“Perché mi guardi e non favelli?”
Si è rivolta a me, proprio a me. Ho impiegato più di un
istante a rendermene conto. Non avrei mai immaginato che potesse farlo. Eppure
è così, lei mi sta fissando con i suoi penetranti occhi neri, ed io non so che
cosa rispondere. Arrossisco, intimidito.
Siamo in piedi, nell’atrio della scuola, attorniati dai
nostri compagni, e stiamo aspettando che l’assemblea abbia inizio.
È stato un caso che mi sia trovato accanto a lei, un puro
caso. Lei è Antonella, e ci conosciamo da quattro anni, un tempo ormai lungo
durante il quale, in pratica, non abbiamo mai scambiato una sola parola. Qualche
saluto, e nulla più.
All’inizio non l’avevo quasi notata, perché la mia compagna
non è una ragazza molto vistosa. È bassa di statura, con capelli e occhi scuri,
un corpo minuto ma ben modellato. Ha una piccola gobba sul naso, davvero
piccola, e forse per tale difetto pochi la considerano bella. Al contrario
questa sua lieve imperfezione la rende ai miei occhi molto attraente. Io odio
la perfezione, la sfuggo, ritengo piuttosto che soltanto l’esistenza di una
sottile pecca possa rendere veramente interessante una persona, la faccia
risultare unica nel suo incanto. Un fascino del tutto particolare, quello di
cui è fornita Antonella, che mi ha rapito tardi, ma al quale non riesco più a
sfuggire. Detesto la mia stoltezza, e la mia evidente inadeguatezza, che mi ha
portato a chiudermi ancora di più in me stesso, a corazzarmi nel tentativo,
vano, di sottrarmi a quel senso di vuoto che mi assale ogni volta che la vedo.
Tutti i giorni, per lunghe e tormentate ore. Antonella: se in precedenza l’ho
ignorata, adesso invece soffro, catapultato all’improvviso in un vortice che
non riesco a controllare, il cui centro è costituito dalla sua forza di
attrazione. Volteggio in uno spazio sconosciuto, annientato e privo di volontà,
timoroso del possibile schianto.
E non parlo, non rispondo. Osservo quegli occhi neri, dentro
ai quali ho paura di perdermi, dentro ai quali mi sono già smarrito, e forse
sorrido.
“Vieni” dice lei, che ha intuito tutta la mia confusione. Mi
trascina in un angolo tranquillo, e si siede a terra, accovacciata come una
squaw. Per quanto sia in grande imbarazzo, faccio la stessa cosa, combatto il
disagio che mi avvolge e mi opprime, e dunque mi siedo.
Sei carina, mi piaci, provo interesse per te. Sei simpatica,
e il tuo vestito è molto grazioso. Che importa se lei non indossa un vestito ma
dei jeans e una maglietta?
Potrei dire tante cose, potrei non dire nulla e rivolgere invece
uno sguardo eloquente, manifesto, che racchiuda tutto ciò che provo, tutto ciò
che accelera i colpi del mio cuore.
Invece continuo a non dire nulla. Non ci riesco. Lei non è molto
sorpresa dal mio atteggiamento. Non lo ritiene insolito, lo considera
connaturato alla mia persona, e questo pensiero mi ferisce. Non mi sono mai
rivolto a lei, mai abbiamo incrociato verbo . Per quale motivo dovrei farlo proprio
adesso? Questo è ciò che leggo nei suoi occhi, un misto di pena e di
compatimento e di sarcasmo. Io sono il tipo strano, interessante proprio perché
singolare.
Patisco, eppure non posso perdere questa occasione. Non ne
capiterà un’altra, lo sento. Devo dire qualcosa, devo costringerla a
conoscermi, obbligarla a considerare la mia attrazione per lei, a prenderla sul
serio, a rispettarla.
Lei si distrae, si guarda intorno, la sua espressione si
colma di noia. Comprendo che non posso attendere oltre, devo agire. Subito,
senza indugio. Privo di favella, mi affido all’azione.
Appoggio una mano sulla sua spalla. Antonella mi scruta,
sorpresa da quel gesto audace. Un’occhiata torva, severa. Si scosta. Non parla.
Ritraggo la mano, piagata, toccata dal fuoco.
“Da tanto tempo desideravo toccarti”. La voce non è la mia,
non la riconosco. Anche se ho parlato.
Lei si alza, seccata. Ma sempre bella.
No, non andare via. Io voglio te. Non fuggire.
“Ti prego, dimmi qualcosa.” Ancora quella voce roca,
irriconoscibile. La mia.
Le sue labbra si schiudono.
“Sciò!”
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