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lunedì 30 gennaio 2012

LA STREGA



Hai atteso, con trepidazione, per l’intera giornata. Non vedi l’ora di incontrarla. Finalmente sei fuori, in un tiepido pomeriggio di primavera. Percorri la strada che ti separa da lei immerso in pensieri che non riesci a definire. Non noti nulla attorno a te, né la gente frettolosa che incroci, né i luoghi che pure ti sono ben noti. Procedi in linea retta, come un automa, sprofondato nell’ottusità, nella tua nitida follia. La scorgi, da lontano, mentre percorri il viale del parco. È seduta su una panchina di pietra e sta leggendo un libro. Così sembra. Non te ne curi, non ti importa. Se anche stesse fingendo, se il suo fosse un soltanto un inviso atteggiamento, ciò non avrebbe comunque alcuna rilevanza. Ti avvicini e il respiro si mozza. Combatti contro quell’improvvisa apnea del corpo e dello spirito. La superi. Lei ti vede e si alza. Un corpo sodo ed esuberante. Sorride. Un abbraccio, poi un rapido scambio di fiati caldi. Mano nella mano violate le profondità di quel verde polmone. Sempre più in fondo, camminando finché non siete i soli, gli unici. Il tempo trascorre in fretta, parlando di tutto, discorrendo di nulla. Un saluto frettoloso, carico di colpa, e ciò che è stato unito fino a pochi attimi prima si separa. Su entrambi cala un sentimento di angoscia, un’afflizione che durerà lo spazio di un giorno. Perché gli incontri quotidiani si susseguono, durante tutta la calda estate, nel periodo in cui si uniscono i sudori; in autunno, quando i brividi climatici si legano ai fremiti di un animo sempre più in subbuglio. L’inverno, invece, quell’anno non arriva. Tutto finisce, all’improvviso, così come era iniziato. Il vuoto ti travolge, ti annulla i sensi. Comincia il tempo della riflessione. Amara e dolorosa. Tutto è cambiato, nulla è più come prima. Né lo sarà mai più. Te ne rendi conto e questa nuova condizione ti provoca angoscia, ti precipita in un abisso. Hai imparato a conoscerti, e ciò che hai scoperto ti sconcerta. Sei stato smascherato. Sono affiorati i tuoi limiti e le tue debolezze, la tua impensabile doppiezza. Vivi, ma in un altro modo. Lasci che il tempo scorra. In apparenza, tutto sembra immutato. Viceversa tutto è crollato, dentro di te percepisci solo macerie, infiniti frammenti che non è possibile ricomporre.
E poi la vedi, dopo tanto tempo. Le tue cicatrici si sono ormai indurite. Sei seduto su una panchina e stai leggendo un libro. Sul serio. Un altro parco, un altro viale. Lei si avvicina ma non si siede accanto a te. Tu non l’hai invitata a farlo. L’imbarazzo è fuggevole, subito spunta un sorriso. Quel sorriso che non mi ammalia più. I suoi capelli sono sempre lunghi e crespi, ma con qualche filo bianco. Quei capelli che amavo intrecciare tra le dita. Distolgo lo sguardo da quelle pupille verdi.
“Come va?” dice, arrotando la erre. Che voce sgraziata, penso. Non lo avevo mai notato.
Annuisco ma non rispondo.
“Non è ancora arrivato il tempo per parlare?” insiste lei.
Scuoto il capo e rituffo gli occhi sulle pagine del libro.
Lei sorride. Sorride sempre, lei. Come se tutto fosse divertente, come se tutto fosse soltanto un gioco. Forse ha ragione, forse la vita è davvero un gioco, e nulla di più. Ma io ho perso. Lei, all’opposto, vince sempre.
Ormai rassegnata, incapace di schiodarmi  dal mio ostinato mutismo, dal mio atteggiamento indifferente e ostile, si allontana. Se ne va, la mia strega cattiva se ne va.

sabato 28 gennaio 2012

SFIGATI



Nei giorni scorsi ha suscitato clamore (e provocato cori di indignazione e protesta da parte degli studenti) l’affermazione del vice-ministro Martone secondo la quale “i giovani che conseguono la laurea dopo i 28 anni sono degli sfigati”. Dove con l’espressione sfigati, naturalmente, si intende meschini, tapini, poveretti.
Dal punto di vista del politicamente corretto una dichiarazione di tale tenore può essere considerata senza dubbio infelice, oltre che inopportuna, provenendo tra l’altro da un uomo delle istituzioni che le criticità le dovrebbe affrontare e risolvere. Martone, nei giorni successivi, si è comunque premurato di precisare che il suo appunto era rivolto esclusivamente a quei giovani che si dedicano allo studio a tempo pieno, e non agli studenti che affiancano tale attività a un’esperienza lavorativa.
Tuttavia la provocazione  - poiché di ciò si tratta – del giovane e rampante (e raccomandato?) vice-ministro impone alcune riflessioni in quanto esprime, nella sua essenza, una scomoda verità con la quale è necessario confrontarsi.
L’oggetto di queste considerazioni non può che essere lo stato di salute della nostra Università.
Sgombriamo subito il campo dal dualismo tra le università private e quelle pubbliche. Le prime (ben poche sono, in realtà, quelle veramente prestigiose) indirizzano la loro offerta formativa a un’utenza, più che di studenti, di veri e propri clienti. I costi di frequenza sono spesso esosi, ed è chiaro il loro interesse nel “portare avanti” il maggior numero possibile di studenti. Più iscritti equivale a maggiori risorse disponibili. Non sempre, invece, la qualità dell’insegnamento in tali atenei è rapportata ai costi in maniera proporzionale, con alcune eccezioni rappresentate dai pochi istituti di eccellenza.
Ben diversa è l’analisi che riguarda l’università statale. In questo caso la carenza di risorse e di strutture è preoccupante; la mancanza di tali indispensabili elementi incide in maniera rilevante sull’attività di studio, la compromette in misura ragguardevole. L’ultima ed ennesima riforma attuata presenta gravi limiti – messi a nudo dalle rimostranze di studenti e docenti in tempi non lontani - e non pare essere in grado, in alcun modo, di condurre a un miglioramento della situazione.
L’università pubblica costringe gli studenti ad adattarsi alla propria configurazione imponendo limiti all’ingresso mentre, al contrario, dovrebbe modellarsi sulle esigenze degli stessi. Si potrebbe ottenere lo stesso esito – senza intaccare il diritto all’uguaglianza e la parità di opportunità iniziali  – operando una più rigorosa selezione non prima bensì durante il corso di studi. Tutti devono avere la possibilità di accedere, soltanto i più meritevoli devono avere la possibilità di proseguire gli studi e di ultimarne il percorso. Gli atenei pubblici sono finanziati sì con le tasse (troppo elevate) delle famiglie degli studenti, ma anche con il denaro di tutti i contribuenti. Di conseguenza non è immaginabile – non più – consentire che giovani poco motivati rimangano parcheggiati presso le università pubbliche per un numero di anni doppi rispetto alla durata del corso di studi.
I tempi sono mutati, le nuove e impegnative sfide (legate alla sopravvivenza stessa del Paese) impongono rinunce che, se anche possono apparire dolorose e ingiuste, sono però inevitabili.
Ben vengano, dunque, pungoli e incitamenti come quelli del vice-ministro Martone, al di là della forma con la quale sono espressi.     

