Percorro sereno il lungo corridoio, sulle cui pareti sono
disposte le opere. Ammiro le ricche cornici di legno intagliato e dorato. I
miei passi rimbombano sul lucido pavimento di marmo. Mi rendo conto di essere
solo e ciò mi rallegra.
Mi avvicino al primo dipinto, lo guardo e lui guarda me. Raggelo.
Non riesco a distogliere lo sguardo da quegli occhi malvagi. Quelli dello
gnomo. L’omuncolo è in una foresta, ed è circondato da alti alberi che fanno
risaltare ancora di più la sua misera statura. È vestito di stracci, ha una
enorme testa, braccia corte e muscolose, gambe tozze e arcuate. Questi
particolari li noto soltanto di sfuggita, ciò che mi attira e mi sgomenta di
più sono le sue pupille scure. Mi ci perdo, e subito sono assalito da una sensazione
di nausea profonda. In quell’essere colgo tutto il male dell’universo. Il mio
sgomento aumenta quando mi accorgo di provare per lui, allo stesso tempo,
attrazione e repulsione. Appena prima di precipitare nell’oscurità mi stacco
dal quadro, ritrovo me stesso, e fuggo da quella spaventosa visione. Ho scorto
l’abisso dell’anima. Sono sconvolto.
Cammino a passo svelto, gli occhi incollati a terra, turbato
e affranto, la pace interiore ormai perduta.
La musica mi colpisce all’improvviso. Cerco di individuarne
la provenienza. Dopo un istante comprendo che proviene dall’interno del mio
corpo. Soltanto io posso udirla, ed è una melodia struggente. Mi blocco e vedo l’immagine
del castello, di fronte a me, racchiusa in una pregiata cornice. Poi vedo il
menestrello. È lui che sta intonando quel canto d’amore che mi sconvolge le
viscere. Seduto su una piccola roccia, rivolge al cielo la sua dolente canzone.
Sullo sfondo, afflitto e paziente, l’antico castello sospira. All’improvviso mi
assale una gravosa tristezza. Si fa strada in me una lucida consapevolezza. Il
mondo non è dominato soltanto dall’eterno dualismo tra il Bene e il Male, ma
anche dall’Amore, che li compendia. Sconcertato, fuggo. Mi allontano rapido da
quel paesaggio pervaso di mestizia.
Riprendo il percorso e mi trovo immerso in una brulicante
scena urbana. La gente si affretta nella stretta via, uomini e donne coperti da
pesanti pastrani, persi nei loro pensieri. Il freddo è intenso. Brividi acuti
attraversano il mio corpo. In lontananza intravedo un grande carro che si sta
avvicinando, trainato da buoi. Il terreno trema, la folla si scosta al suo
passaggio. Fermo un passante e lo interrogo.
“Dimmi, vecchio. Che cos’è quel carro?”
L’uomo sputa a terra e poi mi scruta a lungo. I suoi occhi
stanchi, dalle ciglia gelate, sono simili a due fessure.
“Lo stanno portando al cimitero” dice, prima di sputare di
nuovo.
“Chi stanno portando al cimitero?”
“L’uomo più potente della città.”
“Perché è morto?” domando, inquieto.
“È stato soffocato dai ricordi.”
“Non c’era bisogno di un carro così grande!”
Le vibrazioni aumentano. Il rumore diventa assordante. Il
vecchio, per rispondere, quasi grida.
“Invece sì. I suoi ricordi saranno sepolti con lui. Sono
tanti.”
Preda della curiosità domando ancora qualcosa, ma lui non
riesce a sentirmi.
“Attento!” urla subito dopo.
L’enorme ruota, più alta di me, mi sfiora. Schizzi di fango
mi investono. Faccio un passo indietro, con il cuore che mi martella in gola.
Il carro si sta già allontanando. Il frastuono, poco per volta, diminuisce.
Mi ritrovo seduto sul pavimento dell’esposizione, confuso e
frastornato.
“Si sente bene, signore?” È il custode, che mi esamina
dall’alto in basso.
Mi riscuoto.
“Certo, mi sono seduto per osservare meglio la prospettiva”
spiego con scarsa convinzione.
“D’accordo, signore. Mi scusi.” E si dilegua guardando con
disgusto le mie scarpe infangate.
Ripenso all’imbarazzante situazione, e sorrido tra me.
Liscio come posso l’abito sgualcito e mi concentro nell’osservazione di un
dipinto che mi ritrovo proprio di fronte.
Dai banchi del vasto mercato provengono suoni di voci
concitate. Mi avvicino ancora di più all’opera. Robuste contadine mi circondano
parlando a voce alta, stingendo tra le mani grosse sporte colme di frutta e
verdura. La discussione sale di tono. Mi allontano di soppiatto e mi dirigo verso
un angolo dell’ampio piazzale. Ancora grida di venditori che cercano di
attirare i potenziali clienti, rumore e confusione. Noto un capannello di
persone. Sono tutti uomini, e stanno bevendo e giocando all’ombra di un immenso
platano. Uno di loro maneggia con grande abilità tre carte. Gli altri, a turno,
puntano e giocano. Giocano e perdono, perdono e si disperano. Non vedo denaro
passare da una mano all’altra e sono sorpreso. Qualcuno, dopo un po’, si
rivolge a me. Si tratta di un uomo dai folti baffi scuri e con una voce dal
timbro profondo.
