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domenica 25 marzo 2012

PROMENADE



Percorro sereno il lungo corridoio, sulle cui pareti sono disposte le opere. Ammiro le ricche cornici di legno intagliato e dorato. I miei passi rimbombano sul lucido pavimento di marmo. Mi rendo conto di essere solo e ciò mi rallegra.
Mi avvicino al primo dipinto, lo guardo e lui guarda me. Raggelo. Non riesco a distogliere lo sguardo da quegli occhi malvagi. Quelli dello gnomo. L’omuncolo è in una foresta, ed è circondato da alti alberi che fanno risaltare ancora di più la sua misera statura. È vestito di stracci, ha una enorme testa, braccia corte e muscolose, gambe tozze e arcuate. Questi particolari li noto soltanto di sfuggita, ciò che mi attira e mi sgomenta di più sono le sue pupille scure. Mi ci perdo, e subito sono assalito da una sensazione di nausea profonda. In quell’essere colgo tutto il male dell’universo. Il mio sgomento aumenta quando mi accorgo di provare per lui, allo stesso tempo, attrazione e repulsione. Appena prima di precipitare nell’oscurità mi stacco dal quadro, ritrovo me stesso, e fuggo da quella spaventosa visione. Ho scorto l’abisso dell’anima. Sono sconvolto.
Cammino a passo svelto, gli occhi incollati a terra, turbato e affranto, la pace interiore ormai perduta.
La musica mi colpisce all’improvviso. Cerco di individuarne la provenienza. Dopo un istante comprendo che proviene dall’interno del mio corpo. Soltanto io posso udirla, ed è una melodia struggente. Mi blocco e vedo l’immagine del castello, di fronte a me, racchiusa in una pregiata cornice. Poi vedo il menestrello. È lui che sta intonando quel canto d’amore che mi sconvolge le viscere. Seduto su una piccola roccia, rivolge al cielo la sua dolente canzone. Sullo sfondo, afflitto e paziente, l’antico castello sospira. All’improvviso mi assale una gravosa tristezza. Si fa strada in me una lucida consapevolezza. Il mondo non è dominato soltanto dall’eterno dualismo tra il Bene e il Male, ma anche dall’Amore, che li compendia. Sconcertato, fuggo. Mi allontano rapido da quel paesaggio pervaso di mestizia.
Riprendo il percorso e mi trovo immerso in una brulicante scena urbana. La gente si affretta nella stretta via, uomini e donne coperti da pesanti pastrani, persi nei loro pensieri. Il freddo è intenso. Brividi acuti attraversano il mio corpo. In lontananza intravedo un grande carro che si sta avvicinando, trainato da buoi. Il terreno trema, la folla si scosta al suo passaggio. Fermo un passante e lo interrogo.
“Dimmi, vecchio. Che cos’è quel carro?”
L’uomo sputa a terra e poi mi scruta a lungo. I suoi occhi stanchi, dalle ciglia gelate, sono simili a due fessure.
“Lo stanno portando al cimitero” dice, prima di sputare di nuovo.
“Chi stanno portando al cimitero?”
“L’uomo più potente della città.”
“Perché è morto?” domando, inquieto.
“È stato soffocato dai ricordi.”
“Non c’era bisogno di un carro così grande!”
Le vibrazioni aumentano. Il rumore diventa assordante. Il vecchio, per rispondere, quasi grida.
“Invece sì. I suoi ricordi saranno sepolti con lui. Sono tanti.”
Preda della curiosità domando ancora qualcosa, ma lui non riesce a sentirmi.
“Attento!” urla subito dopo.
L’enorme ruota, più alta di me, mi sfiora. Schizzi di fango mi investono. Faccio un passo indietro, con il cuore che mi martella in gola. Il carro si sta già allontanando. Il frastuono, poco per volta, diminuisce.
Mi ritrovo seduto sul pavimento dell’esposizione, confuso e frastornato.
“Si sente bene, signore?” È il custode, che mi esamina dall’alto in basso.
Mi riscuoto.
“Certo, mi sono seduto per osservare meglio la prospettiva” spiego con scarsa convinzione.
“D’accordo, signore. Mi scusi.” E si dilegua guardando con disgusto le mie scarpe infangate.
Ripenso all’imbarazzante situazione, e sorrido tra me. Liscio come posso l’abito sgualcito e mi concentro nell’osservazione di un dipinto che mi ritrovo proprio di fronte.
Dai banchi del vasto mercato provengono suoni di voci concitate. Mi avvicino ancora di più all’opera. Robuste contadine mi circondano parlando a voce alta, stingendo tra le mani grosse sporte colme di frutta e verdura. La discussione sale di tono. Mi allontano di soppiatto e mi dirigo verso un angolo dell’ampio piazzale. Ancora grida di venditori che cercano di attirare i potenziali clienti, rumore e confusione. Noto un capannello di persone. Sono tutti uomini, e stanno bevendo e giocando all’ombra di un immenso platano. Uno di loro maneggia con grande abilità tre carte. Gli altri, a turno, puntano e giocano. Giocano e perdono, perdono e si disperano. Non vedo denaro passare da una mano all’altra e sono sorpreso. Qualcuno, dopo un po’, si rivolge a me. Si tratta di un uomo dai folti baffi scuri e con una voce dal timbro profondo.