giovedì 26 gennaio 2012

CORAGGIO



Nel corso di tutta la mia vita ho sempre creduto di possedere una dote che è assai rara: il coraggio. Ne sono stato consapevole fin da quando ero ancora un bambino. Sapevo di essere una persona valorosa, già da allora. Non ho mai avuto paura di niente e di nessuno. Se i miei genitori, per punizione, mi avessero chiuso in un luogo buio, sono certo che non avrei avuto alcun timore.  Avrei affrontato l’oscurità senza trepidazione, avrei scacciato mostri e fantasmi con una semplice risata. Auspicavo di continuo che lo facessero, a tale scopo combinavo una birbanteria dopo l’altra. Purtroppo, loro non lo hanno mai fatto, e non ho mai avuto la possibilità di mettere alla prova quella mia dote, di dimostrare a tutti di quale pasta fossi fatto. Vivevo per quello, e grande e continua era la mia frustrazione.
L’audacia e la temerarietà non sono visibili, risiedono dentro di noi ma, nel caso esistano, sono sempre pronte a venir fuori, a scatenarsi. L’importante è che ci sia l’occasione giusta, proprio quella che a me è sempre mancata.
Poi sono cresciuto, e tale ardire, tale forza è maturata con me. Sempre di più. Con il trascorrere del tempo si è trasformata, è divenuta intenso desiderio di compiere atti eroici. Non ero più interessato a misurare me stesso, volevo essere di aiuto agli altri. Quante volte ho immaginato o sognato di salvare la vita a mia moglie o ai miei figli? Ai miei amici più cari? A perfetti sconosciuti? Quante situazioni ho concepito con la fantasia, dove io, soltanto io, ero l’artefice di un intervento miracoloso? Compiuto nel più assoluto sprezzo del pericolo? Ho vagheggiato di sventare rapire, di salvare persone vittime di incidenti e disastri, e di ricevere da quei beneficiati della mia incosciente e fiera risolutezza una semplice ma significativa stretta di mano, alla quale avrei risposto con un cenno di indifferenza. Perché l’uomo di valore, l’uomo forte e spericolato,  non ha meriti particolari, si limita soltanto ad assecondare la propria natura. Non si può fare a meno di essere coraggiosi.
Invece non è accaduto nulla di tutto questo. Sono stato sfortunato. La mia esistenza è trascorsa in maniera grigia, piatta e monotona. Non ho mai incontrato nessuna di quelle situazioni che ho spesso bramato. La mia attitudine è rimasta inutilizzata. Gli avvenimenti mi hanno sempre sfiorato e non mi hanno mai colpito. Non sono mai stato coinvolto in nulla che richiedesse lo sfoggio del mio ardimento.
Poi sono invecchiato. Poco per volta mi sono reso conto che non avrei più potuto aiutare nessuno. La riserva di coraggio è rimasta intatta ma ormai mi manca la forza per poterla utilizzare. Sono debole.
Sono un povero vecchio, solo e ammalato. Sto per morire, lo sento. Non posso più aiutare nessuno se non me stesso. Posso però affrontare la morte con dignità, e soprattutto con coraggio.
Invece, con mio grande sconforto, con immensa disperazione, mi accorgo di avere tanta paura. 

