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sabato 30 giugno 2012

NAZIONALI



Nel caso in cui occorra costruire una squadra nazionale valida e competitiva occorre, innanzitutto, disporre di un selezionatore all’altezza di tale impegnativo compito. Un direttore tecnico che, in nessun modo, possa subire condizionamenti riguardo alle scelte da operare.
Così ha agito, sul fronte della politica, il presidente Giorgio Napolitano, allenatore saggio, capace e dotato di grande esperienza. Dopo la crisi di governo dello scorso novembre, quando la palla è passata a lui, non ha avuto esitazioni e ha fatto la scelta migliore. L’unico dubbio poteva riguardare quale Mario preferire, tra i due disponibili. Il primo, tuttavia - e mi riferisco a Draghi - aveva appena ricevuto un’offerta di ingaggio prestigiosa e perciò irrinunciabile. Da alcuni mesi ormai gioca in Germania, in una squadra di Francoforte, la famosa BCE, e sta ottenendo ottimi risultati. A quel punto - dovendo inseguire l’eccellenza - la convocazione di Mario Monti è stata inevitabile.
Nel campionato nazionale Mario Monti ha avuto qualche problema, difficoltà in gran parte derivanti dall’assurda maggioranza che lo sostiene. Le sue riforme sono arrivate con insolita puntualità, anche se alcune di esse - forse per l’eccesiva premura -  sono apparse un po’ imprecise e carenti in equità. Pure alcuni suoi compagni di squadra si sono dimostrati un po’ incerti, probabilmente per la mancanza di esperienza in competizioni di così grande importanza. Monti si è invece distinto a livello internazionale, dove ha potuto far valere tutto il suo talento, il suo prestigio e l’indiscussa autorevolezza. Nel torneo continentale ha riportato rilevanti vittorie, quasi tutte contro la Germania, il nostro avversario più agguerrito. L’ultima risale a pochi giorni fa quando, con estrema freddezza e grande perseveranza, doti che tutti gli riconoscono, è riuscito a ottenere per il nostro Paese l’agognato scudi anti-spread, vale a dire proprio l’obiettivo che si era prefissato. Per fare ciò ha dovuto ricorrere a tutte le sue qualità, non ultime la competenza e la capacità di persuasione, unite ai fondamentali tecnici che di sicuro non gli difettano. Finalmente siamo tutti di nuovo orgogliosi della nostra nazionale politica, e non siamo più costretti ad assistere alle penose esibizioni di giocatori come quel tale Berlusconi che, al più, potrebbe gareggiare in qualche campionato di dilettanti.
Anche in campo calcistico disponiamo di un ottimo commissario tecnico. Cesare Prandelli, nel guidare la nazionale di calcio impegnata nei Campionati Europei, ha dimostrato tutto il suo valore. Oltre all’indiscutibile bravura, ha messo in mostra doti di grande equilibrio, buonsenso (che spesso manca agli italiani), simpatia e, soprattutto, spessore umano. Il responsabile azzurro ha saputo affidarsi alle persone giuste, a calciatori di grande bravura ed esperienza come il ruvido Buffon, ottimo motivatore per i compagni, all’indomito De Rossi, all’incredibile Pirlo (il miglior centrocampista al mondo, insieme allo spagnolo Xavi Hernandez, e i due si ritroveranno di fronte proprio nella sfida finale del torneo) amalgamandoli con altri giocatori più giovani e meno talentuosi ma ugualmente determinati. Inoltre ha azzeccato tutte le altre scelte, sia quella di puntare sull’estro ribelle di Mario (un altro!) Balotelli, sia quelle tattiche e strategiche. La vittima di maggior prestigio - quasi inutile ricordarlo - anche in questo caso è stata la Germania.
Questi ultimi giorni ricchi di riscontri positivi - sia pure in ambiti completamente diversi per rilevanza - hanno dimostrato che l’Italia può ripartire, a condizione che lo facciano gli italiani, e in particolare i migliori tra essi. In tutti campi, naturalmente.    

