C'è una stagione della
vita dove tutto sembra essere magico. Il passato è ancora breve, non si è
ancora tormentati dai ricordi e dai rimpianti, non c'é la necessità di fare
progetti per l'indomani, perché il futuro non esiste, c'è soltanto il presente.
Una stagione della vita che trascorre in fretta, troppo in fretta.
Quel giorno, il mio
presente e quello del mio amico Mario era costituito dalle fionde.
Avevo risparmiato la
mia paghetta settimanale per quasi due mesi finché non avevo racimolato la
somma necessaria per comprare una nuova fionda, quella con la forcella di
metallo. Era bellissima, lucida, con gli elastici neri a sezione quadrata e il
manico rivestito di cuoio. Ero impaziente, non vedevo l'ora di provarla. Ma per
farlo dovevo aspettare che Mario terminasse la costruzione della sua, di
fionda. Mi aveva chiesto il permesso di utilizzare il banco da lavoro di mio padre
per gli ultimi ritocchi alla sua arma. Aveva serrato la forchetta di legno
nella morsa e stava verificando la tenuta degli elastici. Era concentrato, con
la fronte imperlata di gocce di sudore e la punta della lingua che faceva
capolino dalle labbra carnose. Mario non avrebbe mai utilizzato una fionda
acquistata in un negozio. Innanzitutto non possedeva denaro, perché la sua era
una famiglia povera, lui era il quinto di sette figli, e la paghetta
settimanale esisteva soltanto nei suoi sogni di ragazzino. In ogni caso il mio
amico amava costruire gli oggetti da sé. Quando decideva di fabbricarsi una
nuova fionda si armava di un coltellaccio e poi spariva nel bosco, e non ne usciva
finché non aveva trovato ciò che cercava, vale a dire il pezzo di legno più
adatto, stagionato al punto giusto, con la migliore biforcazione. Dopo
proseguiva la sua opera scortecciando, limando, lisciando e carteggiando fino a
ottenere un risultato che lo potesse soddisfare. Infine ritagliava delle
strisce di gomma da vecchie camere d'aria di bicicletta e le fissava al telaio.
Quegli elastici erano sempre troppo larghi, tanto che Mario li tendeva con
fatica. Le sue fionde non avevano mai un tiro preciso, ma possedevano la
potenza di un cannone.
"Finito"
disse il mio amico, liberando la sua grossa fionda dalla stretta della morsa.
"Le andiamo a
provare?" domandò poi lanciando un'occhiata un po' invidiosa alla mia arma
luccicante.
"Dove?"
chiesi, infilandomi la fionda nella cintola dopo aver raccolto gli elastici
attorno alla forcella.
Pensò per un attimo,
alzando gli occhi.
"Alla casa
abbandonata" disse. Approvai con entusiasmo e, di corsa, uscimmo dal
garage.
Quella casa si trovava
appena fuori dalla borgata. Fino a un paio d'anni prima era stata abitata da
una vecchietta, Pina dei gatti, che viveva sola. L'anziana donna era chiamata
così perché dava rifugio a tutti i gatti randagi del paese. Le più sudice
bestiacce, alcune di loro con il pelo che cadeva a ciuffi, altre con orecchie o
code mozzate dalle tante battaglie, trovavano sempre dalla loro amica una
ciotola di latte fresco o qualche appetitoso avanzo. Quando Pina era morta,
all'improvviso, nessuno aveva reclamato la casa. Lei non aveva figli o nipoti,
e forse gli altri lontani parenti, ammesso che ne esistessero, si stavano
ancora disputando i suoi averi a suon di carte bollate. Dall'abitazione non era
stato portato via nulla, anche se l'edificio, ormai privo del calore umano che
rendeva vivi i suoi muri, e senza più alcuna manutenzione, si stava
deteriorando in fretta.
Ci avviammo in
direzione della casa percorrendo la stretta strada ricoperta di ghiaia. Ogni
tanto, avvistato un ciottolo di particolare interesse, ben tondo e dalle giuste
dimensioni, ci fermavamo e lo mettevamo in tasca. Arrivati a destinazione ci
fermammo proprio di fronte alla costruzione. La casa abbandonata era circondata
da tre lati da un alto muraglione di pietra, in parte diroccato.