domenica 22 gennaio 2012

LO SGUARDO



“Da questa donna è meglio stare alla larga” mi disse il mio amico. Per farlo mi si era avvicinato e aveva sussurrato quelle parole al mio orecchio. Lo osservai, perplesso. Non mi era ben chiaro il significato di tale affermazione. Poi, con indifferenza, tornò accanto a lei, che sembrava non aver notato quel movimento.
Li avevo incontrati pochi minuti prima, e mi avevano invitato a prendere un caffè con loro.
In passato erano stati entrambi miei colleghi di lavoro. Con lui, però, avevo continuato a mantenere i contatti mentre la donna non l’avevo più vista.
Ci sedemmo al tavolo e cominciammo a discorrere del più e del meno, rievocando quel lontano periodo di tempo trascorso a lavorare insieme.
Notai che tra il mio amico e la collega era presente una certa confidenza. Ridevano e scherzavano con grande complicità, c’erano tra loro dei fuggevoli contatti delle mani. A un certo punto lei bevve direttamente dalla tazzina dell’uomo. Un gesto innocente, che tuttavia mi turbò. Sapevo per certo che tra i due non c’era e non c’era mai stato alcun tipo di rapporto se non quello esclusivamente professionale. Perché il mio amico mi aveva, in qualche modo, messo in guardia da lei appena ci eravamo incontrati? Sapeva bene che, forse per altri molti anni, non l’avrei più rivista. Per quale ragione allora l’aveva fatto?  
Nel corso degli anni lui mi aveva parlato spesso della collega. Quella donna era stata tante volte oggetto delle nostre lunghe conversazioni telefoniche. Di lei sapevo praticamente tutto.
La sua vita era stata alquanto difficile. Aveva sempre sofferto di quelli che io preferisco chiamare sbalzi d’umore. So bene che non si tratta del termine più appropriato, tuttavia fatico a definire quella patologia, quell’afflizione dello spirito, con il suo vero nome. Insomma, era depressa, tanto per essere espliciti. I periodi di relativa serenità erano molto più brevi rispetto a quelli di sofferenza. Le sue assenze dal lavoro erano frequenti e  prolungate. E quando rientrava, spaesata e insicura, il suo sguardo era opaco, i suoi gesti lenti. Poco alla volta si riprendeva, anche se i suoi occhi continuavano a conservare una luce opaca. Subito dopo, improvvisa, seguiva una nuova crisi. Un paio di volte la donna aveva cercato rifugio dalla sua affezione in territori pericolosi e sconosciuti. Era ricorsa al consumo di sostanze che, soltanto in apparenza, le avevano dato l’illusione di una ritrovata pace interiore. Invece per lei era stato l’inferno, dal quale era uscita a fatica e con nuove gravi ammaccature alla sua psiche già compromessa.
La osservai attentamente, mentre parlava con brio e addentava un pasticcino. Era invecchiata, anche se era sempre una bella donna. Sul suo viso si notavano a stento i minuscoli segni lasciati dai patimenti trascorsi.
Ripensai a quando l’avevo vista la prima volta, tanti anni prima. Ciò che mi aveva colpito di più erano stati i suoi occhi, brillanti e luminosi, che conferivano al suo sguardo un irresistibile potere di seduzione. Lei ne sembrava del tutto inconsapevole, non ci badava. In quel momento avevo compreso che quella giovane sarebbe stata facilmente in grado di irretirmi, di ridurmi alla sua mercé, e feci di tutto per evitare che ciò potesse accadere. In qualche modo riuscii nel mio intento. Limitai al minimo i contatti, cercai di sottrarmi il più possibile al potere magnetico del suo sguardo, fino a quando lasciai quel posto di lavoro. Nel farlo, mi persuasi che lo scopo fosse quello di migliorare la mia posizione professionale, fino a convincermene del tutto. In realtà ero fuggito da lei, dalla sua possibile, anzi probabile, influenza su di me.
Finalmente smise di parlare con il mio amico e diresse la sua attenzione su di me. Mi rivolse alcune banali domande, alle quali risposi in maniera laconica. Fino a quando osai incrociare il suo sguardo. Non era più quello che avevo colto di sfuggita qualche istante prima. Dai suoi occhi si sprigionava ora una luce strana, particolare, capace di trafiggere, di penetrare nel mio corpo indifeso.
Mi alzai, di scatto, farfugliando che ero in ritardo, che dovevo andare via. Loro, un po’ sorpresi, mi salutarono e mi invitarono per il giorno dopo, alla stessa ora, nello stesso locale, per un altro caffè. Feci un cenno di assenso, incapace di rifiutare, e mi allontanai quasi di corsa.
All’epoca vivevo da solo e, quando rientrai in casa, il mio scompiglio mentale trovò pieno sfogo, non distratto da alcunché. Non riuscii a concentrarmi su nulla, mi scordai addirittura di cenare. Non ricordo che cosa feci esattamente in quella lunga e solitaria serata. Dopo, il mio sonno fu irregolare e disturbato. Al mattino ero completamente distrutto, annientato. Mi alzai e, come un automa, mi diressi al bar. Li trovai già seduti, mi stavano aspettando da qualche minuto e mi accolsero con gioia. Sentivo le loro voci ma non comprendevo in modo nitido le loro parole. Non riuscivo a sollevare gli occhi dalla tazzina di caffè che mi era stata servita. Poi trovai il coraggio e l’incoscienza di farlo. Fui subito abbagliato dal suo sguardo. I suoi occhi, se possibile, erano ancor più sfavillanti del giorno precedente, da loro emanava un bagliore capace di ottundere i sensi, di annullare ogni volontà. In quel momento compresi di essere perso.

sabato 21 gennaio 2012

LORD JIM



È trascorsa ormai una settimana dalla tragedia della nave Concordia, avvenimento sul quale si sono scatenati famelici i mezzi di informazione del mondo intero. Tante parole sono state dette e scritte, abbiamo visto immagini angosciose, ascoltato innumerevoli riproposizioni di drammatiche e concitate telefonate e sentito le testimonianze, rese con voci ancora colme di terrore, degli scampati.
Al di là del tragico bilancio di vite umane, evento al quale purtroppo non si può porre rimedio e che ci lascia profondamente addolorati, che cosa ci può insegnare questa dolorosa vicenda? Quali riflessioni è opportuno fare?
Come spesso accade nel nostro disgraziato Paese, la consapevolezza relativa ai comportamenti sbagliati si acquisisce sempre quando è troppo tardi, allorché l’episodio funesto si è ormai manifestato e consumato. Tutti gli interessati erano a conoscenza delle avventate e pericolose manovre effettuate dalle gigantesche navi da crociera a puro scopo esibizionistico e pubblicitario in prossimità degli scali e tutti hanno sempre colpevolmente taciuto. Adesso, ma soltanto adesso, si correrà prontamente ai ripari, ci saranno nuove proibizioni, le regole di condotta e i divieti saranno fatti rispettare. Troppo tardi, come sempre.
In questo dramma del mare spicca la figura quasi grottesca (in senso triste) del comandante Schettino. E come non pensare subito allo sciagurato Lord Jim, il protagonista del famoso romanzo di Joseph Conrad? Tuttavia le analogie tra questi due personaggi, uno frutto di immaginazione, l’altro purtroppo reale, non sono perfette. Il primo, nella sconfitta, ritrova una minima dignità, ammette le proprie colpe e la propria debolezza d’animo, l’assenza di quella qualità umana chiamata coraggio che invece riteneva di possedere. Il secondo,  tipico stereotipo dell’italiano guascone, un po’ arrogante e irresponsabile, pur messo di fronte alle evidenti colpe, somma di inadeguatezza al ruolo, imperizia e negligenza, si ostina a negare e a mentire, a invocare circostanze del tutto improbabili, a ergersi quale vittima del caso e delle cose (gli scogli, il buio, la fantomatica caduta sulla scialuppa). Le uniche vere vittime, in realtà, sono i passeggeri che hanno perso la vita.
Al codardo capitano è stata contrapposta, come sempre accade in questi casi, una successione di presunti eroi: l’ufficiale della Capitaneria di Porto che, nel semplice esercizio del proprio dovere, ha cercato in tutti i modi di scuotere e richiamare alle proprie pesanti responsabilità quell’uomo confuso e forse alterato che appariva incapace di alcuna reazione positiva; e poi gli altri soccorritori, i pochi ufficiali che non hanno subito abbandonato la nave, il vice-sindaco dell’isola, i sommozzatori da giorni impegnati in una pericolosa missione di ricerca dei dispersi. Tutti eroi? Credo che nessuno di loro (e qualcuno di essi lo ha detto espressamente) gradirebbe fregiarsi di tale appellativo. Di sicuro preferirebbero essere additati come persone che svolgono fino in fondo i propri doveri, come semplici uomini di valore.
Beato il paese che non bisogno di eroi” diceva Bertold Brecht, in quanto chi esibisce estremo coraggio esercita il compito di proteggere la comunità dal male e dai pericoli e quindi se un Paese non ha bisogno di figure eroiche vuol dire che si tratta di un buon Paese. Pertanto è auspicabile che esistano cittadini le cui virtù siano il senso di responsabilità, quello del dovere e dotati del giusto grado di altruismo, di generosità disinteressata. Non serve nulla di più. L’eroe è sempre una figura estrema, tragica. Non ne sentiamo il bisogno.
In quanto al coraggio, se proprio manca, “uno non se lo può dare”, come affermava  il pavido ma ben conscio don Abbondio. L’importante è possedere l’umiltà di ammettere tale carenza, e di conseguenza non assumere ruoli per i quali tale innata qualità potrebbe, prima o poi, essere necessaria. Lord Jim lo comprese troppo tardi. Lo capirà, prima o poi, il comandante Schettino? L’uomo ha la vita professionale e quella personale ormai rovinate, la sua incolpevole famiglia ne subirà gravi conseguenze; subentrerà, inesorabile e inevitabile, il rimorso per la scriteriata condotta tenuta, quasi di certo sarà condannato a una non breve pena detentiva. Sono utili, quindi, le polemiche seguite alla sua momentanea scarcerazione a vantaggio degli arresti domiciliari? Riteniamo di no, senza alcun dubbio. È evidente, da parte del capitano, il comportamento colposo (sebbene pluri-aggravato) e non doloso. Non esiste alcuna possibilità di inquinamento delle prove: sono ormai state acquisite le registrazioni di tutti gli accadimenti di quella terribile notte e non c’è assolutamente pericolo di fuga dal momento che la sua è, purtroppo, una fisionomia tristemente nota in tutto il mondo.
Pietà per i morti.
Immensa pena per tutti i Lord Jim passati, presenti e futuri.   