giovedì 28 giugno 2012

LAMA DI LUCE



Salgo sull’ascensore e lui è dietro di me e tace. Tre piani, sempre senza dire nulla. Poi, con le mani tremanti, cerco le chiavi e apro. Odore di chiuso. Perché stamattina, prima di uscire, non ho aperto le finestre? Lo faccio adesso, iniziando dal soggiorno. Subito entra aria, ma è rovente, da alcuni giorni fa molto caldo, un caldo umido e soffocante che mozza il respiro. Mi guardo attorno, smarrita, e quasi non mi sembra di essere a casa mia. È come se la mia vista fosse annebbiata. Non riesco a mettere bene a fuoco i mobili, gli oggetti, tutto.
Siediti, dico, io arrivo subito, e gli indico il divano. Lui si siede, rigido e impacciato.
Vado in bagno, mi lavo le mani, mi rinfresco il viso. Evito lo specchio, di proposito. Non posso rimanere qui dentro a lungo, devo uscire, lui aspetta e aspetta me.
Bevi qualcosa, domando, con scarsa convinzione. E infatti lui mi fa cenno di no, non voglio niente, sto bene così. Perché l’ho chiesto? So bene di non avere niente in casa, non ho mai niente perché non viene mai nessuno e io bevo soltanto acqua, quella del rubinetto che neppure mi piace. Che cosa avrei detto se lui avesse risposto di sì? Devo calmarmi, devo assolutamente cercare di rilassarmi. In fondo non sta accadendo nulla. Per ora.
Ci siamo conosciuti da poco e questa è soltanto la seconda volta che ci vediamo. Vuoi un caffè, mi ha chiesto l’altro giorno, arrossendo e balbettando, però ha avuto coraggio perché non mi conosceva, ha abbordato una sconosciuta che forse aveva già incontrato altre volte alla fermata del tram e quella sconosciuta sono io, e forse mi stava tenendo d’occhio da un po’, forse ogni tanto pensava a me, comunque è stato coraggioso ma anche molto gentile e siccome mi ha fatto tenerezza non so perché ma ho accettato. Di solito non lo faccio mai, non quando vengo abbordata in quel modo però era tanto tempo che nessuno lo faceva più. Ho accettato perché sono fragile.
Siamo andati al bar, proprio lì, a due passi dalla fermata. Abbiamo bevuto il caffè ed eravamo noi due soli, gli unici clienti in quel momento nel locale e il proprietario, un uomo grosso con la barba non rasata e una macchia di non so cosa sul ridicolo grembiule rosso ci guardava, e io ho avuto l’impressione che lui sapesse che ci eravamo appena incontrati e che a causa del nostro impaccio avessimo scelto il suo bar a caso. Cioè, non il frutto di una scelta meditata, ma all’opposto del tutto fortuita, e sembrava quasi che fosse colpa nostra per questa situazione e mi sono sentita molto in imbarazzo e quasi non stavo a sentire ciò che mi diceva lui, il mio occasionale accompagnatore che pure si sforzava di essere gentile e mi raccontava del suo lavoro ma io non riuscivo a seguirlo, le sue parole scivolavano e non riuscivo ad afferrarle, non riuscivo a trattenerle e a coglierne il senso.
Andiamo via, avevo detto a un certo punto, e forse erano trascorsi non più di dieci minuti ma ormai avevamo bevuto i nostri caffè e potevamo uscire senza che quel tipo si offendesse, il proprietario dico, perché avevo pure paura che se la prendesse con noi, gli unici suoi clienti di quel momento, ma clienti particolari, che erano entrati per caso, senza convinzione, senza avere scelto, senza avere manifestato una preferenza e lui se n’era accorto e a me era parso ostile nei nostri confronti.
Allora lui ha pagato e siamo usciti e io mi sono diretta, impettita, alla fermata del tram, con la mia andatura caracollante perché indossavo scarpe dal tacco alto anche se non so camminare con simili scarpe e la mia andatura diventa goffa e proprio non mi piaccio. Ma lui non ci ha fatto caso, almeno così mi è parso, così ho voluto credere che fosse, e quando ha compreso le mie intenzioni, cioè che me ne stavo andando si è di nuovo fatto coraggio, gli è dovuto costare molto immagino, e mi ha chiesto il numero di telefono. Senza pensare l’ho pronunciato, due volte di seguito molto in fretta, e lui ha sorriso e ha detto aspetta e ha sfilato dalla tasca il suo cellulare e ha digitato quelle cifre. Non so perché l’ho fatto, io non do mai il numero di telefono, non mi piace farlo, tantomeno a sconosciuti, a persone che incontro per la prima volta, eppure l’ho fatto. Poi è arrivato il tram e io sono salita, lui ha salutato ma io non ho risposto, almeno non ricordo d’averlo fatto ma quando sono stata sul mezzo ho guardato attraverso il finestrino sporco e l’ho visto e lui mi ha fatto un cenno e a quel punto finalmente ho risposto, ma credo con un attimo di ritardo e chissà se lui ha colto quel tardivo saluto, prodotto dal pentimento. Sì, perché mi sono subito pentita per il mio comportamento, un modo di fare che non mi appartiene ma mi sono consolata pensando che era semplicemente la conseguenza del mio enorme disagio. Tuttavia sono stata colta da un senso di depressione e di scoramento e mi sono resa conto, una volta di più, della mia inadeguatezza, della mia incapacità di affrontare situazioni che per la maggior parte delle persone sono invece del tutto normali.
Quella tremenda sensazione di frustrazione mi ha accompagnata per alcuni giorni, fino ad oggi, quando ho ricevuto la sua chiamata, che ormai non aspettavo più.
Non ho riconosciuto subito la sua voce, e mi è spiaciuto, perché lui è stato costretto a presentarsi e mi è parso in difficoltà.
Quando usciamo dal lavoro verresti con me a prendere un gelato, è riuscito infine a domandarmi, e io per un lungo momento sono rimasta zitta, tanto che lui ha pensato che avessi chiuso il telefono e si è allarmato. L’ho capito dal tremito della sua voce quando, esitante, ha rinnovato la sua richiesta. A quel punto non potevo dire di no e allora ho accettato, anche se quella situazione mi ha colmata d’ansia, tuttavia quell’invito mi ha fatto piacere e mi sono accorta con sorpresa che in fondo era ciò che desideravo, lo aspettavo da giorni ma non sarei mai stata in grado di fare il primo passo, oltretutto non lo potevo fare perché il numero di telefono, a lui, non lo avevo chiesto.
Abbiamo camminato senza parlare lungo la via pedonale gremita di gente, gente che rideva e scherzava, che entrava e usciva dai negozi eleganti, gente solitaria e gente imbronciata, giovani e vecchi, imbonitori e accattoni, gente malinconica e gente indifferente.
Mentre eravamo in fila alla gelateria, lui davanti e io dietro, l’ho osservato a lungo, ho notato i capelli diradati e un poco unti sulla sommità del suo capo, la sua giacca dal tessuto troppo pesante per una giornata estiva, un po’ logora e spiegazzata. Ho provato per lui una inaspettata dolcezza e ho pensato che forse l’aveva indossata per me, quella giacca inappropriata, per apparire più elegante, e probabilmente era pure l’unica che possedeva, non ne aveva un’altra più leggera e, stoico, soffriva il caldo, pativa per me.
Buono, ha detto leccando il gelato e io ho soltanto annuito e non ho detto niente. Ero concentrata su quell’operazione che, in alcune circostanze, diventa molto difficile da eseguire, mangiare il gelato intendo. Prestavo molta attenzione perché non volevo sporcarmi, sarebbe stato piuttosto imbarazzante farlo, e poi provavo vergogna nell’esporre troppo la lingua nel gesto di lambire il cono e mi limitavo a sfiorare il gelato con piccoli ed estenuanti tocchi.
Alla fine ho preso dalla borsetta dei fazzoletti di carta, ne ho dato uno anche a lui che mi ha ringraziato, e ci siamo pulito le mani e poi abbiamo proseguito la camminata, così, senza una meta precisa, commentando le vetrine ma era chiaro che ognuno di noi due era perso nei propri pensieri, che entrambi faticavamo a rimettere ordine nelle nostre menti ingarbugliate.
E poi faceva caldo, sempre più caldo, questa almeno era la mia impressione, ed io sbirciavo con preoccupazione, quasi con angoscia, le chiazze di sudore che si stavano allargando sempre più sulla mia camicetta in corrispondenza delle ascelle. Nella fretta di uscire dall’ufficio mi ero scordata di rimettere il deodorante ed ora temevo, anzi ne ero sicura, che dal mio corpo bagnato di sudore esalasse un cattivo odore e che lui lo percepisse.
Ti posso accompagnare a casa, aveva proposto lui con un filo di voce perché paventava un rifiuto, perché credeva di avere osato troppo o chissà cosa, e inoltre non sapeva dove abitassi, non ne avevamo parlato, avevamo parlato poco in verità, e invece io ho risposto di sì, perché no, in fondo non c’è nulla di male. Gli ho spiegato, forse in maniera troppo dettagliata perché ero sempre più nervosa, dov’era la mia casa e lui ha annuito e poi ha detto che era vicina, ma questo lo sapevo anch’io. E così abbiamo proseguito il nostro cammino, adesso non più senza una precisa destinazione, e in pochi minuti siamo arrivati di fronte al mio palazzo, quell’orrendo palazzo grigio che io odio, e che non so se odio perché sia brutto, e lo è, oppure perché rappresenti il solido simbolo della mia solitudine.
Vuoi salire, ho proposto, anche se non ero del tutto sicura che fossi stata veramente io a dire una cosa simile. Ma l’ho detto e lui ha fatto cenno di sì con il capo, alcune volte, e poi ha deglutito. Siamo entrati e ci siamo diretti verso l’ascensore. Ho appoggiato un dito tremante sul pulsante e l’ho chiamato.
E adesso siamo qui, nel soggiorno del mio appartamento, seduti sul divano, ognuno accomodato a una estremità, entrambi rigidi e impalati, separati da uno spazio vuoto che è una terra di nessuno. E rimaniamo così finché lui non inizia a parlare. Inizia a raccontare di sé, della sua vita che ormai è lunga, come la mia, esistenze segnate da dolore, sofferenza e rimpianti.  Vissuti allietati da rari momenti felici, ormai scordati, ormai rimossi. La gioia non lascia impronte, l’afflizione elargisce invece profonde cicatrici.
Lo ascolto con attenzione, mi piace il suo modo di parlare, la minuziosa scelta dei termini, il vezzo di non ripetere mai, a distanza di poco tempo, lo stesso vocabolo ma di ricorrere a svariati sinonimi. Un vezzo, o forse una mania. Una delle tante, magari, perché di lui so ben poco.
Dovrei dire qualcosa anch’io, parlare di me, ma non saprei da dove iniziare, che cosa riferire, non c’è nulla di veramente importante, e poi mi sento confusa e sconnessa, non in grado di articolare un discorso sensato. Lui si accorge del mio turbamento e smette di parlare. Mi osserva con attenzione, mi scruta a lungo e, proprio quando sta per domandarmi qualcosa, mi decido a intervenire.
Andiamo di là, dico, e nello stesso istante mi alzo e mi dirigo verso la stanza da letto. Sono voltata, perché il mio viso è infuocato, e non posso vedere la sua reazione. Ma nello stesso tempo lui non può vedere me, e non può cogliere il mio stato di agitazione. Lui, docile, mi segue, senza dire nulla, percepisco i suoi passi dietro di me.
Entro in camera e mi siedo sul letto, che per fortuna questa mattina ho rifatto, non sempre lo faccio, mentre lui rimane in piedi e si guarda intorno.
Togliti la giacca, dico, e mi accorgo che la mia voce ha un timbro strano, basso e roco.
Lui la sfila e, sorprendendomi, la lascia cadere a terra. Poi, quasi si vergognasse per quel suo gesto audace, prosegue con lo sguardo la sua ispezione. Posa gli occhi, che sono marroni, sui miei libri, sui miei cd, sui miei tanti oggetti disposti su tutte le superfici disponibili, su alcuni vestiti ammucchiati in modo disordinato su una sedia.
È molto luminosa questa stanza, dice, tornando a guardare me. A quelle parole, scatto e mi precipito verso la finestra, impugno a due mani la cinghia della tapparella e la abbasso. Lui trasale, per il rumore.
Fa molto caldo, dico. È meglio tenerla abbassata, mormoro, prima di tornare sul letto. Poi, senza incrociare i suoi occhi, gli indico di accomodarsi accanto a me, con un semplice ed eloquente gesto. Lui imbroncia le labbra, perplesso, quindi si toglie le scarpe, così, senza slegarle. Quindi fissa per un attimo i calzini, umidi e stropicciati, ma non li sfila. Sorrido tra me, per la prima volta, di fronte al suo evidente e tenero disagio.
Si siede accanto a me, e io chiudo gli occhi, e aspetto che mi baci. Invece, con delicatezza, scosta un lembo della mia camicetta e appoggia la sua mano, calda e sudata, sulla mia pelle nuda e sensibile. Poi le sue dita un po’ maldestre affrontano i minuscoli bottoni. Mi abbandono, ma subito mi rendo conto del mio errore, del mio tragico errore. Guardo sgomenta la finestra, e la tapparella, che nella fretta non ho abbassato completamente. Una lama di luce filtra attraverso una minuscola fessura. Mi investe, pronta a illuminare il mio corpo che tra poco sarà esposto, completamente esposto a quell’impietoso chiarore, e ne rivelerà il malato candore, i difetti e le imperfezioni, tutti i segni della vita. Scuoto il capo con violenza e dico no, no, no. Lui, attonito, si blocca, poi si alza e raccoglie la giacca da terra. E le scarpe.