“Forza, signore! Dov’è l’asso? L’asso vince, le altre carte perdono!”
Sto per dire che non intendo giocare. Ma non dico nulla. Invece, il mio dito indice accenna una carta.
“Fante, signore! Ha perso!”
L’uomo con i baffi, dopo aver parlato, lancia un’occhiata al complice che manipola le carte. Sogghigna.
“Che cosa ho perso?” chiedo, interdetto.
“Qui non si giocano soldi, perché tutti i giocatori devono essere alla pari. Tra il ricco e il povero non esistono differenze. La posta in palio è la stessa per tutti. Chi vince vive, che perde muore.”
“Che cosa?” Sono sbalordito. Poco distante da me, sento che le contadine stanno litigando. Una contesa che presto degenera. La distrazione tuttavia dura un attimo, poiché alcuni uomini mi circondano.
“Signore, deve pagare” dice uno di loro. E sfodera un lungo coltello.
Lancio un urlo disperato e tento di scappare, facendomi largo attraverso quella muraglia umana. Qualcosa mi colpisce alla manica della giacca. E poi corro, corro lungo il corridoio dell’esposizione, finché mi accorgo di essere solo. Nessuno più mi minaccia. Osservo la manica del vestito, tagliata dal fendente, e le minuscole gocce di sangue che affiorano dal candido tessuto della camicia. Mi sento stordito. Lentamente riprendo fiato e, giunto al termine del corridoio, sono costretto a svoltare. Un piccolo slargo, alla cui parete principale è appeso un unico quadro. Mi fermo e lo esamino con attenzione. Indugio a lungo sulla figura che vi è rappresentata. Uno strano essere, che mi provoca un moto di ribrezzo. Studio quelle enormi estremità gialle, con le dita munite di unghie lunghe e affilate. Smisurate zampe di gallina, che sostengono una capanna di legno.
“Stai lontano da me, mostro!”
La voce mi investe all’improvviso. Una voce di donna, dalla sonorità delicata, nella quale colgo apprensione e paura. Benché sbalordito, reagisco.
“Chi sei?” domando, con voce tremante. Anch’io provo spavento.
Nella capanna si apre uno sportellino, come quello degli orologi a cucù. Appare una testa di donna dal profilo aquilino. I suoi occhi e i suoi capelli sono verdi.
“Mi fai paura. Sei un essere orribile, deforme, talmente brutto da risultare repellente. Ma non temere, vincerò il mio ribrezzo e ti permetterò di visitare il mio antro, dove potrai provare piacere e beatitudine. Vieni, vieni dentro di me.” Ora la sua voce è suadente.
La molla alla quale è attaccato quel capo grifagno si allunga a dismisura. Il naso adunco si trasforma in un becco acuminato, che scatta verso di me. Mi scosto all’ultimo istante, evito per miracolo il colpo diretto ai miei occhi. Mi sposto ancor più all’indietro, vedo la minuscola testa che si ritrae svelta. Lo sportello si richiude. Attutita, fa eco una perfida risata.
Non ne posso più, i miei nervi stanno per cedere. Risoluto mi dirigo verso l’uscita. La trovo.
Nondimeno, non riesco a sottrarmi dal lanciare un fugace sguardo all’ultimo dipinto. Non è possibile non notarlo, perché si tratta di un quadro di enormi dimensioni. Una grande porta, la porta di una città. Maestosa, con dorature splendide, e intarsi che non sembrano essere stati modellati da mano umana. Un insieme imponente, grandioso e solenne. Ne sono meravigliato. La esamino, la accarezzo. Colmo di brama, anelante.
“Desideri entrare?” Una voce, alle mie spalle. Sussulto. Mi volto ma non scorgo nessuno.
Vorrei fuggire, invece rimango immobile.
“Se questa è la porta, immagina come può essere la città”.
Ancora quella voce. Il suo tono è calmo e rassicurante, non mi suscita inquietudine.
“Non so chi tu sia” dico, con emozione. “Ma sei hai la possibilità di farmi entrare, allora fallo!”
“Conosci bene l’arcano delle porte?” mi interpella la misteriosa entità.
Una domanda strana, alla quale non so dare risposta. Ma ormai i miei pensieri sono rivolti altrove. Alla Città d’Oro, all’incanto che mi attende oltre i battenti di quella grandiosa porta. Potrò vedere ciò che nessuno ha mai visto.
“Ti prego, fammi entrare” sussurro.
“Come vuoi tu.”
I battenti lentamente si schiudono. Mi infilo nel varco e lo oltrepasso, al colmo della felicità. Di fronte a me non c’è nulla. E non c’è nulla sotto ai miei piedi. Precipito. Una caduta infinita. Eterna. La Caduta dal Paradiso.
“Dalle porte si può entrare e si può uscire. Questo volevo dire. Nella Città d’Oro, tu c’eri già.”
La voce dell’entità immateriale è avvilita, rassegnata. Ma io non la sento più.

(*) “Quadri di un’esposizione” è l’opera più famosa del compositore russo Modest Musorgskij (1839 – 1881)

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