“Forza, signore! Dov’è l’asso? L’asso vince, le altre carte
perdono!”
Sto per dire che non intendo giocare. Ma non dico nulla. Invece,
il mio dito indice accenna una carta.
“Fante, signore! Ha perso!”
L’uomo con i baffi, dopo aver parlato, lancia un’occhiata al
complice che manipola le carte. Sogghigna.
“Che cosa ho perso?” chiedo, interdetto.
“Qui non si giocano soldi, perché tutti i giocatori devono
essere alla pari. Tra il ricco e il povero non esistono differenze. La posta in
palio è la stessa per tutti. Chi vince vive, che perde muore.”
“Che cosa?” Sono sbalordito. Poco distante da me, sento che
le contadine stanno litigando. Una contesa che presto degenera. La distrazione
tuttavia dura un attimo, poiché alcuni uomini mi circondano.
“Signore, deve pagare” dice uno di loro. E sfodera un lungo
coltello.
Lancio un urlo disperato e tento di scappare, facendomi
largo attraverso quella muraglia umana. Qualcosa mi colpisce alla manica della
giacca. E poi corro, corro lungo il corridoio dell’esposizione, finché mi
accorgo di essere solo. Nessuno più mi minaccia. Osservo la manica del vestito,
tagliata dal fendente, e le minuscole gocce di sangue che affiorano dal candido
tessuto della camicia. Mi sento stordito. Lentamente riprendo fiato e, giunto
al termine del corridoio, sono costretto a svoltare. Un piccolo slargo, alla
cui parete principale è appeso un unico quadro. Mi fermo e lo esamino con
attenzione. Indugio a lungo sulla figura che vi è rappresentata. Uno strano
essere, che mi provoca un moto di ribrezzo. Studio quelle enormi estremità
gialle, con le dita munite di unghie lunghe e affilate. Smisurate zampe di
gallina, che sostengono una capanna di legno.
“Stai lontano da me, mostro!”
La voce mi investe all’improvviso. Una voce di donna, dalla
sonorità delicata, nella quale colgo apprensione e paura. Benché sbalordito, reagisco.
“Chi sei?” domando, con voce tremante. Anch’io provo
spavento.
Nella capanna si apre uno sportellino, come quello degli
orologi a cucù. Appare una testa di donna dal profilo aquilino. I suoi occhi e
i suoi capelli sono verdi.
“Mi fai paura. Sei un essere orribile, deforme, talmente
brutto da risultare repellente. Ma non temere, vincerò il mio ribrezzo e ti
permetterò di visitare il mio antro, dove potrai provare piacere e beatitudine.
Vieni, vieni dentro di me.” Ora la sua voce è suadente.
La molla alla quale è attaccato quel capo grifagno si allunga
a dismisura. Il naso adunco si trasforma in un becco acuminato, che scatta
verso di me. Mi scosto all’ultimo istante, evito per miracolo il colpo diretto
ai miei occhi. Mi sposto ancor più all’indietro, vedo la minuscola testa che si
ritrae svelta. Lo sportello si richiude. Attutita, fa eco una perfida risata.
Non ne posso più, i miei nervi stanno per cedere. Risoluto
mi dirigo verso l’uscita. La trovo.
Nondimeno, non riesco a sottrarmi dal lanciare un fugace
sguardo all’ultimo dipinto. Non è possibile non notarlo, perché si tratta di un
quadro di enormi dimensioni. Una grande porta, la porta di una città. Maestosa,
con dorature splendide, e intarsi che non sembrano essere stati modellati da
mano umana. Un insieme imponente, grandioso e solenne. Ne sono meravigliato. La
esamino, la accarezzo. Colmo di brama, anelante.
“Desideri entrare?” Una voce, alle mie spalle. Sussulto. Mi
volto ma non scorgo nessuno.
Vorrei fuggire, invece rimango immobile.
“Se questa è la porta, immagina come può essere la città”.
Ancora quella voce. Il suo tono è calmo e rassicurante, non
mi suscita inquietudine.
“Non so chi tu sia” dico, con emozione. “Ma sei hai la possibilità
di farmi entrare, allora fallo!”
“Conosci bene l’arcano delle porte?” mi interpella la
misteriosa entità.
Una domanda strana, alla quale non so dare risposta. Ma
ormai i miei pensieri sono rivolti altrove. Alla Città d’Oro, all’incanto che mi
attende oltre i battenti di quella grandiosa porta. Potrò vedere ciò che
nessuno ha mai visto.
“Ti prego, fammi entrare” sussurro.
“Come vuoi tu.”
I battenti lentamente si schiudono. Mi infilo nel varco e lo
oltrepasso, al colmo della felicità. Di fronte a me non c’è nulla. E non c’è
nulla sotto ai miei piedi. Precipito. Una caduta infinita. Eterna. La Caduta
dal Paradiso.
“Dalle porte si può entrare e si può uscire. Questo volevo
dire. Nella Città d’Oro, tu c’eri già.”
La voce dell’entità immateriale è avvilita, rassegnata. Ma
io non la sento più.
(*) “Quadri di un’esposizione”
è l’opera più famosa del compositore russo Modest Musorgskij (1839 – 1881)
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