domenica 24 giugno 2012

L'ALTRO



Lo vidi per la prima volta di persona quando era già tra noi da più di un anno. Fu durante una celebrazione che si tenne nella mia città, in onore del suo fondatore. Lui, per quanto possibile, ambiva a partecipare a qualsiasi tipo di cerimonia, perché era grande il suo desiderio di osservare, di imparare e di capire. Cercai di avvicinarlo e ci riuscii piuttosto facilmente, perché lui amava il contatto con la gente e non aveva alcun timore. Era certo che nessuno avrebbe mai osato fargli del male. Quando gli giunsi accanto, non fui particolarmente stupito dalle sue singolari sembianze. Ormai lo avevo visto tante volte, nei filmati in televisione e sulle fotografie dei giornali, ripreso e immortalato mentre era a colloquio con uomini importanti e potenti, ma anche quando visitava, sempre curioso, sempre partecipe, i luoghi più miseri, quando incontrava i poveri e i derelitti e li rincuorava, recapitando il suo messaggio di pace.
No, quello che mi colpì fu soprattutto il suo sguardo. Mi immersi nei suoi occhi, due pozze enormi e brillanti, attraverso i quali si percepiva quella qualità che da tutti gli era riconosciuta, che lo caratterizzava e lo rendeva peculiare: l’immensa bontà. Un insieme di dolcezza, di mitezza e di mansuetudine, una soavità e una serenità che lui riusciva a trasmettere a chi lo guardava, rendendolo partecipe, immediatamente, della sua immensa serenità.
Un’esperienza unica, in grado di cambiare la vita di un individuo e di renderla migliore.
Dapprima, nei suoi confronti, c’era stata molta diffidenza. Forse anche un certo timore. In parte per le modalità della sua venuta, difficili da comprendere e da accettare. Quell’apprensione iniziale, tuttavia, era subito svanita. Era stato sufficiente sentirlo parlare, rilevare con attenzione il suo atteggiamento umile e remissivo, del tutto insolito in un individuo così dotato, e tutte le residue preoccupazioni scomparvero.  Sì, perché lui è superiore a tutti noi, ormai lo abbiamo capito, e abbiamo imparato a riconoscere e a rispettare questa sua indubitabile preminenza etica.
In principio il sospetto fu alimentato, senza una precisa ragione, dal fatto che ci avesse portato dei doni. Oggetti che non avevamo mai visto prima e che nessuno di noi sarebbe mai stato in grado di concepire, e conoscenze che avrebbero potuto, in un immediato futuro, alleviare le nostre sofferenze. Adesso per quei regali gli siamo immensamente riconoscenti.
Qualcuno, sebbene inconsapevolmente, ha tentato di strumentalizzare la sua visita. Penso, ad esempio, a quella comunità di ebrei ultra-ordodossi che vive nel deserto del Negev, e di cui si è tanto parlato nei mesi scorsi. Naturalmente mi riferisco agli accoliti del rabbino Isaac Rabinowitz, ormai conosciuti da tutti. Quegli uomini che hanno riconosciuto nel nostro amico il Messia, quel Messia atteso da tempo immemorabile e che finalmente si era manifestato ai figli d’Israele. Naturalmente si tratta, da parte loro, di un enorme abbaglio. Nondimeno, come non comprendere quella gente, che crede di aver visto realizzato un sogno, un desiderio, una speranza, un qualcosa in cui hanno da sempre creduto?
Lui, inoltre, nel periodo di tempo trascorso tra noi, è stato protagonista di tanti episodi, allegri e stravaganti, a volte toccanti, ma tutti in gran parte gioiosi. Ci siamo resi conto sempre più, con amarezza, che non potremo mai essere al suo pari, anche se il suo esempio potrà essere utile, e ci servirà di sicuro per essere migliori. Di sicuro, più buoni e generosi.
Adesso è quasi inutile ricordare tutto ciò, perché lui non c’è più, ormai se n’è andato. Prima di fare ritorno da dove era venuto, però, ci fece due importanti rivelazioni, e lo fece proprio quel giorno in cui ebbi la fortuna di vederlo. La prima, in fondo, non ci stupì più di tanto. Disse che tutti i suoi simili erano uguali a lui, esattamente uguali. Non ci meravigliammo perché ormai eravamo convinti che fosse così, per di più sapevamo che diceva sempre e soltanto la verità, e quindi non avevamo nessun motivo per dubitare di lui.
La seconda affermazione invece ci sconvolse. Nessuno lo aveva chiesto, anche se molti avrebbero voluto farlo, ma lui aveva sentito lo stesso il dovere di dirlo. D’altra parte, non ci aveva mai nascosto nulla. Per questo lo apprezzavamo così tanto.
Disse che il suo Creatore, il suo e quello dei suoi simili, non era il nostro, ma un altro. Come non credergli?
Poi, con la voce incrinata dal dispiacere, aggiunse che eravamo stati sfortunati, molto sfortunati.     