venerdì 20 gennaio 2012

FORCHE E FORCONI



La Sicilia è in rivolta, e sono spuntati i forconi. Per adesso metaforici, quali simbolo delle rivendicazioni della gente comune, degli umili. L’intero territorio isolano è paralizzato dai blocchi stradali. Iniziano a scarseggiare le merci sugli scaffali dei supermercati, le scorte di benzina sono praticamente esaurite. Hanno cominciato i camionisti, seguiti subito dopo dagli agricoltori, dai commercianti e da altre categorie di lavoratori, operai compresi. Alla fine si sono uniti alla protesta anche gli studenti. La Confindustria locale paventa strumentalizzazioni da parte della malavita, nonché infiltrazioni mafiose. C’è grande preoccupazione, c’è allarme. Si teme il caos, e la progressiva destabilizzazione del già fragile tessuto sociale. Il fenomeno in essere appare sottovalutato dalle forze politiche, del tutto incapaci di alcuna reazione, con un considerevole aumento del rischio di deriva democratica. E tutto ciò avviene in un momento assai difficile per il Paese, guidato da un governo non legittimato dal voto popolare, impegnato nel tentativo quasi disperato di evitare il fallimento dell’intero sistema economico, alla ricerca di una credibilità internazionale che era andata completamente smarrita.
Tutto lineare, dunque. Assistiamo alla ribellione  di gente esasperata, impoverita e, in apparenza, priva di una prospettiva futura. Tutto limpido e conseguente, se non che è inevitabile il sorgere di alcuni interrogativi, questioni allo stesso tempo curiose e inquietanti.
Qual era la condizione della Sicilia – e dell’intero Mezzogiorno - non più di due mesi fa? Era migliore? Quali erano, allora, le opportunità di ripresa – di speranza - che in così poco tempo sembrano siano invece venute meno adesso?
È senz’altro utile ricordare che l’attuale esecutivo si è insediato a metà novembre, dopo la tardiva e infamante fuga del governo che l’aveva preceduto, mascherata da ridicola assunzione di responsabilità.
Perché la protesta non è iniziata lo scorso autunno? I presupposti erano ben presenti, e mai come allora il Paese ha rischiato di precipitare nel baratro, una caduta che avrebbe trascinato nella polvere in primo luogo proprio le categorie che attualmente animano la rivolta sicula. In quel drammatico momento, invece, non accadde nulla.
Aggiungiamo ulteriori elementi di riflessione.
Forza Italia prima e il PDL dopo hanno costruito i trionfi elettorali nazionali in gran parte grazie all’incondizionato sostegno degli elettori di regioni come quella siciliana. Per non parlare delle ultime elezioni regionali, che hanno visto la netta affermazione di un personaggio discusso come il governatore Lombardo. Inutile poi rammentare figure della fauna politica locale quali Dell’Utri, Micciché, Schifani, tutti appartenenti alla stessa area politica e tutti coinvolti (insieme a molti altri) in inchieste per mafia.
Alla luce di quanto esposto ci si chiede per quale motivo i cittadini isolani non abbiano colto le occasioni elettorali per invertire un indirizzo che purtroppo è apparso ben chiaro.
È del tutto sbagliato, di conseguenza, attribuire almeno un po’ di credito a chi denuncia possibili coinvolgimenti nella protesta da parte delle cosche di Cosa Nostra? Riteniamo di no.
D’altra parte è anche opportuno e doveroso distinguere, tra i cittadini siciliani, quelli che agiscono in assoluta buona fede (la maggioranza) da chi invece opera per realizzare i disegni delle organizzazioni criminali.  
In ultimo, le rivendicazioni dei contestatori non appaiono chiare e sufficientemente delineate. Si tratta, finora, di una generica richiesta di ascolto rivolta direttamente al governo.  I partiti sono stati del tutto scavalcati, il loro ruolo desolatamente sminuito, il loro potere di rappresentanza annullato. In tale situazione si evidenzia ancora di più una colpevole assenza dello Stato. Condizione che, non dimentichiamolo, produce ovunque, non soltanto al Sud, terreno fertile per chi su questo distacco ha da sempre costruito le proprie delittuose fortune. 

