Powered By Blogger

martedì 31 luglio 2012

L'ALTRA FACCIA DELLE MEDAGLIE



Durante queste intense giornate “olimpiche” se da un lato è doveroso celebrare le imprese degli atleti dall’altro è necessario rivolgere lo sguardo a quello che da sempre è il volto oscuro dello sport: il doping.
Ben prima dell’inizio delle gare alcuni atleti (una decina) sono stati esclusi dalla partecipazione alle stesse a causa della loro facile propensione all’utilizzo di sostanze chimiche non consentite dagli attuali rigidi regolamenti del Comitato Internazionale Olimpico.
A tale proposito, nei giorni scorsi hanno destato stupore e meraviglia (nonché perplessità e sospetto) le straordinarie prestazioni agonistiche della nuotatrice cinese Ye Shiwen. L’accusa, tutt’altro che velata, è partita dai tecnici della nazionale statunitense di nuoto. La giovane, in alcuni tratti delle competizioni in cui è stata impegnata, ha nuotato a livelli mai raggiunti neppure dai colleghi uomini. Una insinuazione, dunque, supportata dai fatti. Almeno, questa è stata la tesi di allenatori - e fisiologi dello sport - rimasti increduli di fronte a tali strabilianti risultati.
Naturalmente sia l’interessata che la federazione di appartenenza hanno subito rigettato tutti i sospetti, con grande fermezza e non nascondendo l’inevitabile indignazione (e irritazione) per la gravità della denuncia.
Il Comitato Olimpico, chiamato pesantemente in causa, proprio oggi è intervenuto ribadendo che l’atleta cinese ha superato tutti i controlli antidoping e che pertanto è da considerarsi “pulita”; le sue portentose prove sono frutto esclusivamente del suo immenso talento. E le accese polemiche - per il momento - si sono sgonfiate.
Il fatto, innegabile, che tutti i controlli ai quali è stata sottoposta l’atleta cinese siano risultati negativi certamente rassicura; inoltre, fino prova contraria siamo tenuti a credere alla buone fede di Ye Shiwen e di chi le sta attorno.
Tuttavia l’ormai lunga esperienza maturata nel campo dimostra quanto le tecniche di verifica risultino essere sempre un passo indietro rispetto a pratiche di doping invece sempre più sofisticate.
Molti ricorderanno, nella seconda metà degli Anni Novanta, le mirabolanti imprese nella corsa proprio di alcune sportive cinesi. Ebbene, tutte quelle ragazze, nel giro di pochi anni, incorsero in pesanti squalifiche per pratiche illecite e di loro non si ebbe più alcuna notizia.
Alcuni sport, e pensiamo ad esempio al ciclismo, alla ginnastica, alla pesistica, hanno rischiato più volte di minare per sempre la loro credibilità proprio per l’abuso, da parte di alcuni esponenti di tali discipline, anche di spicco, di sostanze vietate.
Perché si ricorre, sempre di più, al doping? La risposta può essere, allo stesso tempo, semplice e complessa.
Innanzitutto c’è il desiderio di prevalere ad ogni costo, di essere ricordati, di ottenere gloria e riconoscimenti, e tutto ciò che ne consegue. Aspirazioni umane spinte all’estremo, allo scopo di soddisfare aspirazioni e vanità personali. Stiamo parlando, naturalmente, delle iniziative individuali, portate avanti all’insaputa delle federazioni e dei propri tecnici. Ben altra cosa - decisamente più grave – è il doping programmato, quello di Stato, messo in pratica per soddisfare le ambizioni dell’intero movimento sportivo di una nazione. Tanto per intenderci, ciò che è stato praticato per molti anni dall’ex Germania Est, forse anche dall’ex Unione Sovietica e da altri paesi del disciolto blocco socialista. Un doping condotto senza scrupoli, spesso tenendo all’oscuro gli stessi atleti, e comunque sempre sulla loro pelle. Sì, perché l’uso indiscriminato di sostanze dopanti ha prodotto (e continua a produrre) gravi danni agli organismi sottoposti a tali pratiche.
Poi, da ultimo, è essenziale tenere pure conto dell’aspetto etico dell’uso del doping. Lo sportivo “arricchito” da sostanze chimiche è un falso atleta, così come risulta falsata la competizione alla quale prende parte. In tal modo si viene meno al principio fondamentale dello sport, quello di lealtà, un valore che non deve mai essere messo in discussione, pena la sopravvivenza dello sport stesso.     

domenica 29 luglio 2012

CITIUS! ALTIUS! FORTIUS!



