La chiesetta! Quella di Logna! Ci sono stati i ladri!”
Logna era una frazione del paese, la più distante dal centro,
la più isolata.
Magnin dovette allontanarsi, per mettere in salvo i timpani.
Il vecchio continuava a gridare come un’aquila.
“Hai avvisato don Felice?” chiese Giors.
Il vecchio contadino strabuzzò gli occhi.
“Sei matto? Sono andato da lui ma stava coltivando l’orto,
quando zappa non vuole essere disturbato altrimenti diventa una bestia!”
Tutti i presenti annuirono. Nutrivano grande ammirazione per
il sacerdote, e l’affermazione di Giuàn rafforzò ancora di più la loro stima
nei suoi confronti.
“E i carabinieri? Li avete avvisati?” Giuàn annuì.
Un po’ discosto dal gruppo, Magnìn stava già indossando gli
occhiali scuri, quelli da moto. Completò la tenuta legandosi al collo un
fazzoletto rosso, di seta. Anche se faceva molto caldo, era comunque conveniente
proteggersi dall’aria.
“Vado a vedere” disse appena fu pronto, cioè nel giro di
qualche secondo.
“Vengo anch’io” comunicò Luigino.
“Ma oggi sei in bicicletta” gli fece notare Magnìn.
“Ti vengo dietro.”
Magnìn rifletté un attimo.
“Dietro? Aspetta.”
Si avvicinò alla sua moto, una Itom Sirio, frugò in una
delle capienti sacche laterali ed estrasse una fune. Legò un capo al retro del
sellino e l’altro al manubrio della bicicletta di Luigino.
“Andiamo” disse, aprendo la chiavetta della benzina e scalciando
come un forsennato sulla leva di avviamento.
Luigino montò in sella. Sembrava un po’ malfermo sulle
gambe. Troppe prugne, forse.
Albino, il premuroso oste, se ne avvide.
“Non è che voi due ragazzi avete bevuto un po’ troppo?”
domandò, con la sua voce sottile che produceva un gran contrasto con il suo
grosso corpo.
“Tanto la moto conosce la strada” gridò Magnìn per
sovrastare il rombo del motore. Accelerò ancora di più e partì, come al solito,
con un’impennata. Lo strattone fu molto violento. Luigino fu scaraventato giù
dalla bicicletta, rotolò a terra alcune volte e infine arrestò la sua corsa tra le
gambe di uno stupito Dolfo. Tempo alcuni decimi di secondo e già stava
russando.
Magnìn, invece, non si era accorto di nulla. Per miracolo la
bicicletta era rimasta in piedi e ora seguiva la moto lanciata a folle
velocità.
In un baleno Magnìn giunse sul posto. Vide la chiesetta con
un attimo di ritardo e pigiò a fondo sul pedale del freno. Urlò a Luigino di
fare la stessa la cosa, ma Luigino non c’era. La moto inchiodò di colpo. Il
figlio dello stagnino riuscì a controllare la sbandata sulla ghiaia ma subito
dopo fu investito dalla bicicletta. Un colpo tremendo. Magnìn, la moto e la
bicicletta finirono la loro corsa in un fosso. Magnìn non si scompose, né si
domandò come mai Luigino non ci fosse. Pensò che fosse smontato dalla bici per andare a bere
un goccio all’Osteria del Picchio, che era sulla strada. Con calma tirò fuori
dal canale prima la moto e poi la bicicletta. L’Itom non aveva un graffio,
mentre il veicolo di Luigino aveva una ruota completamente deformata. Si
addolorò pensando ai rimproveri che il povero Luigino avrebbe ricevuto dall’arcigna
madre. La donna aveva ottant’anni ma comandava il figlio a bacchetta. Tutti
temevano la sua ira.
Completamente inzuppato, Magnìn entrò nella chiesetta. Notò che
la serratura della porta era stata forzata con molta destrezza. Si sedette su
un banco e osservò le pareti. Erano completamente spoglie. Era stato sottratto
tutto. Sia le immagini sacre che il grande crocifisso di legno. Sospirò, poi
rovistò a lungo nelle tasche bagnate dei pantaloni. Estrasse un pacchetto di
sigarette, fradicio, del tutto rovinato. Le cicche erano ridotte in poltiglia. Considerò che la chiesa, priva di tutti gli ornamenti, dovesse essere ritenuta ormai sconsacrata. Allora imprecò e bestemmiò ad alta voce per quasi dieci
minuti. Esaurito il vasto e colorito repertorio di invettive, cominciò a
spogliarsi. Appese i suoi abiti al piccolo altare di marmo, ad asciugare, e rimase completamente nudo. In
fondo, quel povero Cristo che fino al giorno prima stava lì appeso in croce non
era vestito molto di più. Era sicuro che non se la sarebbe presa.
Magnìn sentì il rumore di un’automobile. Sbirciò fuori e
vide che si trattava dei carabinieri. Il giovane appuntato Varvello scese dall’auto
ed entrò in chiesa. Lanciò un urlo disumano e scappò fuori.