martedì 17 gennaio 2012

PICCOLE BUGIE



Il matrimonio era riuscito molto bene. Sia la cerimonia che il successivo banchetto. Gli invitati erano tanti, tutti parenti e amici dello sposo. Terminato il pranzo, appena la piccola orchestra aveva iniziato a suonare ed erano cominciati i balli, i due sposi, quasi alla chetichella, erano andati via.
Un viaggio in macchina di alcune ore ed erano arrivati in quel delizioso albergo sul lago, dove avrebbero trascorso i pochi giorni della loro luna di miele.
Era quasi mezzanotte. I due sposi erano un po’ stanchi ma felici.
Adesso lei era in bagno mentre l’uomo, pensieroso, era affacciato alla finestra della camera e fumava in modo nervoso. Più ripensava alla loro storia e più si sentiva inquieto e agitato.
Si erano conosciuti poco più di due mesi prima,  in un bar della città dove abitava la donna. Lui era capitato lì per puro caso, era soltanto di passaggio. All’inizio, era sembrato uno dei soliti abbordaggi ben riusciti. Prima di lasciarsi si erano scambiati i numeri di telefono. Due giorni dopo aveva ritrovato quel pezzo di carta e l’aveva richiamata. Era la prima volta che faceva una cosa del genere. Di solito le sue avventure erano sempre fuggevoli, non duravano mai più di un giorno. Tuttavia si era accorto che quella donna gli piaceva. Era bella, simpatica, solare e sembrava pure molto più colta di lui. Un’ottima conversatrice, mai a corto di argomenti. Se ne era accorto ben presto perché a quella erano seguite molte altre telefonate, a tutte le ore del giorno e della notte. Allora era tornato da lei, per un paio di giorni, e si era reso conto che l’incanto del primo incontro non era per nulla svanito. Anzi. A quel punto, dopo un altro po’ di tempo, aveva fatto una cosa incredibile: le aveva chiesto di sposarlo. Così, quasi per gioco. Invece la ragazza aveva preso molto sul serio la sua proposta e, dopo una breve riflessione, aveva accettato. Tutto si era messo in moto in maniera frenetica. Lui l’aveva presentata ai suoi, che avevano approvato. D’altra parte non vedevano l’ora che il loro unico e amato figlio si sistemasse una volta per tutte, anche perché non era più giovanissimo. In fretta e furia avevano organizzato la cerimonia. La ragazza aveva confessato di non avere parenti, di possedere pochi amici, e di non tenere molto alla loro presenza al matrimonio. Lui aveva rispettato quel suo desiderio. Alla fine si erano sposati.
L’uomo spense la sigaretta. Si chiese per l’ennesima volta se la sua fosse stata una decisione saggia, se non avesse dovuto riflettere un po’ di più nel prendere quella decisione.
Tutti quei dubbi sfumarono appena la vide rientrare in camera, vestita quasi di niente. Ammirò la sua alta statura, il corpo splendido, con quei seni che sembravano finti tanto erano perfetti, i fianchi stretti ed eleganti. Però, proprio in quel momento, proprio mentre ne ammirava la bellezza, maturò nell’uomo la piena consapevolezza che lui a quella donna voleva bene. Per un attimo rimase come stordito, poi decise che, se non voleva perderla, non poteva continuare a ingannarla. Lei scorse sul suo viso quel turbamento difficile da mascherare.
“Che c’è? Sei stanco?” domandò con la sua bella voce, dal timbro profondo e sensuale.
Lui si sfregò gli occhi.
“Ti devo dire una cosa.”
Un sorriso.
“Non me la potresti dire domani? Oppure… dopo?”
“No.”
“Uh! Perché sei così serio all’improvviso? Su, confessati!”
“Ascolta, devi sapere che ti ho mentito.”
La donna continuò a sorridere, anche se il suo viso divenne più tirato.
“Dimmi…”
“Si tratta del lavoro. Vedi, io non sono un imprenditore…”
“E che cosa saresti?”
“Be’… in realtà opero sempre nello stesso ramo, tuttavia…”
“Fai il muratore!” esclamò lei, un po’ allarmata.
Lui non rispose.
“Ho indovinato?”
“Come hai fatto?” domandò l’uomo, con un filo di voce.
“In realtà la mia era una battuta…” disse la ragazza, che poi si sedette sul letto.
“All’inizio non pensavo che…”
“Una scopata e via?”
“No, aspetta. Quando ho capito che tra noi… cioè che noi…”
“Che ci amavamo?”
“Sì, era troppo tardi e non sono più riuscito a…”
“Anche tutto il resto è falso?”
Lui la guardò, spaventato.
“Il conto il banca, la villetta al mare…”
L’uomo chinò il capo, mortificato.
“Gli ultimi soldi li ho utilizzati per prenotare questo albergo. In quanto alla casa al mare… l’avevo affittata per l’occasione. Comunque ti assicuro che su tutto il resto non ho detto menzogne. Il mio amore per te…” Non riuscì a completare la frase. Iniziò a singhiozzare in silenzio.
Lei sospirò.
“Ma… i tuoi genitori…”
“Mi hanno assecondato” disse lui tra i singulti.
Un altro lungo sospiro.
“Non importa” disse infine la donna. E sorrise.
“Come?” Lui, incredulo.
“Ho detto che non importa se tu mi hai mentito. L’importante è che tu davvero mi ami.”
“Sì! Sì!” E riprese a piangere. Di gioia?
Lei si alzò e si avvicinò al marito.
“In fondo, la tua era soltanto una piccola bugia. Tutte le persone dicono piccole bugie.”
Poi si allontanò, recuperò la borsetta ed estrasse un documento di identità che gettò sul letto.
“Tutti dicono delle piccole bugie” ribadì. E si chiuse in bagno.
L’uomo prese il documento e lo osservò. Guardò dapprima la fotografia. Sembrava lei, anche se era diversa. I lineamenti del viso erano gli stessi, tutto il resto no. Notò i capelli tagliati corti, le sopracciglia folte, le labbra più sottili… Anche il nome era quasi lo stesso. Quasi. Soltanto una vocale era diversa. L’ultima.