Citius! Altius! Fortius! è uno tra i motti olimpici più conosciuti (formulato dal predicatore domenicano Henry Didon), insieme all’altrettanto famoso l’importante non è vincere, ma partecipare attribuito al barone Pierre de Coubertin, il fondatore dei moderni Giochi Olimpici.
Più veloce, più in alto, più forte, a rappresentare l’ambizione degli atleti – e del genere umano – al superamento agonistico dei propri limiti personali. Un motto che, con il passare del tempo, è diventato una autentica filosofia di vita.
Ebbene sì, sono iniziate le Olimpiadi londinesi, un grande evento che, comunque la si pensi, riguarda l’intera comunità mondiale. Innanzitutto perché si tratta di un avvenimento che coinvolge praticamente tutte le nazioni del globo, che per qualche giorno le riunisce, le costringe a confrontarsi (non soltanto sul piano sportivo), le obbliga a convivere in pace e armonia. E, soprattutto, con rispetto. Culture e modi di vivere e pensare diversi, rappresentanti di stati piccoli e grandi, ricchi e poveri, con più o meno problemi, con sistemi di governo alquanto differenti, democrazie e regimi più autoritari, addirittura rigide teocrazie.
Ecco, questo è il vero spirito olimpico che, nonostante tutto, è riuscito a conservarsi integro, nei suoi fondamenti, da oltre un secolo. Che ha attraversato le profonde crisi dell’umanità dell’era moderna, passando attraverso guerre mondiali e crisi politiche e militari e sociali di ogni genere, ed è miracolosamente sopravvissuto. Tante cose sono cambiate dall’anno 1896, quello dei primi Giochi di Atene, tutto è mutato e si è trasformato, nulla è più come allora, tuttavia quella spinta visionaria, quella che pareva soltanto l’illusione di un gruppo di romantici sognatori, di riproporre ciò che nell’antichità era una sorta di tregua rispetto ai conflitti che già allora affliggevano e martoriavano l’umanità, ha funzionato.
L’altra sera, attraverso gli schermi televisivi, miliardi di persone hanno assistito alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi Londra. E non importa quanto tale mostruoso spettacolo (per l’impiego di mezzi) sia stato o meno apprezzato, anche perché, ancora una volta, la parte migliore della rappresentazione è stata la parata delle delegazioni nazionali. Divise severe, tenute più sfarzose e sgargianti, ma anche stravaganti (ai nostri occhi), costumi tradizionali. Ma soprattutto, a colpire di più, lo sguardo degli atleti, in particolare di chi deteneva il prestigioso incarico di portabandiera. Sguardi felici, gioiosi, orgogliosi, fieri, preoccupati, tesi o compunti. Insomma, l’intero campionario dei sentimenti e degli stati d’animo umani racchiusi tra le fila di quell’emozionante sfilata.
Significative espressioni di tanti giovani, di ragazze e ragazze accomunati da un ideale comune, quello sportivo e, proprio in nome di tale fede, uniti al di là di tutte le differenze, di colore della pelle, di religione e di condizione di vita.
Esaltando lo spirito olimpico è facile – e piuttosto piacevole – abbandonarsi alla retorica, alla celebrazione dei sentimenti più puri. Ma, per una volta ogni quattro anni, è lecito farlo senza vergogna e senza infingimenti.
I soliti detrattori, con la loro consueta e insopportabile aria di superiorità, potrebbero facilmente obiettare che i Giochi Olimpici non sono altro che una specie di oppio per i popoli, un perverso e ingannevole strumento per far sì che per un periodo di tempo tutto sia rimosso e sia dimenticato: i conflitti di tutti i generi, le sofferenze e il crescente disagio delle persone, la crisi economica planetaria, la povertà.
No, nessuno ha intenzione di distrarsi da questi enormi e forse irrisolvibili problemi dell’umanità. Nulla può essere dimenticato, poiché si tratta di questioni con le quali dobbiamo e dovremo fare i conti tutti giorni, e che richiederanno l’impegno di tutti proprio per cercare di attenuare, se non eliminare, le pene, i patimenti e i tormenti dei nostri simili, in tutto il mondo.
Però nei prossimi giorni nessuno potrà impedirci di trepidare e di esaltarci per le imprese degli atleti impegnati nei Giochi Olimpici – di tutti gli atleti, connazionali e non.
Anche chi è in difficoltà, anche chi è preda dell’angoscia quotidiana  ha il diritto di vivere attimi, se non di felicità, di spensieratezza e di contentezza. Per qualcosa di puro e sano.  

venerdì 27 luglio 2012

IL MOMENTO E' DELICATO



Avanti tutta, lo spread va alle stelle e la Borsa precipita. Indietro tutta, lo spread torna giù e la Borsa rifiata, anzi guadagna. Come avrete capito il mercato (o la speculazione finanziaria, se preferite) non possiede mezze misure. L’importante è non stare fermi, ma muoversi di continuo. Perché se tutto ristagna, se tutto rimane immobile, nessuno perde ma nessuno trae utilità. A provocare questi movimenti, questi smottamenti improvvisi e repentini, è sufficiente una parola pronunciata da una grande banca centrale, oppure l’azione (o anche soltanto un semplice annuncio) del governo di una nazione strategica.
Ed è proprio ciò che è accaduto ieri con le affermazioni del governatore della BCE, Mario Draghi. La strenua difesa dell’euro (“ad ogni costo”) proclamata con forza dal primo banchiere d’Europa è stata sufficiente per stabilizzare la situazione finanziaria nel continente, per ridare fiato alle negoziazioni di titoli, per far tirare un sospiro di sollievo ai capi di governo dei paesi più in difficoltà.
Però, ci si chiede con una certa apprensione, fino a quando si potrà andare avanti in questo modo? Arriverà il tanto temuto momento di una resa dei conti generale o invece no? È problematico stabilirlo; quel che è certo è che la crisi economica, da virtuale si è trasformata tragicamente in reale. Crescono, com’era inevitabile che avvenisse, le tensioni sociali negli stati più a rischio di fallimento, tra i quali il nostro. Senza sosta si perdono posti di lavoro e, in una condizione del genere, è impensabile che le timide azioni intraprese per favorire la crescita e lo sviluppo (sia a livello nazionale che comunitario) possano avere effetti benefici a breve o a medio termine.
Ogni giorno si discute se sia meglio per la Grecia rimanere o meno nell’Eurozona, (dibattiti che avvengono sulla pelle degli sventurati ellenici) mentre anche la Spagna è ormai in ginocchio. Il contagio, lentamente ma in maniera inesorabile, colpisce anche economie più solide, addirittura la Germania, e punisce le ambiguità politiche tedesche, le incertezze, la strenua ed eccessiva difesa delle peculiarità interne, finora virtuose ma spesso a scapito degli altri paesi dell’Unione.
L’Italia, dal canto suo, galleggia. A volte affonda, per poi riaffiorare, in affanno, a risucchiare una boccata d’ossigeno. Una strategia obbligata dettata dagli eventi di giornata, dai nostri limiti e dalle grandi debolezze strutturali, da un debito pubblico enorme che sempre più si sta rivelando un pesante macigno del quale è impossibile liberarsi. Una lenta e penosa agonia.
Al momento attuale, tra l’altro, due connazionali di grande prestigio e di indiscussa autorevolezza occupano posti chiave: il Presidente Mario Monti e il già citato Draghi. Sappiamo bene che l’operato dell’esecutivo non può essere esente da critiche: la presunta equità non ha trovato concretezza, d’altra parte la maggioranza che sostiene il governo non consente, nel modo più assoluto, l’attuazione di misure redistributive del reddito nazionale, le uniche che potrebbero, seppure in parte, attenuare il disagio crescente dei cittadini meno abbienti, che ormai sono tanti. Tuttavia ci si chiede, con terrore, quale sarebbe lo scenario attuale se il precedente governo non fosse stato costretto alle dimissioni. Un immane disastro, senza alcun dubbio.
C’è bisogno di stabilità politica, e il paventato ritorno di Silvio Berlusconi non può di certo contribuire ad assicurarla. Un incubo che ancora si ripresenta, e che di sicuro ha gettato nel più cupo sconforto i governi dell’intera Europa. Proviamo a immaginare una campagna elettorale dominata dai suoi menzogneri messaggi, e dalle dichiarazioni demagogiche di chi è quasi riuscito nell’impresa di distruggere un’intera nazione, la sua. Vade retro Satana.
Il momento, dunque, è assai delicato, e lo sarà sempre di più all’avvicinarsi delle Elezioni Politiche. Facciamo di tutto per evitare l’improvvisazione, per scansare il caos che travolgerebbe tutti. Comportiamoci per una volta, per una volta sola, da veri cittadini. Da cittadini consapevoli e - perché no? - illuminati.

