Mi sbaglio, e scendo
dal treno una fermata prima. Poco male, vuol dire che mi farò una bella
camminata. In fondo ne ho bisogno, dopo tante ore passate in assoluta immobilità.
Mi guardo intorno e mi
rendo conto che tutto è cambiato. D’altra parte sono trascorsi alcuni anni dall’ultima
volta che sono stato qui. Per raggiungere a piedi la prossima stazione è
sufficiente continuare a camminare attraverso questo ampio tunnel sotterraneo,
e allora mi avvio di buon passo. Lungo le pareti della galleria c’è molta
animazione, c’è gente che va e viene, sono stati aperti negozi e ristoranti, e
anche alcuni uffici.
Dopo un po’ noto, quasi
nascosto in un anfratto buio, un piccolo gatto. È poco più di un cucciolo,
bianco e grigio, e sembra spaventato. Mi avvicino alla bestiola e la accarezzo.
Fa le fusa, e non sembra nutrire alcun timore nei miei confronti. Lo raccolgo,
e proseguo la mia marcia tenendolo in braccio, stretto al petto, dove lui si
rannicchia e chiude gli occhi. Chissà se avrà fame, oppure se è soltanto
stanco. Anche addormentato, non smette di ronfare.
Sulla mia destra scorgo
una panetteria e, sempre tenendo ben stretto il gattino, entro e compro del
pane. All’improvviso mi sono accorto di avere appetito. La fornaia che mi serve
non si avvede di quel minuscolo essere sistemato sotto il mio giaccone. Sorrido
tra me, divertito, e riprendo il mio tragitto sotterraneo, sbocconcellando la
pagnotta ancora calda e pensando a che cosa fare del gatto.
Dopo un altro po’
finalmente esco alla luce del sole e mi ritrovo in quel quartiere che una volta,
quando ero poco più di un ragazzo frequentavo tutti i giorni. Il gattino forse percepisce
quel nuovo ambiente, la luce naturale e i diversi odori, e si sveglia.
Sorprendendomi, con un balzo si getta a terra. Non si allontana di tanto,
tuttavia non riesco a riprenderlo. Zampetta stando alcuni metri davanti a me, e
riesco così a non perderlo di vista. D’un tratto mi trovo di fronte una specie
di monolite roccioso, del quale non ricordo la presenza. È strano che la memoria
mi tradisca in questa maniera, e ne sono sorpreso. Mi riscuoto dallo stupore
quando vedo il gattino che si arrampica sulla roccia, svelto e agile. Non mi
resta altro da fare che seguirlo. Salgo, aiutandomi con le mani, finché non
arrivo in cima, dove la bestiola mi sta aspettando e si lascia catturare. Non
siamo molto in alto, però mi rendo conto che sarà difficoltoso scendere, dal
momento che soffro di vertigini. Lentamente, con grande cautela, arrivo quasi
alla base del monolite, dove non trovo più appigli per proseguire la discesa.
Allora chiudo gli occhi e salto. L’atterraggio è piuttosto rovinoso ma per buona
sorta senza danni, e riesco a rimettermi in piedi, sempre stringendo il micio,
che non appare per nulla turbato. Da lontano, dall’altra parte della strada, un
uomo ha assistito a tutta la scena. Tiene una mano sulla fronte, per riparare
gli occhi dai raggi del sole. Sembra un contadino, capitato per caso in città.
Non c’è più niente da vedere, e allora si allontana.
Ancora ansante per lo
sforzo compiuto, e spaventato per il pericolo corso, mi avvio tra le case,
strette e lussuose abitazioni appiccicate l’una all’altra, edificate su una
ripida salita. Soltanto adesso avverto di non avere più addosso il giaccone. L’ho
perso, senza neppure rendermene conto. Non riesco a comprendere quando ciò
possa essere accaduto. Nella mano, quella non impegnata a trattenere il gatto,
mi ritrovo un paio di guanti, proprio quelli che si trovavano nella tasca del
mio indumento scomparso.
Attonito e ormai
stranito, mi avvicino a un balcone che sporge sulla via. In piedi, girata di
spalle, c’è una donna. Indossa una corta gonna blu e degli stivali color panna.