venerdì 13 gennaio 2012

IL PASSO DEL GAMBERO



Nella giornata di ieri abbiamo assistito a due fatti di assoluto rilievo accaduti nel panorama politico del nostro Paese. La Corte Costituzionale ha ritenuto non ammissibili i quesiti referendari rivolti ad abrogare l’attuale legge elettorale, ormai da tutti denominata “Porcellum” (copyright del noto politologo Giovanni Sartori). Inoltre, la Camera dei Deputati ha respinto la richiesta di autorizzazione all’arresto nei confronti dell’on. Nicola Cosentino, parlamentare del PDL sul quale grava la tremenda  accusa di essere il referente nazionale delle cosche camorristiche dei casalesi.
La decisione della Consulta, sebbene amara per il milione e oltre di cittadini che avevano sottoscritto la proposta di referendum trova, almeno in parte, una sua giustificazione giuridica. L’abolizione delle norme che attualmente regolano la consultazione elettorale politica non avrebbe, in ogni caso, ricondotto in maniera automatica alla vecchia legge elettorale,  perché già soppressa in precedenza dal Parlamento. Questa, in sintesi, è la motivazione principale addotta dalla Corte Costituzionale nella sua sentenza. La stessa Corte, tuttavia, ha accompagnato la decisione con l’auspicio che la legge elettorale sia comunque riformata ritenendo, di conseguenza, quella attuale del tutto inadeguata. Analogo desiderio è stato prontamente rilanciato dal Capo dello Stato, ben consapevole delle storture che accompagnano il “Porcellum”. Tale compito spetta naturalmente ai partiti rappresentati in Parlamento. Sia la Lega Nord che il PDL si sono subito affrettati a dichiarare che la legge vigente è soddisfacente, chiudendo di fatto ogni possibilità di cambiamento della stessa. In fondo, nulla di nuovo. Il “Porcellum” era stato infatti elaborato proprio da tali forze politiche allo scopo di favorire i loro interessi di bottega. Ci dobbiamo dunque rassegnare: anche il prossimo sarà, quasi di certo, un Parlamento di nominati. Agli elettori, ancora una volta, sarà sottratta la possibilità di scelta dei parlamentari. In più, il permanere di tale legge elettorale dovrebbe, in base agli astuti disegni di un rinvigorito Berlusconi, consentire un riavvicinamento tra gli ex alleati di Lega e PDL. Come sempre, però, tutto il male non viene per nuocere. La risoluzione della Corte Costituzionale favorirà la sopravvivenza del governo Monti che, in caso di ammissibilità dei quesiti referendari, avrebbe rischiato di andare incontro a micidiali turbolenze provocate dalle inevitabili e incontrollate (nonché, come sempre, irresponsabili) fibrillazioni dei partiti. Alla luce di tutto ciò appaiono (come purtroppo spesso accade) del tutto incomprensibili le deliranti esternazioni di Antonio Di Pietro, il quale ha accusato l’Alta Corte di aver fatto un uso politico del proprio potere. Dichiarazioni del tutto simili le abbiamo sentite, per anni, pronunciate da Silvio Berlusconi, tristemente noto per essere del tutto privo di senso dello Stato, e per tale motivo aspramente criticato dallo stesso Di Pietro…
Per quanto riguarda invece la votazione tenuta alla Camera sul caso Cosentino, è chiaro che ci trova in tutt’altro ambito. Ancora una volta la casta dei politici si è chiusa a riccio e si è autoprotetta, ignorando in maniera pericolosa e colpevole le istanze e gli umori dei cittadini. È opportuno precisare che i parlamentari non erano tenuti a esprimere una valutazione sulla fondatezza delle accuse contenute nelle carte dell’inchiesta penale che coinvolge il deputato campano, ma soltanto a stabilire se poteva sussistere, nei suoi confronti, un intento persecutorio. Qualsiasi individuo dotato di buon senso non avrebbe avuto dubbi nell’escludere tale circostanza. Se, in via teorica, può esistere persecuzione condotta da un singolo magistrato nei confronti di un indagato, nel caso in oggetto ciò non è assolutamente possibile che sia avvenuto. Nel corso del tempo sono stati ben nove i giudici che sono intervenuti nelle indagini e nelle varie decisioni che le hanno accompagnate. A questo punto l’equazione che porterebbe a ritenere che l’intera magistratura sia impegnata nello stesso disegno vessatorio sarebbe tanto facile quanto assurda, e condurrebbe alla delegittimazione dell’intero sistema giudiziario. Nessuno fa invece notare che i magistrati impegnati nell’inchiesta Cosentino sono gli stessi che hanno ricevuto, da parte del vecchio governo,  ripetuti plausi per le incriminazioni e gli arresti di latitanti.  
Purtroppo sono prevalse le solite logiche di partito, le stesse che stanno allontanando sempre più i cittadini dalla politica, con un grave danno per il nostro sistema democratico.
In conclusione, è triste dover prendere atto che, nonostante gli sforzi e l’impegno della poca gente di buona volontà, il nostro Paese non riesce mai a fare neppure un piccolo passo in avanti.
Stando così le cose, le prospettive future del Paese restano molto incerte.