venerdì 22 giugno 2012

VERITA' E PERDONO



Per cosa si vive? Per accumulare beni materiali e denaro, pur consapevoli che ciò genera l’ansia di conservare e di trattenere? Per sfoggiare la nostra vanità, a costo di affrontarne la faccia oscura, la frustrazione?  Oppure, per altri innumerevoli futili scopi?
No, l’ambizione deve essere invece un’altra, e il traguardo non può essere che quello di migliorarsi, quello di aspirare a raggiungere un livello etico superiore. Un traguardo ideale che ci permetta di affermare, una volta giunti sul ciglio, di non avere sprecato tutto, di non aver vissuto inutilmente.
Si può fare, si deve almeno tentare. Per farlo, bisogna iniziare. Partendo da un principio qualsiasi, per poi proseguire.
Io ho cominciato dalla verità.
Non è per niente semplice essere sinceri. Esserlo sempre. La menzogna è nell’aria, in attesa di insinuarsi dentro noi, di impadronirsi dei nostri pensieri e dei nostri comportamenti. Trasformando in falsità tutti gli atti dell’esistenza, costringendoci nostro malgrado a una vita di finzione e di inganno.
La verità, in realtà, non migliora la qualità della nostra vita. La menzogna può sostituirla in maniera egregia, a volte addirittura può rendere l’esistenza più piacevole, ne può smussare le asperità. La verità, tuttavia, migliora la vita degli altri, di chi ci circonda, di chi ci ama, di chi ci frequenta, di chiunque abbia con noi una qualsiasi relazione interpersonale. Dobbiamo vivere nella verità, e lo dobbiamo fare non per noi stessi, ma per il nostro prossimo. Che cosa ci può essere di più altruistico? Di più appagante? In cambio avremo più serenità. O forse no, perché a volte la verità può essere molto dolorosa, può scatenare drammi, può essere crudele.  Sta a noi il renderla più morbida, senza però mai rinnegarla, sta a noi modellarla sulla sensibilità delle altre persone, ma sempre senza ometterne la sostanza.
Ho proseguito con il perdono.
È stato sconvolgente scoprire il potere del perdono. È immenso e indescrivibile.
A differenza della verità, il perdono è attuato e messo in pratica soltanto per noi stessi. Non per altri, non per chi ne trae beneficio. No, solo per noi. Naturalmente, il vero perdono implica assoluta sincerità, estrema convinzione. In presenza di questi elementi il giovamento per chi concede l’indulgenza è massimo. Subentra uno stato di vera e propria beatitudine (per niente mistica), diretta conseguenza di una condizione di amorevole superiorità che si prova sia nei confronti del perdonato che del resto dell’intera umanità. Presunzione? Alterigia? No, perché tale atto non produce sofferenza ma, al contrario, unicamente consolazione, e quindi si tratta di un’azione sempre positiva.
Perché perdonare? A questo punto la risposta è scontata: perché è bellissimo. Tutti lo dovrebbero fare e a quel punto non riuscirebbero più a smettere.
E poi, continuando il mio percorso virtuoso, ho scoperto di possedere una qualità di cui vado orgoglioso, ossia il talento di saper sempre rispettare le differenti sensibilità, di non ferire mai, né con azioni né con parole. In ogni caso, mai con l’intenzione di farlo.  
La vita, inoltre, deve essere vissuta anche in maniera un po’ scanzonata, impiegando la giusta dose di ironia. Nulla è sacro in assoluto, tutto può essere dissacrato, nella giusta misura. Tutto tranne una cosa: la sofferenza umana. Sul dolore non è consentito scherzare. Mai.
    

mercoledì 20 giugno 2012

PRATICHE ESTREME (DISCORSI DA BAR...)



