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domenica 19 febbraio 2017

EVASIONE



Ho trascorso più di vent'anni al gabbio, e non è ancora finita. Sono andato dentro per una sciocchezza, se di sciocchezza si può parlare quando si tratta di un duplice omicidio. Piano, non correte, non arrivate subito a frettolose conclusioni, perché adesso vi spiego. Per prima cosa dirò che nel mio caso non si è trattato affatto di un errore giudiziario. Insomma, sono colpevole del delitto che mi è stato attribuito anche se non ne sono stato l'esecutore materiale. Semplice complicità, o concorso, come disse il pubblico ministero, quel bastardo. E allora perché mi lamento? Ho commesso un crimine, sono stato pizzicato e giustamente condannato. Punto. Il fatto è che a quella rapina io non dovevo partecipare. È vero, ne ero a conoscenza, avevo contribuito a progettarla, ma io quel giorno non avrei dovuto esserci. All'ultimo momento mi ero tirato fuori perché non ne ero del tutto convinto. Alla fine si era deciso che sarebbero andati Emanuele e Filiberto, loro due da soli. Destino volle che, proprio quella mattina, Emanuele cadde mentre si faceva la doccia e si frantumò la mano. E si trattava della mano destra, proprio quella con cui impugnava la pistola. Il mio socio Filiberto, disperato, mi fece una scampanellata e mi propose di scendere in campo. Così, all'ultimo momento. D'accordo, ero pur sempre la riserva, e dunque accettai per senso del dovere, per pura lealtà nei confronti della squadra. Compagine che si presentò in banca rimaneggiata e in ritardo. E in grande affanno. Tutto andò storto. Il cassiere si mise a fare i capricci. Non ne voleva assolutamente sapere di mollare la grana. Alcuni clienti ci dissero di spicciarci perché avevano fretta. Il buon Filiberto, alla fine, si innervosì. Cacciò fuori il ferro per mettere un po' d'ordine e, non si sa come, ancora prima che lo spianasse partirono in rapida successione alcuni colpi. I primi due seccarono il cassiere ponendo fine alla sua crisi isterica; un altro, dopo aver allegramente rimbalzato qua e là, andò a incocciare nel testone di un amministratore di condominio. Risultato finale: due a zero per noi, ma in queste competizioni chi segna perde. Non avevo avuto il tempo di fare o di dire nulla e mi ritrovavo già sconfitto. La fuga fu messa in pratica senza grande convinzione. Ci beccarono dopo mezz'ora, mentre correvamo ormai senza fiato attraverso un campo di grano. Avevamo dovuto abbandonare l'auto perché si era guastata. Quando la sfiga ti perseguita non c'è nulla da fare. Processo, condanna a trent'anni di reclusione e palla al centro
In carcere, si sa, accadono brutte cose. Soprattutto quando sei novellino. All'epoca, e adesso ancora meno, non ero per niente piacente, tuttavia ero giovane. A quelle due vecchie checche in calore ciò era più che sufficiente. Quelle mica si soffermavano ad ammirare la delicatezza dei lineamenti del volto o il colore degli occhi, quelle puntavano a ben altro. Mi si avvicinarono già il primo giorno, nel locale attiguo a quello delle docce. Di guardie non c'era traccia, e gli altri detenuti si allontanarono con discrezione. Potrei raccontarvi che affrontai quegli energumeni minacciandoli con uno sguardo freddo e spietato, mettendoli in fuga e riempiendo di calci quei loro culi grossi e flosci. Invece non andò così. Mi misi a frignare come un vitello, li pregai e li implorai, ma non ci fu nulla da fare. A essere bersagliato fu il mio, di didietro, e non fu trattato a pedate ma con strumenti ben più sofisticati. Quella fu la prima volta, ma a quella ne seguirono molte altre, finché quasi mi abituai. In ogni caso, quando fui ormai avvezzo a quella pratica per me del tutto nuova, i due persero interesse per il sottoscritto. Era stato appena ingabbiato un giovincello, un ladro d'auto, che portava lunghi boccoli biondi. Non aggiungo altro.