lunedì 9 gennaio 2012

AL SERVIZIO DEL PRESIDENTE



Il mio nome è Monti, Mario Monti. Sono un signore di 68 anni, professore universitario in pensione, al quale è stata affidata una missione quasi impossibile: salvare l’Italia. Ho accettato. D’altra parte non avevo scelta. Si è fatto appello al mio senso del dovere, un tasto al quale sono molto sensibile, e inoltre a rivolgermi questa accorata richiesta è stato un galantuomo che ho sempre stimato e rispettato: il mio Presidente. Ripeto, non potevo proprio sottrarmi.
Intendiamoci, personalmente ho sempre nutrito grandi ambizioni, sia nel corso della mia carriera accademica che quando ho ricoperto importanti incarichi di natura tecnica all’interno della Commissione Europea. Tuttavia ormai consideravo chiuse entrambe quelle gratificanti esperienze. Mi apprestavo a trascorrere gli anni futuri dedicando più tempo ai miei affetti, al limite impegnato in qualche prestigiosa consulenza in giro per il mondo. Sapete, sono considerato un buon economista, e può darsi che ciò corrisponda al vero.
Invece mi ritrovo alla guida di un governo piuttosto anomalo, in un periodo considerato tra i più bui difficoltosi da sempre per il nostro Paese. Il mio è un governo senza dubbio politico, perché piena espressione della volontà del Parlamento che, come sempre, è sovrano. Un esecutivo, però, formato esclusivamente da tecnici, scelti tra personalità di spicco soprattutto in ambito accademico, e che godono di tutto il mio credito. Alle Camere ho ottenuto una fiducia quasi plebiscitaria, e anche questo è un fatto nuovo, per certi versi imbarazzante. Partiti che fino a qualche giorno prima si combattevano aspramente hanno deciso, unanimi, di appoggiarmi. Già, i partiti, uno dei grandi elementi di criticità della nostra democrazia. In realtà, i partiti mi fanno pena. L’opinione pubblica li disprezza. Sono considerati, a ragione, incapaci di decidere, arroccati nei loro privilegi di casta, privi di una qualsiasi visione. I cittadini, naturalmente, hanno ragione ma, in verità, a me queste deboli e timorose formazioni politiche suscitano soltanto molto strazio. Perché sono ciechi, non riescono mai a vedere oltre il proprio naso, e per naso intendo la prossima scadenza elettorale. Vorrei poterli aiutare, e cercherò di farlo. La tregua rappresentata dal periodo in cui governerò dovrebbe consentire loro di rivedere i programmi, di diventare più concreti e lungimiranti, di rinunciare alla difesa di piccole ma agguerrite corporazioni, di ritrovare un’etica, sia politica che morale. Negli ultimi anni hanno prodotto un disastro dopo l’altro, rinunciando a governare oppure facendolo in maniera maldestra. Inseguendo, ciò riferito in particolare a qualcuno che non cito, l’esclusivo perseguimento di interessi personali. Se vorranno sopravvivere dovranno cambiare in modo radicale, perché io non potrò rimanere in eterno, dal momento che l’esecutivo che guido ha una scadenza ben precisa. Mi tocca parlare, quasi ogni giorno, con i principali esponenti dei partiti che sostengono il Governo. Mi sforzo di farlo, di ascoltarli, di fingere di accogliere le loro proposte. Mi accorgo, con desolazione, che tra loro regna soltanto la confusione, quel caos di idee che ci ha quasi condotto alla rovina. In alcuni di loro (pochi) colgo la buona volontà, in altri vedo l’immutabile e desolante ripetersi di errori commessi in passato. Mi auguro proprio che queste forze, indispensabili per garantire l’equilibrio democratico, riescano a mutare pelle. L’Italia ne ha un gran bisogno, però lo devono fare in fretta. Non dobbiamo e non possiamo permetterci di perdere altro tempo, e questo è anche l’imperativo che ispira la mia azione di governo. Si propone, si ascolta, si decide e si mette in pratica. Infine, si attendono i risultati.
Mi rendo conto che molti provvedimenti da me attuati siano duri, che richiedano ai cittadini grossi sacrifici, e ciò mi dispiace. Nondimeno, non abbiamo alternative. L’importante è che le rinunce e le privazioni di oggi possano garantire nuove prospettive per il domani, soprattutto a chi versa in condizioni di maggior disagio, a chi ha perso il lavoro, alle donne e ai giovani.
Volevo spendere due parole anche per le forze di opposizione, ma preferisco non farlo. Il mio giudizio sarebbe durissimo. Non tollero l’irresponsabilità, in più accompagnata da volgarità e trivialità. Il mio Paese merita ben altro. I cittadini che, ingenuamente, si riconoscono in tali forze politiche sono invitati a riflettere.
I miei detrattori affermano che agisco come un automa, che non ho sentimenti e che non manifesto emozioni. A tutti loro rispondo dicendo che non si governa con l’anima, ma con la competenza e con la forza delle idee.
Il mio nome è Monti, Mario Monti. Sono impegnato in una missione quasi impossibile ma, con l’aiuto di tutte le persone consapevoli e assennate, penso proprio di potercela fare.

giovedì 5 gennaio 2012

IL GELATO


Stai lì, fermo, in quell’angolo della piazza, proprio vicino alla fermata del tram, e aspetti. E ti domandi perché lo stai facendo.
Sei uscito da casa poco prima – non abiti lontano – e hai sfidato la calura di quella serata di luglio. Ti sei diretto in quel posto e ora  aspetti, visto che gli appuntamenti funzionano in quel modo. A uno dei due tocca sempre attendere. Ma non è l’attesa che ti disturba. Anzi, in quel momento sospeso ti senti quasi bene. Nulla è ancora accaduto. Da un attimo all’altro potresti addirittura decidere di ripensarci, di tornare indietro. Sai che non lo farai, e allora continui ad aspettare. Prima o poi l’altra persona arriverà, e subirai l’ineluttabile corrente degli eventi. Invece di stare lì, immobile in quell’angolo, a osservare la gente accaldata che sale e scende dal tram, potresti essere a casa. Certo, non saresti solo, ma che importa? È meglio l’abitudine che il nulla. Potresti comunque guardare la televisione, anche se non lo fai mai, oppure, con più soddisfazione, ascoltare un po’ di musica o leggere un libro. Al contrario, hai stabilito di uscire, di fare qualcosa di inconsueto forzando la tua natura, altrimenti comune. In fondo, hai risolto di metterti alla prova. Adesso però ne sei pentito. Ti chiedi che bisogno c’era di farlo, e ti convinci che non era assolutamente necessario. Ma ormai è troppo tardi, concludi, non esiste più la possibilità di operare una scelta differente, all’opposto è il momento di subire le conseguenze. Più si avvicina il tempo dell’incontro, più aumenta la tua apprensione. Sposti leggermente un piede, da quasi mezz’ora inchiodato al suolo, ti accorgi che duole per la prolungata immobilità, e ti rendi conto del tuo stato di tensione. Tenti di rilassarti guardandoti attorno, lisciando più volte i pantaloni, verificando l’estensione delle chiazze di sudore sotto le ascelle. Ti gratti il naso, constati con stupore che la barba, rasata accuratamente nel corso del pomeriggio, sta già ricrescendo. E poi…
Nascosta dal tram che sta ripartendo, la vedi. La sua macchina. Sì, proprio la sua, quella della persona che stavi aspettando. Sarà appena arrivata, pensi, oppure lei ti stava osservando già da un po’ di tempo e tu non te ne sei accorto? Avrà notato i tuoi gesti nervosi? La tua inquietudine? Non importa, non importa più, dal momento che il ballo ha avuto inizio. Lei tuttavia non scende, ma ti fa segno di avvicinarti, vuole che tu salga in macchina. Sobbalzi, il cuore in gola. Questo non l’avevi previsto. Ti eri immaginato una semplice passeggiata lungo il fiume, nulla di più, niente di diverso. Rammenti, con dolore e con impaccio, l’unica altra volta che hai fatto quel gesto, quello di salire con lei in auto. Eravate fermi in un parcheggio, in pieno giorno. A un certo punto, dopo tante parole leggere, lei si era avvicinata, aveva accostato le sue labbra screpolate alle tue. Le aveva appoggiate sulle tue. In un primo momento non avevi reagito. Subito dopo avevi aperto la portiera ed eri sceso, dopo aver farfugliato qualcosa di indecifrabile anche per te. Ti eri allontanato, stordito e imbarazzato. Eri convinto di averla umiliata. Invece il giorno dopo lei ti aveva salutato come sempre, con un sorriso, e ciò ti aveva sconvolto. Poi tutto era ripreso come prima.
Ora non hai scelta e sali. Lei riparte e tu non parli, perché non sai che cosa dire. La osservi, ti soffermi sul profilo del suo viso, ti stupisci per il suo naso lungo che, in tanti anni, non avevi mai notato. Lei guida con grande attenzione, concentrata. Percepisci, nel minuscolo abitacolo, un odore dolciastro, un miscuglio di profumo e traspirazione. Il suo. Il tuo. Non osi domandare dove siete diretti. In realtà, non lo fai perché non ti interessa. All’improvviso, sei consapevole del fatto che quella donna non ti piace. Non ti piace più. Allora, di fronte a quell’evidenza, ti irrigidisci, non vuoi che quella fredda e sconvolgente sensazione trapeli in alcun modo. Vorresti essere da un’altra parte, vorresti non essere. L’auto si arresta. Tu sorridi, ebete individuo, e continui a non parlare. Lei ricambia allo stessa maniera. Scendete e attraversate la strada. Lei appoggia una mano sulla tua spalla. Quel gesto potrebbe causarti fastidio, ma non è così. Suscita in te soltanto indifferenza. Piuttosto noti, osservando con attenzione la nuca, che i suoi capelli non sono perfettamente puliti. I pantaloni che indossa appaiono stropicciati e la rendono goffa. Ti fai coraggio e cerchi di incrociare il suo sguardo, perché non l’hai ancora fatto. Ma nei suoi occhi non scorgi nulla. O forse sì: un placido distacco.
“Ti va un gelato?” ti domanda all’improvviso, con la sua voce acuta. O stridula…
Scorgi l’insegna della gelateria, sempre più grande, colorata di rosso, che incombe su di te. Tu detesti il gelato, naturalmente.
“Sì” rispondi. E nello stesso istante comprendi che qualcosa che non è mai iniziato è già finito.