Parlammo di calcio, com’era inevitabile che fosse. Battute beffarde sulle squadre del cuore, le solite, poi le scommesse, tema del giorno, e infine la compravendita dei calciatori. Tutti questi corposi argomenti furono sviscerati e quindi esauriti in meno di un quarto d’ora.
Finalmente ordinammo e bevemmo i caffè, ma seguitammo a rimanere seduti. Non avevamo alcuna fretta. Avevamo tempo, tutto il tempo del mondo. Almeno, tale era la nostra impressione.
Tuttavia due uomini di mezz’età, al bar, se non parlano di pallone di cosa discutono?
Di lavoro? Neanche per sogno! Per quella materia non esiste il minimo interesse. È tabù.
Dei figli? Assolutamente no! A quello ci pensano già le mogli, e non è proprio il caso di emularle. E poi, i figli sono soltanto degli scioperati che chiedono sempre soldi, e questo non si può dire. No, proprio non si può, nemmeno tra amici.
In realtà dalla notte dei tempi c’è un unico argomento, sempre valido, sempre stimolante, di cui si può e si deve discutere, soprattutto quando si è al bar: le donne.
Allora buttai lì una frase, senza grande convinzione, tanto per provocare, sufficiente però a provocare in Armando grande impressione.
“Davvero non ti interessano più le donne?” replicò il mio amico.
“Non ho detto proprio così…”
“L’ho appena sentito!”
Portai alle labbra il bicchiere d’acqua e mi sistemai meglio sulla sedia.
“Ho semplicemente detto che, alla nostra età, l’approccio con le donne dovrebbe cambiare, dovrebbe essere diverso.”
“In che senso?”
Finsi di riflettere un attimo.
“Il nostro immaginario…”
“Cioè?”
“Sto dicendo che non dovrebbe essere legato ai soliti triti stereotipi…”
“Non ti capisco…”
Armando si sporse verso di me e corrugò la fronte. Proprio non capiva. D’altra parte c’era ben poco da capire, dal momento che neppure io avevo le idee ben chiare e stavo improvvisando.
“Ma sì… le immagini forti… come ad esempio i film…”
“I film? Intendi dire i film porno? Anche quelli non ti piacciono più?”
Cercai di assumere un’espressione annoiata, con discreto successo.
“Mi hanno stufato. Tutti uguali, tediosi, mai nulla di nuovo, nulla di eccitante.”
“Dici?”
“Certo!”
In verità la mia virtuosa conversione era assai recente, per la precisione risaliva al giorno prima. Anzi, alla sera prima, ma questo al mio amico non lo dissi.
Rimasto solo in casa, moglie fuori, figlio pure, ero corso a noleggiare un film. Il genere? Provate ad immaginare…
Seduto sul divano, luce spenta, avevo azionato il telecomando del mio vecchio lettore pregustando una serata con i fiocchi. Niente. Sbuffando mi ero alzato e avevo cercato di espellere il cd per poi farlo ripartire. Niente. Ero stato assalito dal panico. Che fare? La prima idea era stata quella di prendere il lettore e di buttarlo nel cassonetto dei rifiuti. Tuttavia, come avrei potuto spiegare a mia moglie un gesto simile? Se per caso si rompe il frigorifero non è che, un minuto dopo avere constatato il guasto, lo si butta nell’immondizia. Fradicio di sudore, assalito da violente palpitazioni, avevo continuato a premere e ripremere il tasto del telecomando fino a indolenzirmi il dito. Poi era accaduto il miracolo: lo sportello si era aperto. Per un attimo avevo pensato di riprovare, ci tenevo a guardare quel film scelto con tanta cura, ma poi mi ero rassegnato. Il rischio sarebbe stato troppo grande. Allora avevo riportato indietro il cd. Poi ero tornato a casa, mi ero ubriacato ed ero andato a dormire. Non ricordo bene ma forse devo avere anche pianto.
“E allora? Che cosa dobbiamo fare?” incalzò Armando, facendomi trasalire.
“Dobbiamo tornare indietro, e ripercorrere una strada che abbiamo già percorso, ma che quasi non ricordiamo più.”
“Non capisco!”
Il mio amico, quando non riusciva a comprendere qualcosa, e gli accadeva spesso, diventava impaziente, quasi aggressivo.
“Ci dobbiamo affidare e dedicare alle cose minime…”
“Cioè?”
“Non so… uno sguardo… una spalla nuda… un vestito scollato…”
“Una caviglia?”
“Caviglia? Nuda? E perché no?”
“Ho capito, finalmente, anche se non so quanto ciò mi piaccia. Io sono abituato a…”
Lo interruppi. Sapevo dove sarebbe andato a parare. Non avevo nessuna intenzione di ascoltare le sue colorite descrizioni delle grazie femminili.
“Non ho finito” dissi.
“Eh?”
“Volevo aggiungere che quella che ho descritto è soltanto una delle alternative possibili. Ce n’è pure un’altra.”
“Sarebbe?”
“Bè…”
“Allora?”
“Le pratiche estreme!”
Le pupille di Armando si strinsero a fessura.
“Vale a dire?”
“Partecipare a un’orgia, per esempio.”
“Un’orgia?”
“Certo!”
“Tu l’hai già fatto?”
“No.”
“Ah!”
“Non l’ho fatto per motivi organizzativi.”
“Vuoi dire che non hai trovato nessuno disposto a partecipare?”
“Più o meno. Non oso rivolgermi a sconosciuti e, in quanto alle persone che conosco…”
“A me lo chiederesti?”
“No.”
“Per quale ragione?”
“Immagina.”
“Ho capito.”
“In ogni caso non credo sia una cosa impossibile da progettare… Sai, con un po’ di impegno…”
“Credi? Ma perché proprio un’orgia?”
“È semplice. Vedi, noi non siamo più tanto giovani, e quindi potrebbe capitare che…”
“Ansia da prestazione?”
“Se vuoi la possiamo definire così, pur sapendo che si tratta di un eufemismo.”
“Già. Ma tu ti aiuti?”
“Che intendi dire?”
“Hai capito benissimo.”
“No, nessun aiuto. Non oso andare dal medico per la prescrizione…”
“Neppure io…”
Per un istante i nostri sguardi si incrociarono. In quello di Armando lessi pena nei miei confronti. La stessa cosa lui vide nei miei occhi.
Tentai di ricompormi.
“Vedi, proprio per questo motivo una pratica come l’orgia è adatta per persone come noi.”
“Non capisco.”
“Di nuovo?”
Armando alzò le spalle, impotente.
“Spiegami il perché” disse.
“In un’orgia non si è da soli, si è in tanti.”
“Fin qui c’ero arrivato…”
“Bene. Nel caso in cui ci sia qualche problema, momentaneo s’intende, è sufficiente limitarsi a guardare, tanto ci sono gli altri che…”
“Ho capito.”
Questa volta era stato il mio amico a interrompermi.
“Mentre quando sei da solo, cioè non proprio da solo ma con una donna, non puoi limitarti a guardare, dal momento che si pretenderebbe da te…”
“Ho capito! Ho capito!”
“Armando, calma!”
“Sono calmo…” sussurrò il mio amico. Mi sembrava piuttosto turbato.
“Bevi qualcosa?” domandai.
Lui annuì e cercò di sorridere. Ma era pallido, tanto pallido in volto.