giovedì 26 luglio 2012

DIFFERENZE



Quali sono, in realtà, le vere differenze tra noi esseri umani e gli amici animali? Amici per modo di dire, dal momento che non esitiamo a maltrattarli, torturarli, vivisezionarli e divorarli. Possiamo anche escludere dal confronto quegli animali che, per ovvie e grandi diversità biologiche, possano apparire ai nostri occhi troppo dissimili dall’uomo, vale a dire pesci, uccelli, rettili e anfibi. Rimangono comunque, da impiegare per il nostro confronto, tutti i mammiferi, di piccole o grandi dimensioni che siano.
Ebbene, la nostra specie possiede, da sempre, la convinzione che la manifesta ed evidente (?) superiorità rispetto a tutti gli altri esseri viventi sia dovuta al possesso della consapevolezza di esistere. Una cognizione, seppure discutibile, che ci porta sempre, inevitabilmente, a rivendicare tale egemonia. Insomma, noi ci rendiamo conto di nascere, di vivere, di dover morire, abbiamo un io piuttosto sviluppato, mentre gli animali, i mammiferi nel nostro esempio, attendono inconsapevoli il termine della loro esistenza, e pertanto non sono in grado di progettare le loro vite, di attribuire loro uno scopo. Su ciò, pur con qualche riserva, possiamo anche essere d’accordo, perlomeno in base alle attuali conoscenze. Tuttavia ciò che veramente importa non è tanto la presenza di questa qualità unica (che comunque non comporta un’automatica attestazione di predominio), quanto l’uso che di essa ne facciamo. E il quadro, conseguenza di questa pur condivisibile considerazione, appare desolante. La maggior parte delle esistenze degli esseri umani appaiono vuote e inconcludenti, sono un perenne e affannato rincorrere qualcosa che non riusciamo bene a definire, e rivolto al nulla se non alla ricerca del conseguimento di ricchezza, potere, successo in tutti i campi, esibizione di vanità e di altre pessime qualità possedute soltanto dal genere umano. Invece il vero e unico fine dell’esistenza dell’uomo dovrebbe essere quello di migliorarsi e di raggiungere (o almeno di provare a raggiungere) un livello etico superiore, un piano morale non necessariamente uguale per tutti gli individui, dal momento che le condizioni di partenza sono diverse da persona a persona, ma in ogni caso più alto rispetto a quello iniziale, a quello di partenza posseduto al principio della vita. Un obiettivo nobile ed elevato che, se perseguito con successo, potrebbe forse elevare gli esseri umani nei riguardi degli animali, non verso un’affermazione di supremazia, bensì in direzione di un’illuminata diversità.
Ecco, questo è l’autentico vantaggio goduto dagli uomini. Un privilegio - o, se si vuole, una prerogativa forse dettata semplicemente dal caso - che non è mai stato sfruttato, e che non è mai stato, se non in minima parte, utilizzato. Uno spreco che si perpetua, e che contrassegna senza appello la nostra come specie una imperfetta e con evidenti limiti. Una specie, tra altro, capace di esprimere i sentimenti più bassi e orrendi, quali l’odio, la cattiveria, la malignità, il risentimento, la meschinità, la pura malvagità. Bestie a due zampe in grado di ricorrere, senza ragione apparente, alle più inenarrabili e spaventose violenze. Al contrario gli altri animali non umani non odiano, non uccidono con colpa, non sono mai perfidi e crudeli. Queste rilevanti diversità, è innegabile, sono decisamente a loro favore.  