Mario osservò le
finestre del piano alto, le uniche che potevamo scorgere da quella posizione.
"Tiriamo ai
vetri" disse spiegando la fionda. Stava già frugando in tasca alla ricerca
di un proiettile quando lo bloccai posandogli una mano sulla spalla.
"Fermo! Se ci vede
qualcuno passiamo dei guai" dissi.
Lui imbronciò le labbra
e poi sputò a terra. Come detestavo quella sua brutta abitudine!
"Qui intorno non
c'è nessuno" rispose, asciugandosi la bocca con la mano.
"Però potrebbe
passare qualcuno all'improvviso. Se i miei lo vengono a sapere non mi faranno
più uscire per tutta l'estate".
"Fifa?"
domandò lui.
"No" risposi,
un po' risentito. "Ma ci tengo alla mia fionda".
"D'accordo, allora
entriamo. Sarà meno divertente tirare dal cortile, perché il bersaglio sarà
troppo vicino. D'altra parte il nostro scopo è soltanto quello di provare le
fionde".
"Proprio
così" approvai. "Facciamo qualche tiro, buttiamo giù un paio di vetri
e poi ce la diamo a gambe".
Ci avvicinammo al
grande portone di legno, che era soltanto accostato, ed entrammo nel cortile.
L'interno era pieno di erbacce, alcune delle quali ci superavano in altezza.
"Avrei dovuto
portare il machete" disse Mario, riferendosi al coltellaccio di suo padre
che lui amava chiamare in quel modo.
Ci facemmo largo tra
gli arbusti e raggiungemmo un lato dell'edificio. E lì ci bloccammo, con il
cuore che in pochi secondi iniziò a martellare nel petto. C'era una macchina.
Feci segno a Mario di non parlare, poi mi accostai all'autovettura, una vecchia
Simca 1000 celeste. Posai una mano sul cofano posteriore dell'auto, perché era
lì che si trovava il motore, e ve la tenni appoggiata per qualche secondo. Era
freddo.
"Sono in
casa" sussurrò Mario.
"Non è detto"
risposi. "Secondo me non c'è nessuno. Questo catorcio di sicuro è stato rubato
e poi abbandonato qui. Forse torneranno per smontare qualche pezzo".
"E se tornano
adesso?" chiese Mario, che appariva sempre più preoccupato.
"Fifa?" gli
domandai, prendendomi una piccola rivincita.
"Figurati"
rispose lui con voce incerta.
"Se tornano lo
faranno stasera, all'imbrunire, o chissà quando. Magari non verrà mai nessuno e
lasceranno la macchina ad arrugginire. Non c'è alcun pericolo. Andiamo".
"Dove?"
chiese il mio amico, allarmato.
"Dentro"
dissi, cercando di apparire sicuro.
"Non tiriamo ai
vetri?"
"Dopo.
Vieni".
Raggiungemmo la
facciata principale dell'abitazione e ci avvicinammo con circospezione alla
porta d'ingresso. Notai con soddisfazione che anche questa era solo accostata.
"Perché non è
chiusa?" domandò Mario.
"Non lo so"
dissi. "Forse non lo è mai stata, oppure qualche curioso voleva vedere che
cosa è rimasto dentro, o intendeva rubare qualcosa".
"Entriamo"
proposi. "Diamo un'occhiata veloce e poi ce ne andiamo".
Mario appariva un po'
riluttante. Alla fine annuì.
"Però facciamo in
fretta" disse.
Sempre senza fare
rumore, scostammo la porta ed entrammo.
L'interno della casa
era in penombra. Ci trovammo in una grande cucina, l'unico ambiente del piano
terra dell'abitazione. Tutto era rimasto come quando tra quelle mura ci viveva
Pina dei gatti. I mobili erano grandi e scuri, ricoperti di polvere bianca.
Nell'aria c'era odore di chiuso e di muffa. Stavamo per terminare la nostra
frettolosa esplorazione quando notammo qualcosa che ci colpì. E che ci fece
paura.