Siccome mi lasciarono tranquillo, cominciai a pensare e a ripensare a un modo per lasciare il gabbio. Insomma, mi concentrai sulla possibile evasione. Da quella prigione, nel corso degli ultimi anni, non era mai scappato nessuno. E, in un primo momento, non ci riuscii neppure io. Tutti mi dicevano che l'unica maniera sicura di uscire dal carcere era di farlo con i piedi davanti. In breve, suicidandosi. L'idea non mi allettava più di tanto, comunque cominciai a meditarci sopra. Tanto di tempo ne avevo. Un buon sistema per togliersi dalle spese sarebbe stato quello di procurarsi un oggetto tagliente - in carcere non era difficile farlo - e di tranciarsi le vene dei polsi o, meglio ancora, quello di sgozzarsi. Però a me la vista del sangue faceva impressione, in special modo se quel sangue era il mio. Esaminai alternative meno cruente. Edmondo, un ergastolano, mi consigliò il metodo del sacchetto di plastica. Ci pensai alcuni mesi, e alla fine conclusi che morire soffocato per mia stessa mano non era un buon sistema. E poi soffrivo di una leggera forma di claustrofobia, e l'idea di trascorrere un po' di tempo, quello necessario, con la capoccia rinchiusa in un sacchetto del supermercato mi provocava ansia. Il suicidio ideale per me era uno soltanto, rapido e quasi del tutto indolore: gettarsi dal decimo piano e amen. Il fatto è che il carcere di piani ne aveva soltanto due, la mia cella era al primo e, in più, la finestra era stretta e dotata di robuste sbarre. Su quel fronte niente da fare, dunque.
Tra un pensiero e l'altro gli anni trascorsero, tanto che ormai all'evasione quasi non ci pensavo più. Finché venne quel giorno. Per via della mia buona condotta da un po' di tempo ero stato destinato alle pulizie degli uffici, compreso quello del direttore. Quel giorno quella carogna del dottor Arnaldi non c'era. A sorvegliarmi c'era una sola guardia la quale, ritenendomi del tutto inoffensivo, si andò ad accomodare a una scrivania del locale adiacente. Armato di scopa, secchio e stracci feci quel che dovevo fare, pulendo lucidando e lustrando. A un certo punto udii un sommesso russare provenire dall'ufficio vicino. Ci andai e trovai il secondino addormentato come un angioletto. Di colpo mi venne in mente una comica di Buster Keaton che avevo visto in televisione quando ero bamboccio. Per poco non mi misi a ridere al ricordo. Perché no? Mi posizionai alle spalle dell'uomo e, senza fare rumore, afferrai un pesante fermacarte di onice e glielo calai con forza sul cocuzzolo pelato. Il suo sonno divenne più profondo. Lo adagiai sul pavimento e poi lo spogliai. Poi gli legai un fazzoletto sulla bocca, strappai il filo del telefono e gli immobilizzai le mani. Quindi lo trascinai dentro a un armadio a muro. Indossai la sua divisa, che mi stava a pennello. Aspettai le undici, l'ora del cambio delle guardie, e uscii. Attraversai con noncuranza il cortile, facendo cenni di saluto ai secondini che entravano in servizio. Nessuno badò a me più di tanto. Ancora qualche passo e mi ritrovai fuori, dopo più di vent'anni. Davanti a me si stendeva una enorme spianata, tutt'attorno non scorgevo edifici ma soltanto spazio vuoto. Uno spazio enorme, infinito. Iniziai a sudare, poi i battiti del cuore accelerarono, mi sembrava di svenire. Non era vero che soffrivo di claustrofobia, come avevo sempre creduto, in realtà pativo di quell'altra cosa, la paura degli spazi aperti. Mi ero ammalato in prigione. Facendomi forza con le ultime energie rimaste, sempre più in affanno, raggiunsi il portone del carcere e suonai il campanello.

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