domenica 22 luglio 2012

LA CHIAVE



Gli ambienti della piccola gendarmeria si animarono all’improvviso.
Il piantone fece irruzione, trafelato, nell’ufficio del comandante, il colonnello Max Frisch.
“Ehi! Che succede?” disse l’ufficiale, sollevando il volto da un’alta pila di carte.
La guardia deglutì, poi si sistemò sull’attenti di fronte all’enorme scrivania.
“Chiedo scusa, comandante. C’è un uomo che desidera incontrarla, subito.”
“Chi è?”
L’altro alzò le spalle, desolato, e solo un istante dopo si rese conto che quel suo gesto poteva apparire poco marziale. Chiese di nuovo scusa.
“Non ha voluto presentarsi” aggiunse. “Comunque si tratta di uno di loro.”
Max Frisch, un uomo non più giovane, con la pelle del viso di color rosso acceso che contrastava con i capelli grigi, irti e corti, sospirò. Poi, con un gesto di stizza inconsueto per lui, sempre dotato di grande autocontrollo, scagliò la penna con violenza sul piano del tavolo.
“Va bene, lo faccia entrare. Lo riceverò.”
La guardia salutò, con enfasi eccessiva, e uscì.
Subito dopo fu introdotto nell’ufficio del comandante un uomo molto grasso, vestito con un semplice abito scuro. Sul bavero della sua giacca spiccava, per la sua brillantezza, un minuscolo crocifisso d’argento. L’espressione del viso di quel singolare individuo era piuttosto giovale. Strinse la mano al colonnello e poi si accomodò di fronte a lui, sempre sorridendo. Si presentò.
“Un vescovo!” esclamò il colonnello. “Non avevo mai avuto il privilegio di incontrarla, prima d’ora. Presumo che lei non abbia mai prestato la sua opera in sede. Finora, almeno.”
“Esatto. Di solito i miei incarichi mi portano in giro per il mondo. Pochi giorni fa sono stato richiamato qui, e lei può ben immaginare da chi” disse l’altro, senza nascondere un certo compiacimento.
Frisch assentì, anche se in realtà non aveva ben compreso.
“In che cosa posso esserle utile?” domandò.
Il vescovo scoppiò in una fragorosa risata.
“Mi scusi, colonnello, forse mi sono espresso in maniera non sufficientemente chiara. Lei da questo momento sarà ai miei ordini, fino al termine del procedimento giudiziario.”
Il vescovo porse al comandante un plico, estratto a fatica dalla tasca interna della giacca. L’altro esaminò a lungo il carteggio, annuì, poi impallidì.
“Si tratta dell’uomo del Santo Padre? Il maggiordomo?”
Il vescovo acconsentì, esibendosi in un ennesimo sorriso.
“Vede, Eccellenza” proseguì Frisch. “La fase istruttoria è praticamente terminata. L’indagato, nel corso di tutti gli interrogatori ai quali è stato sottoposto, ha sempre negato ogni addebito. Inoltre, non siamo riusciti a raccogliere prove sufficienti a suffragare le accuse formulate nei suoi confronti. Al processo sarà inevitabile un verdetto di assoluzione. Sa, dopo tutto questo tempo mi sto convincendo anch’io che quell’uomo possa essere davvero innocente. Una vittima, probabilmente, alla mercé di qualcuno che lo ha utilizzato a sua completa insaputa. E che sta molto in alto.”
Il vescovo scosse con violenza il capo, senza però perdere la sua espressione bonaria.
“Ho l’impressione che lei si sbagli, colonnello.”
Il suo interlocutore scrollò le spalle, in segno di impotenza.
“Desidero interrogare il prigioniero di persona” disse l’alto prelato. “Immediatamente.”
“Il prigioniero?” domandò Frisch, incredulo.
Pedro Guerrero, perché era questo il nome con il quale il corpulento vescovo si era presentato, eluse la domanda.
“Faccia portare subito quell’uomo nella stanza” disse invece. Il suo era un ordine.
“Intende dire qui?”
“Colonnello, forse non ci siamo intesi. Mi riferisco a quella stanza.”
“Impossibile!” sbottò l’ufficiale. “Non è più utilizzata da… da…”
“Tale particolare non ha nessuna importanza. Esegua ciò che le ho detto, comandante.”
“Ma… noi non possediamo neppure la chiave. Quella stanza è…”
Il vescovo frugò in una tasca dei larghi pantaloni.
“Si riferisce a questa?” domandò, sorridente. Poi posò sul piano della scrivania una grossa chiave di bronzo.
Il colonnello Frisch era impietrito.
“Come se l’è procurata?” mormorò.
“L’ho avuta da lui, naturalmente. E lei sa bene a chi mi riferisco.”
“Mi scusi, Eccellenza” disse allora il comandante, prima di uscire dall’ufficio. Dopo aver impartito le necessarie istruzioni ritornò e pregò il vescovo Guerrero di seguirlo.
“I miei uomini, con l’accusato, ci aspettano di sotto.”
I due uomini scesero una lunga serie di scale che, a mano a mano che si procedeva, si facevano sempre più strette e buie. Sembrava quasi che mancasse l’aria. Il vescovo sudava e sbuffava, affaticato. Giunsero infine di fronte a una piccola porta di legno, rinforzata da sbarre di metallo, arrugginite. Ad attenderli trovarono tre uomini: due giovani guardie, che non riuscivano a celare il loro sbalordimento, e un individuo dall’aria stanca e rassegnata, l’indagato.
Pedro Guerrero infilò la chiave nella toppa. Con un grande sforzo riuscì a farla ruotare, più volte. Aiutandosi con la possente spalla, scostò la porta che si aprì cigolando. Il primo ad entrare fu il comandante Frisch. Si trovò di fronte a un buio impenetrabile. Tastando il muro con la mano, prima a destra e poi a sinistra, cercò inutilmente l’interruttore, che non c’era. Sorpreso, si voltò e incrociò lo sguardo sorridente e gioviale di Pedro Guerrero.
“Comandante, a quei tempi l’elettricità non esisteva” disse il vescovo, che poi si rivolse a una delle guardie.
“Presto, vai a prendere dei ceri, molti ceri. Mi raccomando, che alcuni siano grossi, perché mi serviranno per…” Quindi si interruppe, mentre già il ragazzo scattava per eseguire l’ordine, e iniziò a rovistare nell’ampio vestito finché non recuperò una torcia elettrica. La accese.
Immersi nel cono di luce, i due uomini penetrarono nella stanza. C’era molta polvere, e odore di muffa.
“Portate dentro anche il prigioniero” disse il vescovo. Questi non oppose la minima resistenza. Aveva la bocca spalancata, ma non emetteva alcun suono. I suoi occhi sembravano dover schizzare fuori dalle orbite da un momento all’altro. Era terrorizzato.
“Eccellenza, le ricordo che si tratta del maggiordomo del Santo Padre” riuscì a dire Frisch. L’altro non rispose. Illuminò con la torcia alcuni attrezzi che si trovavano all’interno della stanza. Prima una garrotta, poi un rullo, quindi delle zampe di gatto, una culla di Giuda e uno schiacciatesta. Ne provò il funzionamento e annuì tra sé, soddisfatto. Appoggiate su un bancone corroso dai tarli c’erano pinze e tenaglie ricoperte di ruggine e rivestite da soffici ragnatele.
Il comandante delle guardie fissò quegli strumenti, agghiacciato.
“Non si preoccupi, comandate. Prima di utilizzarle le sterilizzerò. Con il fuoco” disse il vescovo. Il suo sorriso si era trasformato in un orribile sogghigno. Il colonnello Frisch rabbrividì ancora di più.
Tornò la giovane guardia e furono accesi innumerevoli ceri. La stanza assunse un aspetto inquietante. Il vescovo congedò i due militari e rimase solo con il comandante e l’accusato, che fu fatto stendere su un tavolaccio e fissato ad esso per mezzo di rigide cinghie di cuoio. Il malcapitato iniziò a piangere, in silenzio.
“Colonnello Frisch, avrei bisogno di un testimone per l’interrogatorio e quindi le chiederei di rimanere. Tuttavia se proprio non se la sente…”
Il comandante uscì quasi di corsa dalla stanza e si catapultò su per le scale. Il vescovo sorrise e iniziò la sua inchiesta.
Dopo circa un’ora il piantone irruppe di nuovo nell’ufficio del capo della gendarmeria.
Frisch alzò stancamente il capo.
“Che succede ancora?” domandò.
“C’è… c’è… lui!”
“Chi? Che cosa stai dicendo?”
Proprio in quel momento comparve una figura che indossava una candida veste bianca, accompagnata da un ometto dall’aspetto dimesso, il suo segretario particolare.
Il colonnello Frisch balzò in piedi, aggirò la scrivania, si inginocchiò e baciò il grosso anello.
“Santo Padre!” disse, ancora meravigliato.
L’altro gli sorrise e gli toccò il capo con una mano. Una benedizione?
“Come procede interrogatorio?” domandò l’uomo in bianco, con il suo forte accento straniero.
Il comandante trasalì.
“Eh?”
“Mio incaricato stare lavorando?” domandò ancora il Pontefice.
In quell’attimo si udirono delle urla disumane, che provenivano dai sotterranei.
“Sì, sta lavorando, sta lavorando bene” disse il comandante, sbiancando.
Il Papa annuì, beato.
“Non sia così turbato, colonnello. Verità è spesso accompagnata da dolore” pronunciò, solenne. 