Sul vecchio divano di
cuoio marrone era appoggiata una borsa. Si trattava di un borsone sportivo, di
colore verde scuro. Io e Mario ci scambiammo uno sguardo preoccupato poi,
spinti dalla curiosità, ci avvicinammo. La borsa era in parte aperta. Afferrai
la linguetta della cerniera e la aprii del tutto.
Mario sbarrò gli occhi.
"Che cosa stai
facendo?" mi bisbigliò.
"Voglio
vedere" sussurrai.
Scostai i lembi del
borsone. E rimasi deluso. Al suo interno c'erano dei vestiti: un paio di
pantaloni, una camicia con delle macchie scure, un berretto di lana, dei
guanti. Sul fondo, un paio di scarpe.
"Andiamo via"
disse Mario.
Annuii, ma proprio in
quell'istante mi sembrò di udire uno strano rumore provenire dal piano di sopra.
Anche il mio amico lo aveva sentito. Mi prese per un braccio e cercò di
trascinarmi verso l'uscita. Mi liberai con uno strattone, gli feci segno di non
dire nulla.
"Vado a
vedere" dissi. "Sarà un gatto".
Mario scosse più volte
il capo. Indicò di nuovo, con gli occhi, la porta, ma non riuscì a farmi
cambiare idea. Quando la curiosità mi assaliva non c'era verso di resistere. Mi
avvicinai alla scala.
"Fai in fretta, io
ti copro" mi disse Mario sfoderando la fionda e caricandola con un grosso
ciottolo.
"Fifone" gli
mimai con le labbra, poi iniziai a salire. Avanzai sui gradini di pietra con
attenzione, cercando di non fare il minimo rumore. Arrivai sul pianerottolo e
vidi che la porta della stanza da letto era aperta. Adesso sentivo in modo
chiaro quel rumore che prima avevo appena percepito. Era un respiro, un respiro
pesante, quasi affannato. All'istante compresi che si trattava di qualcuno che
stava dormendo, anzi russando. Ancora una volta fu il desiderio di sapere a
prevalere, anche se le mie viscere stavano ribollendo per la paura. Mi
affacciai.
L'uomo disteso sul nudo
materasso indossava soltanto una canottiera e un paio di enormi mutande
bianche. Riuscivo a scorgere molto bene la sua figura addormentata poiché
alcune lame di luce filtravano dalle persiane appena socchiuse. Era voltato su
un fianco, e teneva una mano sotto la testa. Ai piedi del letto c'era una
bottiglia di Stock 84 piena a metà. Ecco perché il sonno dell'uomo era così
pesante: era completamente sbronzo. Proprio mentre stavo per tornare indietro
il mio sguardo cadde sul comodino. Sul ripiano c'era una pistola. Compresi
subito che si trattava di una vera pistola. In apparenza non era molto diversa
da quelle che usavamo io e miei amici per giocare. Tuttavia, a differenza delle
nostre, quell'arma aveva un'aria cupa e minacciosa.
Non so perché lo feci,
e anche a distanza di tanti anni non riesco a darmi una spiegazione razionale.
Avanzando in punta di piedi mi accostai al comodino e presi l'arma, afferrandola
per la canna Rimasi sorpreso dal suo peso. L'uomo addormentato emise uno strano
sbuffo. Ebbi l'impressione che i miei capelli si rizzassero sulla nuca. Senza
più badare a non fare rumore, mi precipitai verso la scala, sempre con la
pistola in mano. Mentre scendevo i gradini a due per volta, rischiando di
cadere a causa della scarsa luce, mi sembrò di udire del tramestio in cucina.
Quando vi sbucai andai a sbattere contro le gambe di un uomo in divisa. Era un
carabiniere. Lui mi bloccò afferrandomi per le spalle, poi scorse la pistola e
ma la strappò di mano. Altri carabinieri entrarono in casa, salirono al piano
di sopra. Di Mario non c'era traccia, lo avevano fatto uscire. Il militare mi
trascinò fuori, sempre scuotendo il capo. Non disse nulla, ma sul suo volto
c'era l'ombra di un sorriso. A me piace pensare che quel ragazzo, perché si
trattava di un ragazzo, avrebbe voluto dirmi: "Non lo dovevi fare, ma sei
stato bravo, davvero bravo".
Ecco come terminò la stagione
magica della mia vita.
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