domenica 17 giugno 2012

L' ESPERIMENTO



“Io e te siamo amici, vero?”
La ragazza lo guarda stupita.
“Perché mi domandi ciò?” dice, corrucciando il viso.
“Rispondi, per favore.”
Lei sbuffa, un po’ infastidita.
“Sì, siamo amici. Da tanto tempo” dice infine.
“Grazie, Eleonora. Avevo bisogno di questa conferma.”
“Avevi forse dei dubbi?” lo incalza la ragazza, ora sospettosa.
“No, avevo semplicemente bisogno di acquisire questa informazione.”
“Eh? Ma di che cosa stai parlando?”
Lui la guarda, un po’ imbarazzato.
“Riguarda una ricerca che intendo intraprendere…”
“Sull’amicizia tra uomo e donna? Per quanto mi riguarda ritengo che possa esistere, anche se…”
“No, non si tratta di questo…”
“Vorresti essere un po’ più esplicito?” La ragazza sta diventando impaziente.
“Mi sto occupando di attrazione” dice lui.
“Attrazione? E che diavolo c’entra allora l’amicizia? Mi pare si tratti di tutt’altro argomento!”
Il ragazzo indietreggia, timoroso. I due sono in piedi, entrambi con un bicchiere di plastica tra le mani, colmo di caffè bollente. Nella saletta dell’Università, vicino al rumoroso distributore automatico di bevande, c’è molta confusione.
“Hai ragione, Eleonora. Vedi, avevo bisogno di questa certezza perché la mia intenzione sarebbe quella di coinvolgerti in un esperimento, sempre che tu sia d’accordo, naturalmente.”
“No! Un’altra delle tue assurde sperimentazioni!”
“Si tratta più che altro di una osservazione sul campo…” tenta di spiegare lui, trepidante.
“Perché non pensi invece a concludere il corso di studi?”
Lui alza gli occhi al cielo. Quante volte ha già ricevuto quella esortazione?
“Lo farò, stai tranquilla” dice. “Prima o dopo lo farò, ma intanto non posso fare a meno di condurre delle verifiche pratiche. Sai, l’eccessiva teoria mi annoia, mentre invece adoro sperimentare, esplorare…”
“Tu sei pazzo…” dice la ragazza, ma sorride.
“Come?” domanda lui, un po’ risentito.
“Uff! Non essere permaloso come al solito. Parlami invece della tua ricerca, poi ti dirò se accetto di condividerla. Hai detto che riguarda l’attrazione? Tra uomo e donna?”
“Esatto. Tu che cosa nei sai?”
“Io? Sei tu che devi delle spiegazioni!” sbuffa lei.
“Aspetta. L’attrazione avviene attraverso un meccanismo, giusto? Un qualcosa che scatta, forse a livello di recettori chimici, forse no, ma non è questo l’aspetto più importante. Tuttavia ci deve pur essere un qualcosa che scateni tale processo, ed io credo di averlo scoperto. Si tratta di qualcosa di semplice, in fondo.”
“Non ti seguo, come sempre d’altronde.”
“Riusciresti a innamorarti di qualcuno che non conosci, che non hai mai visto?” domanda lui, infervorandosi.
“No, credo proprio di no. Sarebbe un qualcosa di assurdo.”
“È proprio ciò che intendevo affermare” dice lui, con una strana luce negli occhi.
“Continuo a non capire. Ti concedo due minuti di tempo per fornire una chiara e ulteriore spiegazione. Dopo me ne andrò e ti lascerò alle tue stravaganti e oscure elucubrazioni.”
Panico nello sguardo di lui.
“No! Aspetta! Ti rendi conto che l’elemento necessario a scatenare la reazione che determina l’attrazione è uno soltanto?”
“Quale?” domanda lei, sospirando.
“Ma è semplice! Il frequentarsi, il vedersi di continuo. Lo stare sempre insieme, il condividere tutto! Al verificarsi di questa condizione, il richiamo reciproco è del tutto inevitabile!”
“Scusami, ma non mi sembra una grande teoria. Non credi che qualcuno ci abbia già pensato?”
Lui scrolla le spalle.
“Può darsi, ma forse le sperimentazioni non sono state condotte con il necessario rigore” dice.
“La tua idea mi sembra un po’ strampalata…”
“Non credi mai in me…”
“D’accordo, questa volta cercherò di farlo. Dimmi, in che cosa consiste la mia partecipazione al progetto?”
“Dovremo provare a scatenare tra noi il meccanismo dell’innamoramento. In quale modo? Semplicemente frequentandoci con assiduità per un certo periodo di tempo.”
“Non può funzionare.”
“Lo vedremo. Dimmi, davvero non hai mai provato per me un qualsiasi tipo di attrazione? Sai, è importante per la buona riuscita dell’esperimento.”
Lei scuote il capo.
“No, non l’ho mai provato. Ti ho sempre visto soltanto come un amico, un buon amico. Per il quale provo simpatia e affetto, ma nulla di più. E tu, invece?”
“Assolutamente no. Io credo profondamente nell’amicizia, anche tra uomo e donna, e considero te la mia migliore amica. E nulla di più.”
“Bene!” esclama la ragazza, divertita. “Allora, quando cominciamo?” aggiunge.
“Domani, inizieremo da domani. Adesso ti spiego in che modo” dice lui, serio.
È passato un po’ di tempo, quattro mesi per l’esattezza. I due ragazzi si sono frequentati in maniera costante, e sono diventate persone inseparabili. Condividono tutto, tranne il letto. I pasti, le ore di svago, il tempo dello studio, le serate al cinema o nei locali. Ogni minuto, ogni ora delle loro intense giornate. E, poco alla volta, qualcosa è cambiato nel loro rapporto. Lui guarda la ragazza (la sua ex-amica?) in modo completamente diverso. Sofferma a lungo lo sguardo nei suoi occhi chiari, bellissimi, che prima non aveva quasi notato. Osserva la linea perfetta delle sue labbra carnose. Prova di continuo il desiderio di toccarla. A volte lo fa, ma non come faceva prima, con gesti camerateschi. No, adesso prova grande piacere anche soltanto quando la sfiora, quando lambisce (inavvertitamente?) con le dita la sua pelle morbida. Ama i suoi capelli, la curva delle sue spalle, il suo modo di camminare. Ama tutto di lei. Spesso si sorprende a immaginare come possa essere il suo corpo, cerca di indovinarne la forma sotto i vestiti, quei vestiti che ora apprezza e che prima non gli erano mai piaciuti. Tollera le sue arrabbiature, i suoi scatti d’ira, i suoi capricci e i suoi frequenti sbalzi d’umore. È sicuro di essersi innamorato lei, di amarla. Di desiderarla.
Anche l’atteggiamento della ragazza nei suoi confronti è profondamente mutato. Per lui ha mille premure. Dopo uno screzio è sempre la prima a invocare la riconciliazione. Non è più insofferente, lo invita a parlare, a lungo, e lo ascolta con grande attenzione. Ogni volta che si incontrano non si limita all’antico cenno di saluto, ma lo abbraccia, lo stringe a sé, gli accarezza la schiena con dolcezza. E lui lascia fare, compiaciuto. Un giorno lo ha pure baciato, prima non l’aveva mai fatto. Non sulle labbra, ma sulla punta del naso, e poi sulla fronte. Quindi si è staccata, ma i suoi occhi luccicavano. Lui crede di avere percepito nel corpo della ragazza, in quell’istante, un insolito fremito, uno strano abbandono. E qualcosa di simile al desiderio, alla smania. Il tutto condito da rimpianto e nostalgia.
Tuttavia ora è arrivato il momento di accertare i risultati del singolare esperimento.
I due ragazzi si ritrovano in un bar. Sono seduti uno di fronte all’altra, e sono pensierosi.
“Eleonora, lascia che sia io a rivolgerti per primo la domanda. Ti senti attratta da me? Cioè, ti sei innamorata di me?” dice lui, poi distoglie lo sguardo. Fissarla a lungo lo fa star male. E poi, teme la risposta, come non ha mai temuto nulla in precedenza nella sua vita.
Lei si morde le labbra, le tormenta a lungo prima di parlare. La sua ammirazione per quel ragazzo è enorme. Pensa che sia un genio. Ha avuto ragione. La sua teoria, che all’inizio appariva piuttosto singolare, e pure modesta nella sua formulazione, si è invece rivelata esatta. Certo che è innamorata di lui, lo è alla follia. E sa bene che quel suo sentimento è del tutto corrisposto. Lo ha capito da tempo. Ma proprio in quell’attimo si scatena in lei una reazione. Improvvisa e inaspettata. Dettata da che cosa? Dall’invidia? Dalla frustrazione? Da un indecifrabile senso di inferiorità?
“No, mi dispiace. Non sono innamorata di te. E se non smettiamo di frequentarci così assiduamente penso che comprometteremo anche il nostro rapporto di amicizia” dice.
Lui annuisce, compunto. La sua mente si spegne.
“Anche per me è così. Mi sono sbagliato” riesce ancora a dire, prima di guardare di fronte a sé, dove non c’è più nessuno.