giovedì 19 luglio 2012

UNIVERSI DIVERSI



“Perché al telefono sei stato così sfuggente?” domandò Marta.
“Preferivo dirtelo di persona. Sai, è una cosa talmente assurda!” rispose Mario, il suo ragazzo.
“Non potevi aspettare domani? Ci saremmo visti a scuola e…”
“No, si tratta di qualcosa che va al di là di ogni immaginazione. Sono ancora sconvolto.”
“Addirittura!” disse la ragazza, sorridendo.
“Marta, ti prego… Guarda che non è uno scherzo…”
Mario parlava a bassa voce, quasi sussurrando, ed era livido in volto. Si agitò sulla sedia, mentre Marta si stese sul letto.
“Allora, ti decidi a raccontare?” lo incoraggiò. Lui si strinse il capo tra le mani e iniziò a parlare.
“Ero là, vicino alla parete, in piedi. A un certo punto ho appoggiato i palmi delle mani e la fronte sul muro, proprio in corrispondenza dell’angolo.”
“Per quale motivo?” lo interruppe Marte.
“Be’… a volte si fanno delle cose strane. Così, senza una ragione particolare…” rispose Mario, imbarazzato. La ragazza si sollevò, inclinò il capo e lo fissò a lungo.
“Prosegui” disse infine. Lui annuì, deglutì e riprese il suo racconto.
“All’improvviso mi sono ritrovato da un’altra parte.”
“Spiegati meglio.”
“Cioè, ero sempre qui, nella mia camera, ma ho percepito qualcosa di diverso, capisci?”
“No.”
“Aspetta. Mi sono guardato attorno, a lungo, ho osservato con attenzione tutto ciò che mi circondava, i miei libri, le mie cose, e alla fine ho capito…”
“Cosa hai capito?” domandò Marta, un po’ spazientita.
“Che ero passato attraverso un varco, e mi trovavo in una dimensione parallela, alternativa, chiamala come ti pare…”
Marta gli lanciò un’occhiata strana, che durò un attimo. Poi si ricompose. Che cosa stava accadendo al suo ragazzo? Perché faceva quei bizzarri discorsi? Lui, che di solito era una persona molto seria ed equilibrata?
La ragazza sospirò.
“Cosa c’era di particolare, di diverso, in quell’… universo?”
“La penna!” esclamò Marco.  
“La penna?”
“Vedi, io la appoggio sempre alla destra del computer. Invece in quel momento si trovava alla sua sinistra. Quindi si trattava senza dubbio di un universo parallelo, nel quale però la distorsione era minima. Infatti, tutto il resto era perfettamente uguale…”
“Mario!”
“Eh?”
“Ti rendi conto di ciò che stai dicendo? Per una volta, e per puro caso, avrai posato la penna dall’altra parte del computer! Che c’è di strano? Perché tutte queste baggianate su altre dimensioni e via dicendo?” Marta era decisamente irritata.
“E mi hai fatto correre fin qua, a quest’ora, per farmi ascoltare queste tue fantasie? Sei impazzito?” aggiunse ancora la ragazza, che poi si alzò e di diresse verso la porta. Mario la fermò.
“Non ti ho detto una cosa. Quando ho passato il varco ho sentito in tutto il corpo un formicolio, e la stessa sensazione l’ho provata quando ho riattraversato la breccia temporale.”
“Breccia temporale?” Marta era incredula. Mario la costrinse a sedere sul letto.
“Sono stato di là, in quell’altra dimensione, per dieci minuti esatti. Poi, spaventato, ho riappoggiato mani e fronte al muro e sono ritornato” disse il ragazzo.
“Marco, adesso devo proprio andare. Se vuoi ne riparleremo domani, quando sarai un po’ più sereno. Non so proprio che cosa ti sia preso…”
Lui la bloccò di nuovo.
“Aspetta, ti prego. Ti ho chiesto di venire qui per un motivo preciso” disse Marco.
“E quale sarebbe?” chiese Marta.
“Ci voglio riprovare. Ma non da solo, con te.”
“Ma…”
“Per favore!”
“Marco! Non ti riconosco più!”
“Non puoi abbandonarmi…” disse il ragazzo, in un soffio. Il suo sguardo era implorante. Marta ne fu impietosita.
“Va bene” disse. “Ma sappi che dopo me ne andrò subito.”
Lui annuì, poi la prese per mano e l’accompagnò verso la parete, nell’angolo. Premette le mani sul muro, e dopo anche la fronte. Marta fece lo stesso. Non accadde nulla.
“Adesso basta!” esclamò la ragazza.
Lui non si scompose.
“Proviamo in un altro modo” disse. Fece appoggiare a Marta le mani sulle sue, e la fronte alla sua nuca. Dopo alcuni istanti entrambi percepirono una lieve scossa attraversare i loro corpi. E passarono.
Un po’ storditi, si ritrovarono nella stessa camera, quella di Mario. La ragazza si guardò attorno, smarrita.
“Non è successo nulla” disse. Lui non rispose.
“Guarda!” strepitò dopo un po’.
“Che cosa? La penna? È sempre allo stesso posto, sulla destra.”
“No, il computer!”
“Non vedo niente di strano…”
“Non è il mio!”
“Eh?”
“La marca! È un’altra!”
Lei si avvicinò e constatò con i suoi occhi quella sorta di prodigio. Poi iniziò a tremare.
“Hai ragione…” sussurrò.
“Una marca del tutto sconosciuta, tra l’altro…” aggiunse il ragazzo, che poi proseguì nell’ispezione della camera. Su uno scaffale vide una fotografia incorniciata. La sollevò e fissò quel viso sconosciuto. Una ragazza bionda, con gli occhi verdi, che sorrideva. La voltò e poté leggere una scritta: da Luana con immenso amore. Mario trasalì e subito rimise la cornice al suo posto. Marta, nel frattempo, si era avvicinata a lui.