martedì 3 gennaio 2012

VATICINIO MAYA



Come spesso accadeva, i due si ritrovarono alla fermata dell’autobus. Uno era il rettore dell’Università, il professor Venturi, storico di grande fama nonché sociologo, l’altro il giovane titolare della cattedra di matematica, il dottor Cogniti.
“Si ricomincia!” esclamò il matematico. “Ci attende un altro anno di duro lavoro.”
Il rettore lo salutò con un cenno, poi lo guardò fisso.
“L’ultimo” disse.
Cogniti strabuzzò gli occhi.
“Dici sul serio? Hai finalmente deciso di andare in pensione?” domandò, sorpreso per quella inaspettata decisione.
Il rettore scosse energicamente il capo.
“Non mi riferivo al mio collocamento a riposo. Intendevo dire che sarà l’ultimo anno per entrambi, e per molti altri. Naturalmente non sto parlando della scuola…”
“Che cosa?”
“Non hai sentito parlare della profezia dei Maya?”
Il giovane scoppiò a ridere.
“Mi stai prendendo in giro?” disse appena si fu ripreso. “Vuoi dirmi che credi a quella bufala? Proprio tu, lo studioso di storia antica?”
“Che cosa c’entra la storia, scusa?” disse Venturi.
L’altro rimase interdetto.
“So che tu hai approfondito molto lo studio delle civiltà precolombiane, quindi pensavo che…”
“No, sei sulla cattiva strada. La storia non c’entra per nulla, e tantomeno i poveri Maya. Loro non hanno predetto un bel nulla, te lo posso assicurare.”
“Ma allora…”
“In ogni caso, sono certo che il mondo finirà.”
“Non capisco…”
Sul volto del professor Cogniti si era dipinta una certa preoccupazione. Il giovane sapeva, per esperienza personale, che Venturi non parlava mai a sproposito.
“Devi sapere che ho analizzato questa faccenda, quella della profezia. Sai, queste cose mi incuriosiscono, e alla fine sono giunto a una conclusione. Chi prevede la fine del mondo ha ragione. Tuttavia per arrivare a ciò ho dovuto far ricorso alla mia esperienza di sociologo.”
Cogniti era sempre più pallido. Ormai aveva capito che il rettore non scherzava affatto.
“Spiegati, per favore…” sussurrò.
“D’accordo, ci proverò. Hai mai sentito parlare della profezia che si autoadempie?”
“Non credo riguardi il mio campo…”
Venturi sbuffò. Non tollerava la scarsa preparazione, in nulla, e soprattutto quella di un suo docente.
“Si tratta di una predizione, di un annuncio che, nel venire fatto, finisce con l’avverarsi.”
“Vale a dire?”
Cogniti era ormai privo di salivazione. La sua voce raschiava, simile a un rantolo.
“Semplice” proseguì Venturi. “ Perché ci si convince che un certo accadimento sarà inevitabile. E sarà questa stessa convinzione, diffusa, a far sì che tale fatto diventi realtà. Credimi, è inevitabile. Robert Merton aveva ragione.”
“Chi… chi è Merton?” sibilò il giovane professore.
“Oh! Un nostro collega, un sociologo. Ma non preoccuparti, è già morto, beato lui!”
“Non capisco…” piagnucolò Cogniti.
“Vedi, a un certo punto, per chissà quale motivo, qualcuno ha tirato fuori questa bizzarra teoria della profezia Maya. Una stupidaggine, una specie gioco, tuttavia una moltitudine di persone ci ha creduto. Non alla previsione in sé, bensì all’effetto finale: la fine del mondo. Con il passare del tempo queste persone sono aumentate sempre più di numero, fino a diventare milioni e milioni. Tutte loro, individui comuni ma anche capi di Stato e di Governo e grandi finanzieri stanno operando, seppure a livello inconsapevole, affinché la predizione si avveri. Credo proprio che alla fine ce la faranno. La fine del mondo dunque sarà inevitabile.”
“Anche… tu?” chiese Cogniti, costernato.
“Certo! Ho sempre creduto nella teoria del buon Merton. E pure tu, se mi permetti…”
“Io? No!” gridò il giovane. Alcune persone si voltarono a guardarlo.
“E invece sì!” disse Venturi. “Guardati! Sei distrutto! Ciò vuol dire che credi a ciò che sto dicendo. Benvenuto nel club degli involontari distruttori del pianeta! Ehi, sta arrivando il bus!”
Con un balzo il professor Venturi fu sul mezzo.
Il giovane collega rimase impietrito alla fermata.