sabato 16 giugno 2012

POLITICALLY CORRECT



Negli ultimi tempi è sempre più invalso l’utilizzo di un linguaggio (scritto e parlato) che presti il più possibile attenzione a non ferire la sensibilità di minoranze o, comunque, di gruppi sociali oggetto di discriminazione.
Si parla, in questo caso, di espressioni politicamente corrette.
Facciamo un esempio. A differenza che in passato, attualmente nessuno (o quasi) usa più la parola negro, considerato sostantivo offensivo e denigratorio. Il termine è stato, poco alla volta, sostituito da nero (o di colore) che, senza dubbio, ne rappresenta la versione più ingentilita anche se il significato rimane il medesimo. Anche black, tuttavia, e soprattutto negli Stati Uniti, è stato ben presto soppiantato da una variante ancora più morbida, vale a dire afro-americano.
Il linguaggio cambia, e cambia in direzione di un sempre maggior rispetto nei confronti di alcune categorie di persone, contribuisce ad attenuare e ad eliminare i pregiudizi.
Naturalmente, come non mancano di ripetere i critici del politically correct, muta la forma ma non si modifica la sostanza, e il rischio principale è quello di rivestire il linguaggio di ipocrisia.
Vero, ma fino a un certo punto. La trasformazione in senso positivo del linguaggio può, con il trascorrere del tempo, indurre un miglioramento dell’atteggiamento delle persone e del loro modo di pensare. In tal caso è la forma che incide sulla sostanza, tanto da alterarla, e da produrre in essa un adattamento verso un profilo mentale diverso, più delicato e di conseguenza più scevro di preconcetti.
Qualche giorno fa ha destato scalpore (e suscitato indignazione) l’uso ripetuto della parola frocio fatto dal calciatore della nazionale Antonio Cassano nel corso di una seguita conferenza stampa. Si discuteva della eventuale presenza di omosessuali all’interno della squadra (argomento poco calcistico) e il calciatore barese, dall’alto della sua ignoranza, è caduto nella trappola dei giornalisti. Ha poi dovuto scusarsi, e la stessa cosa ha dovuto fare la federazione, nell’imbarazzo generale.
Il termine frocio (provenienza dialettale romanesca) possiede una incerta etimologia. Forse deriva da feroce, così come erano feroci i lanzichenecchi che saccheggiarono Roma stuprando anche gli uomini, oppure da floscio (dallo spagnolo flojo pronunciato in dialetto), ad indicare la presunta mollezza e la scarsa virilità di una certo gruppo di individui. Ma ci potrebbero essere pure altre spiegazioni. Ciò che importa davvero è il senso ingiurioso di tale locuzione, sul quale tutti sono concordi.
Che cosa avrebbe invece potuto dire il povero (di spirito) Cassano per districarsi dal tranello degli infidi giornalisti? Avrebbe potuto, ad esempio, pronunciare la parola omosessuali. Perché non lo ha fatto? Troppo lunga? Troppo difficile da articolare? Troppo sconveniente? È probabile che la sua intelligenza sopraffina gli abbia sconsigliato l’utilizzo del termine poiché troppo generico. Si sa che omosessuale è un sostantivo generico, che definisce sia uomini che donne che abbiano preferenze sessuali differenti da quella che è considerata la condizione normale.  
Consentite, a questo punto, una breve digressione.
Per quale motivo si parla spesso di preferenza sessuale? Si tratta forse di una scelta? No, non lo è.
Si tratta forse di una inclinazione? Di una obliquità? Che cosa significa? Oltretutto si rischia di cadere nel politically uncorrect, dal momento che gli omosessuali una volta erano proprio quelli che pendevano (sic!). Si potrebbe dire invece orientamento sessuale. Orientamento verso quale direzione? Quella ostinata e contraria?
Come potete vedere, l’utilizzo di un linguaggio politicamente corretto comporta molte difficoltà e un elevato livello di attenzione. È facile incorrere in equivoci e in svarioni.
Dunque, che cosa avrebbe potuto dire lo sventurato Cassano di fronte a quella selva di microfoni?
Il calciatore è un ragazzo giovane e di sicuro non avrebbe mai potuto dire invertiti. Non si usa più, è un termine desueto, molto Anni Cinquanta e di sicuro lui non lo ha mai sentito pronunciare.
Era scontato, invece, che non utilizzasse il lemma gay. Non è un obbligo, per un pedatore, conoscere le lingue straniere.
Ultima digressione. Il sostantivo inglese gay è piuttosto odiato dai nostri connazionali di origine piemontese, tra i quali mi annovero. Non per il suo significato, ma per il fatto che Gay è un cognome piuttosto diffuso nella terra di Gianduja.
Immaginatevi il dialogo.
“Tu sei gay?”
“Certo che lo sono! Sono Michele Gay, di Pinerolo.”
“No, intendevo dire se sei un gay…”
“Te l’ho appena detto! Sono un Gay da infinite generazioni. Mio padre era Luigi Gay e mio nonno…”
Capito?
E mai un piemontese (neppure in mondovisione) utilizzerebbe il termine frocio. Perché odia i romani? Per la grande sensibilità di questo popolo prealpino? No, semplicemente perché si potrebbe creare confusione con fròcc (fratello) o con frocion (strofinaccio).
Per concludere, che cosa diavolo avrebbe potuto dire quel ricco disgraziato di un Cassano?
Forse poteva stare zitto. O forse no, perché in tal caso magari sarebbe ricorso a un significativo (e politicamente scorrettissimo) gesto. Quale? Toccarsi il lobo dell’orecchio (magari quello con l’orecchino) con il dito indice… 