“Chi è?” domandò con voce tremante.
“Uh?”
“Quella ragazza, chi è?”
“Si tratta di… mia cugina.”
“Tua cugina? Non me ne hai mai parlato. Perché hai questa fotografia?”
“Non lo so” disse lui, a disagio. “In realtà non la vedo da anni. Forse in questa vita… parallela siamo rimasti in contatto e…”
Lei scosse il capo.
“Scusa, scusa per la domanda sciocca” disse, prima di voltarsi verso il letto.
“Marco!”
“Eh? Che c’è?”
“Guarda, il poster!”
Lui osservò il manifesto, che da tanti anni era appesa sopra la spalliera del letto. Non raffigurava i Twins, il suo gruppo musicale preferito, bensì un altro gruppo, che non conosceva.
“Hai visto la forma delle chitarre?” domandò Marta.
Mario annuì, con aria grave, poi diede un’occhiata all’orologio. Si agitò.
“Dobbiamo andare” disse alla sua ragazza, con voce piena d’apprensione.
Lei lo guardò, inebetita, e non comprese.
“Sono trascorsi più di otto minuti. La prima volta sono stato via quasi dieci minuti. Non possiamo rischiare oltre. Vieni, presto!”
La trascinò verso il muro, e si sistemarono nella stessa posizione di prima. Rifecero il viaggio, all’indietro. Per ritrovarsi di nuovo allo stesso posto. O quasi.
Ancora scossi, i due ragazzi si guardarono a lungo negli occhi, prima di parlare.
“Ora mi credi?” disse infine Mario. Lei assentì.
“Scusa” disse poi.
“È qualcosa di incredibile” aggiunse lui.
“Che cosa intendi fare?” domandò lei, ancora pallida in volto.
“Cioè?”
“A chi intendi dirlo?” aggiunse Marta.
“Ah! La mia intenzione sarebbe quella di provare ancora una volta. Sai, per essere del tutto sicuro di…”
“No!”
“Perché? Non può accaderci nulla. Non è pericoloso, l’importante è non superare la soglia dei dieci minuti. Abbiamo constatato che in tal modo non c’è alcun rischio.”
“Quale potrebbe essere l’eventuale rischio?” chiese Marta, pur conoscendo la risposta.
“Quello di non tornare?” disse Mario.
“Sì.”
“Non è possibile!” affermò lui con decisione.
“Per quale motivo?”
“Noi continueremmo in ogni caso a esistere. Da una parte e… dall’altra.”
“Sono troppo turbata, e credo di non capire…” mormorò la ragazza.
“Marta, ti fidi di me?” domandò lui all’improvviso.
Lei lo guardò intensamente.
“Sì… adesso sì” rispose.
“Vieni, allora. Soltanto una volta ancora, te lo prometto.”
 Marta, come un automa, si lasciò guidare di nuovo in direzione della parete, nell’angolo. I due giovani riassunsero la posizione che consentiva loro di penetrare il varco temporale, se di ciò veramente si trattava. Subito, la quasi impercettibile scarica elettrica trapassò i loro corpi.
Mario si riprese subito, si voltò e si rese conto di essere solo. Fu assalito dal panico.
“Marta!” La sua voce era rauca, disperata. Non badò più di tanto all’ambiente in cui si trovava. Dopotutto, era pur sempre la sua camera, anche se il letto era completamente diverso, le pareti erano dipinte di un altro colore, non c’era nessun computer sulla singolare scrivania, e i libri sugli scaffali recavano sui dorsi titoli sconosciuti. Non notò nulla di tutto ciò, perché in quel momento pensò soltanto alla sua ragazza. Dov’era finita?
Mario si sforzò di riacquistare un poco di lucidità. Udì dei rumori provenire da un’altra parte della casa. Chi poteva essere se non sua madre? Senza pensare uscì dalla stanza e si diresse verso la cucina. Vi fece irruzione, trafelato.
“Mario! Che succede?” disse la donna, spaventata da quell’improvvisa incursione.
“Mamma! Marta! Dov’è Marta?”
Sua madre scosse la testa, assunse un’aria pensierosa, afflitta.
“Siediti, Mario. E cerca di calmarti.” Il ragazzo ubbidì, e lei gli porse un bicchiere d’acqua. Poi gli si rivolse con un tono dolce.
“Mario, purtroppo devi rassegnarti. Marta non c’è più, e non tornerà. Non ricordi? Quel brutto incidente stradale…”
“No!”
“Lo so, è terribile. È qualcosa difficile da accettare, anche se speravo che ormai tu stessi un po’ meglio. Sai, negli ultimi tempi non avevi più avuto queste… crisi. Adesso ti darò un calmante e domani, se sei d’accordo, torneremo dal dottor Borghi. Lui ha fatto tanto per te e…
“No! No!”
“Mario, calmati. Mario!”
Il ragazzo, di scatto, si alzò dalla sedia e tornò, correndo e urlando, in camera sua. La madre, colta di sorpresa, lo seguì dopo un attimo. Quando si affacciò nella sua stanza, lo vide appoggiato al muro, nell’angolo, con i palmi delle mani e con la fronte. E non smetteva di gridare, di invocare Marta, la sua ragazza morta.
La donna tornò nell’ingresso e si precipitò sul telefono.

lunedì 16 luglio 2012

SENZA TITOLO (I)




Andavo e venivo, ma non piangevo

Non ci credevo, ma non temevo

Camminavo e correvo, ma non mi stancavo

Non mi voltavo, ma non lo volevo

Leggevo e ascoltavo, ma non comprendevo

Non contavo, perché non vivevo

domenica 8 luglio 2012

TRE GIORNI, E POI?