“Maresciallo! Maresciallo! In chiesa c’è un uomo nudo!”
Magnìn si alzò in piedi, pronto ad accogliere il maresciallo
Sotgiu, sua vecchia conoscenza. Il militare comparve quasi subito. Cercò di
nascondere il suo stupore, ma non riuscì a dissimularlo troppo bene.
“Magnìn! Che cosa ci fai qui?” disse.
Il figlio dello stagnino gli andò incontro, una mano alla
fronte in un irridente saluto, l’altra in basso a coprire l'attrezzatura.
“Sono passato a dare un’occhiata” disse, tranquillo.
“L’occhiata la sto dando io a te, purtroppo” rispose il
maresciallo, squadrandolo. “Allora, come te la passi? Stai lavorando?”
Magnìn si sfilò gli occhiali scuri e scosse il capo.
“No, non ho ancora finito i soldi.”
“Come sarebbe a dire?”
“Si lavora per avere dei soldi. Quando poi si hanno i soldi
è inutile lavorare. Comunque il prossimo mese ricomincio.”
“Bravo, bella filosofia! Ah, ricordati di passare in
caserma, uno di questi giorni. Mi devi firmare un verbale, quello dell’incidente.”
“Quale incidente?”
“Il penultimo, mi pare…”
“Maresciallo, hai da accendere?” domandò Magnìn.
“Certamente.” Sotgiu tirò fuori una luccicante macchinetta a
benzina.
“Hai anche da fumare, per caso?”
Il maresciallo sbuffò e porse a Magnìn un pacchetto di
Turmac.
L’altro si servì. Mise una sigaretta tra le labbra, poi ne
prese un’altra e la sistemò dietro l’orecchio.
“Per dopo” spiegò. Sotgiu annuì, rassegnato.
“Allora, che ne dici? Del furto, intendo. Chi può essere
stato? Zingari?”
Magnìn, avvolto da una nube di fumo blu, scosse il capo con
energia.
“Che cosa accadrà alla chiesetta?” domandò al carabiniere.
“Non lo so. Temo che farà una brutta fine. Comincerà a essere
frequentata da coppiette, e da vagabondi che la useranno per dormire. Non è
neppure troppo vecchia. Alla fine sarà sconsacrata e abbattuta.”
Magnìn annuì. Condivideva in pieno il ragionamento del
maresciallo.
“Sai a chi appartengono tutti i terreni qui attorno?”
“No.”
“All’ingegner Nobili.”
“Ah! Vuoi dire Guglielmo Nobili, l’impresario edile?”
“Proprio lui” confermò Magnìn.
“E questo che cosa vuol dire?”
“Vuol dire che l’ingegnere riuscirà finalmente a realizzare
il suo progetto, cioè costruire due palazzi. L’unico impedimento finora è stato proprio questa povera chiesetta. Se non ci fosse più…”
“Come fai a sapere queste cose?” chiese Sotgiu, ormai
incuriosito.
“Mi è stato detto da amici in Comune…”
“Magnìn! Guarda che ti sbagli. Io e te non abbiamo nessun
amico in comune.”
“Mi riferivo al Municipio.”
“Ah!”
“Che cosa ne deduci, maresciallo?” domandò Magnìn con aria
furba, mentre schiacciava sotto il piede il mozzicone di sigaretta. Troppo
tardi si rese conto di non avere le scarpe. Non gli sfuggì il minimo lamento.
“Vorresti forse accusare l’ingegnere del furto? Sei pazzo?”
rispose Sotgiu, leggermente infastidito dall’odore di carne bruciata che si
stava diffondendo nella chiesetta.
“Perché non gli vai a parlare?”
“Non ho nessun motivo di ritenere che…”
“Così gli potresti restituire questo, deve averlo perso lui
l’altra notte.” E Magnìn porse al carabiniere uno scintillante fermacravatta d’oro,
sul quale erano ben visibili le iniziali ‘G. N.’
“L’ho trovato ai piedi dell’altare. Sai, a volte la fretta…”
Il viso del maresciallo si illuminò di colpo. Intascò il
gingillo.
“Grazie, Magnìn. Mi sei stato di grande aiuto” disse. “Andremo
subito a parlare con l’ingegnere.”
Magnìn sfilò l’altra sigaretta dall’orecchio e, come aveva
fatto prima, con un morso staccò il filtro. Poi chiese fuoco e lo ottenne.
“Maresciallo, posso chiederti un favore? In fondo me lo
devi.”
“D’accordo, ma questo è proprio l’ultimo.”
“Potete riportare la bicicletta all’osteria di Albino, in
paese? Il mio amico Luigino sarà in pensiero. Ah! Non scordarti di lasciare un
litro pagato!”
“E tu che ne dici di rivestirti, adesso?”
“Aspetto ancora un po’.
Hai mai provato ad andare in moto con le mutande bagnate?”
Magnìn soffiò una boccata di fumo in faccia a Sotgiu che, tossendo,
uscì dalla chiesetta e andò a raggiungere il suo appuntato, che trovò chiuso in
macchina, ancora terrorizzato.