sabato 9 giugno 2012

GUERRA GLOBALE



La Prima Guerra Mondiale è stato l’ultimo conflitto planetario nel quale la popolazione civile non è stata coinvolta, se non in maniera indiretta. La Grande Guerra fu esclusivamente un combattimento tra eserciti, una lunga e tragica lotta di posizione, con i soldati rintanati per prolungati periodi di tempo nelle trincee e bersagliati dalle artiglierie opposte, oppure condotta con rapidi e cruenti assalti e scontri combattuti nella terra di nessuno, cioè nello spazio compreso tra le due linee nemiche.
Il Secondo Conflitto Mondiale invece coinvolse in pieno i cittadini degli stati belligeranti. Le città furono sottoposte a devastanti bombardamenti dal cielo che provocarono autentici massacri, le stesse furono occupate militarmente da nemici e alleati, i civili furono spesso oggetto di rappresaglia e comunque, in diversi modi, furono costretti a partecipare al conflitto.
Alcuni anni fa ci è stato fatto credere che la Guerra al Terrore (o, per meglio dire, al terrorismo islamico) potesse essere considerata la Terza Guerra Mondiale. Si trattava di un conflitto che, a ulteriore differenza dei precedenti, riguardava soprattutto la popolazione civile, esposta a indiscriminati e tremendi attentati allo scopo di seminare, appunto, il terrore e l’insicurezza. E trascinando nelle ostilità, in tal modo, tutti gli stati ma senza la diretta partecipazione delle loro forze militari.
Abbiamo visto come tale lotta (“perfezionata” poi dall’inutile invasione e occupazione di paesi come l’Iraq e L’Afghanistan) si sia rivelata un autentico bluff ed ora ci domandiamo se la vera Terza Guerra Mondiale (o globale?) non sia invece quella che si sta combattendo sotto gli occhi di tutti in questi giorni.
Quali sono le principali caratteristiche di tale conflitto? E, soprattutto, chi è il nemico?
Il nemico è sfuggente, difficile da individuare. Esiste e non esiste, tuttavia combatte. Il nemico può essere il mercato (la sua parte più crudele e malevola), può essere la finanza speculativa, le grandi banche d’affari, le multinazionali, la deriva del sistema capitalistico, cinici gruppi di potere che agiscono nell’ombra, il nemico può essere rappresentato da noi stessi. Tutto e niente.
Una guerra di questo genere non può essere combattuta schierando gli eserciti, perché il nemico è infiltrato ovunque ed è impalpabile, praticamente invisibile, non esistono armi atte a fronteggiarlo. È una guerra di tutti contro tutti, dove i soccombenti sono tanti, e le vittime saranno sempre di più. Vittima è chi si impoverisce, chi perde il lavoro, chi non avrà mai un lavoro, chi fallisce e si uccide per disperazione, chi non può sperare nel futuro. Vittime sono gli stati nazionali che, incapaci di reagire, di fornire adeguate e forti risposte politiche sono erosi e spolpati e con loro i cittadini, alcuni corresponsabili di tale tragica situazione e altri no, ma il nemico non opera distinzioni.
Un nemico spietato, dunque, che probabilmente vincerà la guerra, e che nessuno di noi vedrà mai in volto.

mercoledì 6 giugno 2012

IL MASSAGGIO



Guardo il sugo ribollire nella piccola pentola. Rosso, denso e invitante. Alzo gli occhi verso la mia compagna, affaccendata a sminuzzare verdura. Scorgo in lei complicità, affetto e stima.
“Spengo?” domando.
Un cenno del capo, affermativo. Ruoto il pomello, chiudo il gas. Il liquido vermiglio sussulta ancora per qualche istante, poi interrompe il suo galoppo gorgogliante e finalmente tace. Aggiungo un filo d’olio e alcune foglie di basilico. Contemplo la mia semplice opera, soddisfatto.
“Preparo il tavolo?” chiedo. La domanda è retorica, perché so bene che quel compito spetta a me. Mi piace disporre sulla tovaglia piatti, bicchieri e stoviglie. Lo faccio, in assoluta serenità. Infine mi diletto a piegare i tovaglioli.
Ho appena terminato quando sento il suono del campanello.
“Apri” dice la mia compagna. Il tono della sua voce è morbido, delicato. Non si tratta di un ordine perentorio, ma di un invito.
È la persona che stiamo aspettando, è la nostra amica Franca. Come altre volte l’abbiamo invitata a cena. Lei naturalmente ha accettato con il consueto entusiasmo, anche se sta attraversando un brutto periodo. È triste e depressa, perché è stata lasciata dal suo fidanzato. Non è la prima volta che le succede, in ogni caso soffre. A determinate situazioni è difficile fare l’abitudine e lei proprio non ci riesce. Cercheremo di consolarla, di farle trascorrere una serata tranquilla, tra veri amici.
In fondo sono quasi contento che quest’ultimo ragazzo l’abbia mollata. L’ho conosciuto, e proprio non mi piaceva. In apparenza sembrava una brava persona, seria ed educata, ma quel suo modo di fare, con il trascorrere del tempo, si è rivelato falso e ingannevole. Poco tempo fa, con lui, abbiamo avuto una discussione. Si stava parlando del più e del meno e, a un certo punto, qualcuno di noi ha introdotto l’argomento aborto. D’accordo, si tratta di un tema delicato, che tocca in profondità la sensibilità di ognuno, ricco di implicazioni di ordine etico e religioso, ma comunque la sua reazione è stata eccessiva. Almeno, così la penso io. E non credo di aver fatto nulla male, ho semplicemente espresso il mio parere. Un’opinione sincera e priva di ipocrisia. L’aborto è un delitto contro la vita, ha detto lui, con voce diventata stridula. A quel punto ho cercato di precisare meglio il mio pensiero. In linea di massima anch’io sono contrario all’aborto, ho sostenuto in maniera pacata, perché è una decisione lacerante, perché può provocare un trauma nella donna, però ritengo che nessuno possa imporre ad altri una tale dolorosa scelta, in un senso o nell’altro. Insomma, la risoluzione deve essere libera, e ciò è possibile soltanto se esiste una legge che disciplini la materia. Alla faccia di papisti e baciapile!
Quell’altro non ha più parlato. Né a me né alla mia compagna. La povera Franca è rimasta piuttosto mortificata da quell’atteggiamento duro e integralista, sconosciuto pure a lei fino a quel momento.
In conclusione sono assai felice che quel buffone ortodosso abbia piantato la mia amica. La nostra amica.
E adesso apro la porta e me la ritrovo davanti. Con la sua bassa statura, i suoi capelli folti e crespi, sempre spettinati, i suoi occhi grandi e scuri. Franca è accaldata, sudata.
“Bicicletta?” dico dopo averla baciata sulle guance.
Lei annuisce, compiaciuta.
Entriamo in casa, Franca scambia un affettuoso saluto con la mia compagna, che poi subito scappa in cucina.
“Voi rimanete pure in soggiorno, finisco io!” dice mentre di sicuro sta già rimestando la sua amata ratatouille.
Io e Franca ci accomodiamo sul divano. Lei, con un gesto inaspettato ed estremamente sensuale, si sfila le scarpe, senza slegarle, e si stende sul sofà. Poi appoggia i piedi nudi sulle mie gambe. Piedi piccoli e dalla forma perfetta, con le unghie dipinte di viola.
Rimango per un istante sbigottito, mi irrigidisco.
Lei coglie il mio momentaneo imbarazzo e sorride.
“Mi massaggeresti un po’ i piedi?” mi chiede con la sua voce dal timbro basso.
Supero lo stupore e accosto le mani alle sue estremità. In verità non ho idea di come si esegua un massaggio ai piedi. Non l’ho mai fatto, non ci ho mai pensato. Tuttavia le mie mani iniziano a muoversi, accarezzano lentamente prima i dorsi e poi le piante, si soffermano sulla dita, sopra e sotto, nelle giunture. Lei socchiude gli occhi e si rilassa, beata.
L’incanto, perché si tratta di un vero e proprio stato reciproco di delizia, dura solo qualche minuto. La mia compagna entra in soggiorno e ci sorprende in quell’atto che, mi rendo conto, può essere considerato assai intimo.
Che fare? Non ho scelta. Mi stampo sul volto un sorriso ebete e proseguo il massaggio.
“La cena è pronta.” Quattro parole, pronunciate con la solita pacatezza. Soltanto io percepisco nella sua voce una stonatura, un’incrinatura che mi colpisce, mi abbatte. Una dissonanza che è un’accusa. Rivolta a me, unicamente a me.
E non posso che essere d’accordo.