“Insomma, vai tu o vado io?” disse la donna, che appariva molto inquieta, non riusciva a stare ferma, e si spostava di continuo da un ambiente all’altro della grande casa.
L’uomo la osservò per alcuni secondi, in parte quasi divertito, ma alla fine sbottò.
“Devo uscire tra pochi minuti! E sarà una giornata tremenda. Ho in programma diverse riunioni e quindi tornerò a casa tardi. Perciò, se davvero ti interessa questa cosa, te ne dovrai occupare tu!”
Lei si bloccò all’istante, poi si imbronciò.
“Non mi aiuterai?” domandò, con la sua voce sottile.
“No, perché veramente non posso. E poi, questa cosa interessa soprattutto a te. Inoltre l’anno scorso, e ti rammento che era la prima volta che lo facevamo, te ne sei occupata tu e tutto è andato bene.”
“Ma l’avevo acquistato sul catalogo!” si lamentò la donna.
“Che importa? Questa volta lo farai di persona. Vai al negozio, scegli pure senza badare a spese e fatti consegnare tutto a casa. Mi raccomando, verifica che l’installazione sia compresa nel prezzo. L’anno passato ho dovuto fare tutto io, e non mi è piaciuto affatto, te lo assicuro. E poi, quella croce l’abbiamo persino buttata. Era troppo sporca per conservarla.”
“Uff!” esclamò lei, fingendo di essere offesa.
“Che c’è ancora? Io dovrei andare…”
“Quello dell’anno scorso non ti era piaciuto.”
“Be’? Mica era stata colpa tua! D’accordo, non era molto somigliante, ma alla fine ha svolto la sua funzione in maniera egregia. È stata ugualmente una bella Pasqua, no?”
“Era piccolo e magro…” mormorò la donna.
“Ed era asiatico!” esclamò il marito, scoppiando a ridere.
“Sì, era di sicuro un cinese, e non aveva neppure la barba!”
“Ascolta, devo lasciarti, sono già in tremendo ritardo. Scommetto che stasera quando sarò di ritorno troverò tutto fatto, vero? Ti ricordo che oggi è già giovedì. Quelli scadono alla mezzanotte di domani e quindi non ce lo potremo godere molto. Per questo motivo prova a chiedere un po’ di sconto, sono sicuro che te lo concederanno. Se può servire, fai pure il mio nome. Mi raccomando cara, massima efficienza!”
L’uomo baciò la moglie, afferrò la borsa e impugnò la maniglia della porta, per uscire. Lei lo fermò pronunciando il suo nome.
“Di nuovo? Cosa c’è?” disse lui, guardando nervosamente l’orologio. Stava cominciando a perdere la pazienza. E gli succedeva spesso.
“Posso farlo installare in giardino?”
“No!” urlò l’uomo. Lei, di fronte a quella reazione esagerata, sobbalzò impaurita.
“Per quale motivo?” ebbe comunque l’ardire di chiedere.
“Ma non capisci?” ringhiò lui. “Desidero godermi lo spettacolo da solo con te. Non voglio vicini curiosi che sbirciano dalle finestre. Senza che abbiano speso un soldo, tra l’altro…”
“D’accordo, come vuoi tu” disse la donna, rassegnata. Poi lui finalmente riuscì a uscire.
Quella sera tornò tardi, erano ormai le venti passate. Ed era stanco. Trovò sua moglie ad aspettarlo sulla soglia di casa. Sorrideva, sembrava molto allegra e soddisfatta di sé.
“Ciao! Vieni, vieni nel salone, presto!” disse con tono entusiasta.
“L’ho preso! Vieni a vedere!” proseguì la donna, sempre più eccitata.
“Uff, un attimo. Lascia che riprenda fiato. Sono sfinito.”
“Ti riposerai dopo. Su, andiamo”. Prese per mano il marito e lo trascinò nell’immenso salone.
Nel mezzo dell’elegante ambiente era stata innalzata una croce, sulla quale era stato inchiodato un uomo.
I due si avvicinarono, senza parlare. Rimasero a lungo a osservare quella tragica scena. Fu la donna a rompere il silenzio.
“Ti piace? Ho fatto una buona scelta?” domandò.
“Sì” rispose lui distrattamente, e poi continuò a scrutare quello sconosciuto, crocefisso e sofferente. Era praticamente nudo, soltanto una pezza di ruvido tessuto gli cingeva i fianchi.  Il corpo, snello ma muscoloso, era bruno. Dopo fermò lo sguardo sul suo volto dai lineamenti sottili, tratti alterati dal dolore e sui quali spiccavano striature di sangue. Notò i suoi capelli lunghi, dal colore scuro, e la folta barba. Attorno al suo capo c’era una corona di spine.  L’uomo respirava a fatica, ma era vivo. Ogni tanto socchiudeva gli occhi, per richiuderli subito dopo. Emetteva gemiti e sospiri, a volte tossiva.
“Sembra proprio lui!” disse la donna.
“Eh?”
“Forse è davvero lui!”
Finalmente il marito si riscosse.
“Ehi! Che stai dicendo?”
“Sì, sono davvero convinta che sia lui, il vero e l’unico!” ribadì la donna, con tono esaltato e con gli occhi spiritati.
“Sei impazzita? Sai bene che non è così! Si tratta di un volontario, o qualcosa di simile…”
“Gesù! Parla! Dimmi qualcosa! Dimostra a quest’uomo che sei davvero tu!”
“Adesso basta!” L’uomo uscì dal salone e si precipitò in cucina. Fu di ritorno dopo qualche istante. Impugnava un lungo e affilato coltello.
“Che cosa intendi fare?” urlò la donna. Lui si avventò contro il malcapitato in croce. Lo colpì più volte, con incredibile violenza. Al torace, all’addome, alle gambe. Il pavimento di marmo si riempì di sangue. L’uomo in croce non emise alcun suono, a eccezione di un unico soffocato lamento, l’istante prima di spirare.
“Lo hai ucciso! Lo hai ucciso! Hai ucciso Cristo! Fariseo!” La donna aveva perso del tutto il controllo. Saltellava per il salone urlando e piangendo. Il marito la rincorse, la bloccò e la costrinse a sedere sul divano. Poi le si collocò accanto.
“Quel disgraziato non è Cristo, ma un semplice para-Cristo, lo vuoi capire? Si può sapere che cosa ti è preso?”
“Sono rimasta tutto il giorno accanto a lui…” pigolò lei.
“Tanto sarebbe morto lo stesso, domani a mezzanotte” disse l’uomo, pulendosi sul vestito le mani lorde di sangue.
La donna, invece, riprese a singhiozzare.
“Non lo dovevi uccidere…” disse, con la voce rotta dal pianto.
Lui cercò di calmarla.
“Ascolta, forse ti sei lasciata coinvolgere in maniera eccessiva da questa faccenda. Sai che cosa faremo adesso? Telefonerò al negozio e dirò che provvederemo noi allo smaltimento della… struttura.”
“E poi?” chiese lei, sempre piagnucolando.
“Poi ce ne staremo seduti tranquilli qui sul divano, per tre giorni consecutivi.”
“Per quale ragione?”
“Semplice. Quando, trascorso il terzo giorno, vedrai che questo tizio non risorgerà ti convincerai finalmente che non è il vero Cristo. Allora, che ne dici?”
“Sì, l’idea mi piace” rispose lei. “Mi piace proprio.” E si acciambellò sul divano.