Le sue gambe, nude e abbronzate, sono davvero belle. Decido di rivolgermi a lei
per chiedere un’informazione. Non riesco più a rammentare dove si trovi l’abitazione
della mia amica, di nuovo la mia memoria fa cilecca.
“Mi scusi…”
La donna si volta e
allontana dal viso i lunghi capelli biondi. Vedo un volto pieno di rughe,
quello di una vecchia. Seppure sbalordito rivolgo la mia domanda, alla quale
lei risponde con voce strozzata, inquietante. Le sue informazioni però
risultano precise, e dopo pochi minuti mi trovo di fronte alla casa che stavo
cercando. È rimasta uguale, anche se la facciata è dipinta di un altro colore.
Suono il campanello,
mentre il gattino si è di nuovo addormentato. Mi apre lei, la vecchia
governante, quella che un tempo avevo soprannominato Osso di Seppia. Deve
essere molto anziana, ma la sua figura alta e magra è ancora ben eretta. I suoi
capelli adesso sono azzurri. Con un cenno mi invita a sottomettermi all’antico
rito, quello di sfilare le scarpe prima di entrare. Quando scorge il gatto fa
una smorfia, ma non dice nulla. Sono all’interno e, come sempre, mi stupisco di
quando sembri enorme quell’abitazione, che dall’esterno invece pare piccola.
Subito mi viene incontro la mia amica. Non è sorpresa di vedermi, come se la
mia improvvisa visita le fosse stata annunciata. Due cani Carlini si agitano ai
suoi piedi, fiutano il micio, che apre gli occhi ed emette con scarsa
convinzione alcuni piccoli soffi. Quella bestiola non ha paura di nulla, presto
si quieta e guarda con curiosità quei buffi animali dal muso nero.
Lei non è invecchiata. La
pelle del viso è ancora fresca, i suoi fitti capelli corvini non hanno alcuna
striatura grigia. È felice di rivedermi dopo tanti anni, mi rivolge tante
domande, alle quali fatico a rispondere. Mi scorta attraverso gli innumerevoli
ambienti dell’abitazione, sempre seguita dai suoi affettuosi cagnolini. Poso a
terra il gatto, che rimane immobile, e consente ai cani di appropriarsi del suo
odore. Le bestiole tra loro non sono ostili, e fanno subito amicizia. vengo condotto
in cucina, dove vedo suo padre impegnato ai fornelli, la sua passione. Quasi
non mi saluta, tale è la sua concentrazione. Forse non mi ha nemmeno riconosciuto.
Lei prepara una grossa ciotola di cibo, che i Carlini e il mio gattino
condividono senza alcun problema.
La casa è piena di
gente, tutte persone che non conosco, e non riesco a parlare con la mia amica;
di continuo c’è qualcuno che ci disturba, che interrompe la nostra stentata conversazione.
Mi viene presentato un giovane infagottato in una sgargiante divisa, forse un parente.
O un amico di famiglia, chissà.
Sono ormai stanco e
frastornato, quando in lontananza sento dei tuoni. Sta per piovere, e a questo
punto devo andare via. Di fretta saluto la mia amica, accenno al gattino. Lei
mi guarda meravigliata.
“Pensavo lo volessi
tenere tu” dice.
Scuoto il capo.
“Per ora te ne dovrai
occupare tu. Con i cani va d’accordo” rispondo e mi avvio verso l’ingresso,
pronto a uscire. Dall’ombra sbuca Osso di Seppia, che ha intuito tutto ed è
pronta ad aprire la porta. Lo fa, sempre senza parlare.
“Arrivederci e grazie”
le soffio in faccia.
La mia amica mi guarda.
“Arrivederci e grazie”
dico anche a lei e poi esco.
Sta iniziando a
piovere, e lei mi segue e si ferma sulla soglia.
“Stavi scherzando,
vero?” dice.
Non rispondo e le chiudo
la porta in faccia.
Cerco le scarpe ma non
le trovo. Mi affanno, giro più volte su me stesso e infine le scorgo. Ma non
sono le mie. Sono due calzature minuscole, da bambino, diverse tra loro e una
più piccola dell’altra. Provo ugualmente a infilarle ai piedi, tirandole,
cercando in tutti i modi di allungarle, ma è tutto inutile. Proprio non ci
riesco. Le mie lacrime si mescolano con la pioggia che cade sul mio viso.