venerdì 6 luglio 2012

ODIO GLI IGNORANTI



Odio gli ignoranti. Ritengo che, come forse diceva Jorge Luis Borges, "esistere configuri l’essere settari". Non può esserci chi si limita a respirare, cioè gli estranei alla civiltà, gli alieni alla cultura. Chi vive davvero non può non inseguire il sapere, e parteggiare per l’erudizione. Ignoranza è mancanza di volontà, è stupidità, è pigrizia intellettuale, non è vita. Perciò odio gli ignoranti.
L'ignoranza è il greve fardello della storia. E' la zavorra di ferro per l’innovatore, è il materiale esanime nel quale si spengono spesso le passioni più luminose, è il pantano che circonda l’antica fortezza, quella dell'ignoranza, e la preserva meglio dei bastioni più robusti, meglio degli scudi dei suoi difensori, perché ingoia nei suoi vortici fangosi gli assaltatori, e li stermina e li fiacca e spesso li fa recedere dal compimento dell’intrepida azione.
L'ignoranza agisce vigorosamente nella storia. Opera senza slancio, perché ne è priva, ma agisce. E' il destino; è ciò su cui non si può fare assegnamento; è ciò che scompagina i buoni propositi, che butta all’aria i piani meglio congegnati; è l’elemento brutale che si ribella alla conoscenza e la annulla. Ciò che accade, l’inettitudine della mente che investe tutti, o quasi tutti, l’eventuale positività che un gesto rivolto a evocare la bellezza della sapienza può generare, non è tanto esito dell'iniziativa dei pochi che operano, quanto dell'ignoranza, dell'ottusità dei più. Ciò che ne deriva, non si verifica tanto perché qualcuno auspica che si verifichi, quanto perché la moltitudine degli esseri umani rinuncia alle proprie aspirazioni, permette che prevalga la barbarie dell’incultura, consente che si aggroviglino le annodature che poi soltanto la spada potrà recidere, permette che vengano pronunciate parole senza peso, dettate dall’arroganza, dalla patetica e vuota presunzione di piccoli uomini che occupano ridicoli posti di potere, uomini né temuti né rispettati, ma solamente odiati e destinati, inevitabilmente,  a scontare la loro miseria di spirito.  Il caso che pare guidare la storia non è altro che esteriorità ingannevole di questa ignoranza, di questa penosa stoltezza. Accadimenti si perfezionano nell'oscurità di solitarie stanze, poche mani, poche menti tarde, sorvegliate da nessuno,  che partoriscono mostri, che generano l’idiozia. Così come, per buona sorte, sfuggono alla guardia altre mani dalle dita agili, dita che corrono veloci sui tasti e combattono le manipolazioni e gli inganni dei falsi potenti, dei principi dell’ignoranza. E ciò fino a squarciare il velo di tenebra, a lacerare la cortina dell’imbecillità.
I destini di un'epoca, di una intera civiltà, sono maneggiati in base alle concezioni limitate e agli obiettivi subitanei e personali di piccoli gruppi di gente rozza e incolta che occupa grotteschi posti di potere. Ma le circostanze che a lungo hanno stagionato arrivano a sboccare; la tela, quella oscura, frutto della stoltezza e dell’ignavia giunge prima o poi a conclusione. Ed è proprio nel momento del trionfo della menzogna e della falsità sulla conoscenza che le fragili fondamenta dell’edificio della cultura rischiano di crollare. E allora sembra sia il fato a travolgere tutto e tutti, pare che la conoscenza non sia che un grande fenomeno naturale, uno sfogo, un sisma, nel quale a tutti tocca soccombere, chi si è impegnato per migliorarsi e chi no, chi sapeva e chi non sapeva, chi ha inseguito la cultura e chi l’ignoranza. E quest’ ultimo si stizzisce, vorrebbe scampare ai deleteri effetti, vorrebbe mostrarsi non responsabile. Alcuni frignano, altri imprecano nel loro linguaggio limitato, ma nessuno o pochi si domandano: se mi fossi impegnato di più, se avessi cercato di rifuggire dall’ignoranza, sarebbe accaduto ciò che è invece capitato? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro ignoranza, del loro scarso impegno, di non aver fatto parte di quel gruppo di individui che, appunto per impedire quel tale delitto, lottavano, e che per provvedere quel tale bene si esponevano.
Odio gli ignoranti. Anche per ciò mi dà tedio il loro mugolio di perpetui innocenti. Chiedo conto a ognuno di essi di come ha svolto l’incombenza che la vita gli ha assegnato e gli pone tutti i giorni, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E ritengo di poter essere spietato, di non dover consumare la mia compassione, di non dover condividere con loro il mio pianto. Sono settario, esisto, sento nelle coscienze giuste della mia parte già palpitare l'attività di una civiltà futura che da parte mia sto contribuendo a edificare. E in essa il vincolo sociale non grava su pochi, in essa ogni cosa che accade non è dovuta al caso, alla fatalità, ma al potere della conoscenza, all’autorevolezza della cultura. Alla sua ineguagliabile bellezza. In questo nuovo modello evolutivo non c'è nessuno che stia alla finestra a osservare mentre i pochi si sacrificano; e che colui che sta alla finestra, appostato, voglia sfruttare quel poco bene che l'operosità di pochi fornisce ed esprima la sua delusione dileggiando e irridendo l’umiliato, lo svilito perché non ha raggiunto il suo scopo.
Esisto, sono settario. Perciò odio chi non lo è, chi disprezza la conoscenza e il sapere.  Chi disdegna la bellezza della arti, tutte, chi le svilisce con aria di superiorità. Chi trae vanto dalla propria insulsaggine. Per questo odio gli ignoranti.