Ho trascorso più di
vent'anni al gabbio, e non è ancora finita. Sono andato dentro per una
sciocchezza, se di sciocchezza si può parlare quando si tratta di un duplice
omicidio. Piano, non correte, non arrivate subito a frettolose conclusioni,
perché adesso vi spiego. Per prima cosa dirò che nel mio caso non si è trattato
affatto di un errore giudiziario. Insomma, sono colpevole del delitto che mi è
stato attribuito anche se non ne sono stato l'esecutore materiale. Semplice
complicità, o concorso, come disse il pubblico ministero, quel bastardo. E
allora perché mi lamento? Ho commesso un crimine, sono stato pizzicato e
giustamente condannato. Punto. Il fatto è che a quella rapina io non dovevo
partecipare. È vero, ne ero a conoscenza, avevo contribuito a progettarla, ma
io quel giorno non avrei dovuto esserci. All'ultimo momento mi ero tirato fuori
perché non ne ero del tutto convinto. Alla fine si era deciso che sarebbero
andati Emanuele e Filiberto, loro due da soli. Destino volle che, proprio
quella mattina, Emanuele cadde mentre si faceva la doccia e si frantumò la
mano. E si trattava della mano destra, proprio quella con cui impugnava la
pistola. Il mio socio Filiberto, disperato, mi fece una scampanellata e mi
propose di scendere in campo. Così, all'ultimo momento. D'accordo, ero pur
sempre la riserva, e dunque accettai per senso del dovere, per pura lealtà nei
confronti della squadra. Compagine che si presentò in banca rimaneggiata e in
ritardo. E in grande affanno. Tutto andò storto. Il cassiere si mise a fare i
capricci. Non ne voleva assolutamente sapere di mollare la grana. Alcuni
clienti ci dissero di spicciarci perché avevano fretta. Il buon Filiberto, alla
fine, si innervosì. Cacciò fuori il ferro per mettere un po' d'ordine e, non si
sa come, ancora prima che lo spianasse partirono in rapida successione alcuni
colpi. I primi due seccarono il cassiere ponendo fine alla sua crisi isterica;
un altro, dopo aver allegramente rimbalzato qua e là, andò a incocciare nel
testone di un amministratore di condominio. Risultato finale: due a zero per
noi, ma in queste competizioni chi segna perde. Non avevo avuto il tempo di
fare o di dire nulla e mi ritrovavo già sconfitto. La fuga fu messa in pratica
senza grande convinzione. Ci beccarono dopo mezz'ora, mentre correvamo ormai
senza fiato attraverso un campo di grano. Avevamo dovuto abbandonare l'auto
perché si era guastata. Quando la sfiga ti perseguita non c'è nulla da fare.
Processo, condanna a trent'anni di reclusione e palla al centro
In carcere, si sa,
accadono brutte cose. Soprattutto quando sei novellino. All'epoca, e adesso
ancora meno, non ero per niente piacente, tuttavia ero giovane. A quelle due
vecchie checche in calore ciò era più che sufficiente. Quelle mica si soffermavano
ad ammirare la delicatezza dei lineamenti del volto o il colore degli occhi,
quelle puntavano a ben altro. Mi si avvicinarono già il primo giorno, nel
locale attiguo a quello delle docce. Di guardie non c'era traccia, e gli altri
detenuti si allontanarono con discrezione. Potrei raccontarvi che affrontai
quegli energumeni minacciandoli con uno sguardo freddo e spietato, mettendoli
in fuga e riempiendo di calci quei loro culi grossi e flosci. Invece non andò
così. Mi misi a frignare come un vitello, li pregai e li implorai, ma non ci fu
nulla da fare. A essere bersagliato fu il mio, di didietro, e non fu trattato a
pedate ma con strumenti ben più sofisticati. Quella fu la prima volta, ma a
quella ne seguirono molte altre, finché quasi mi abituai. In ogni caso, quando
fui ormai avvezzo a quella pratica per me del tutto nuova, i due persero
interesse per il sottoscritto. Era stato appena ingabbiato un giovincello, un
ladro d'auto, che portava lunghi boccoli biondi. Non aggiungo altro.
Siccome mi lasciarono
tranquillo, cominciai a pensare e a ripensare a un modo per lasciare il gabbio.
Insomma, mi concentrai sulla possibile evasione. Da quella prigione, nel corso
degli ultimi anni, non era mai scappato nessuno. E, in un primo momento, non ci
riuscii neppure io. Tutti mi dicevano che l'unica maniera sicura di uscire dal
carcere era di farlo con i piedi davanti. In breve, suicidandosi. L'idea non mi
allettava più di tanto, comunque cominciai a meditarci sopra. Tanto di tempo ne
avevo. Un buon sistema per togliersi dalle spese sarebbe stato quello di procurarsi
un oggetto tagliente - in carcere non era difficile farlo - e di tranciarsi le
vene dei polsi o, meglio ancora, quello di sgozzarsi. Però a me la vista del
sangue faceva impressione, in special modo se quel sangue era il mio. Esaminai
alternative meno cruente. Edmondo, un ergastolano, mi consigliò il metodo del
sacchetto di plastica. Ci pensai alcuni mesi, e alla fine conclusi che morire
soffocato per mia stessa mano non era un buon sistema. E poi soffrivo di una
leggera forma di claustrofobia, e l'idea di trascorrere un po' di tempo, quello
necessario, con la capoccia rinchiusa in un sacchetto del supermercato mi
provocava ansia. Il suicidio ideale per me era uno soltanto, rapido e quasi del
tutto indolore: gettarsi dal decimo piano e amen. Il fatto è che il carcere di
piani ne aveva soltanto due, la mia cella era al primo e, in più, la finestra
era stretta e dotata di robuste sbarre. Su quel fronte niente da fare, dunque.
Tra un pensiero e
l'altro gli anni trascorsero, tanto che ormai all'evasione quasi non ci pensavo
più. Finché venne quel giorno. Per via della mia buona condotta da un po' di
tempo ero stato destinato alle pulizie degli uffici, compreso quello del direttore.
Quel giorno quella carogna del dottor Arnaldi non c'era. A sorvegliarmi c'era
una sola guardia la quale, ritenendomi del tutto inoffensivo, si andò ad
accomodare a una scrivania del locale adiacente. Armato di scopa, secchio e
stracci feci quel che dovevo fare, pulendo lucidando e lustrando. A un certo
punto udii un sommesso russare provenire dall'ufficio vicino. Ci andai e trovai
il secondino addormentato come un angioletto. Di colpo mi venne in mente una
comica di Buster Keaton che avevo visto in televisione quando ero bamboccio.
Per poco non mi misi a ridere al ricordo. Perché no? Mi posizionai alle spalle
dell'uomo e, senza fare rumore, afferrai un pesante fermacarte di onice e
glielo calai con forza sul cocuzzolo pelato. Il suo sonno divenne più profondo.
Lo adagiai sul pavimento e poi lo spogliai. Poi gli legai un fazzoletto sulla
bocca, strappai il filo del telefono e gli immobilizzai le mani. Quindi lo
trascinai dentro a un armadio a muro. Indossai la sua divisa, che mi stava a
pennello. Aspettai le undici, l'ora del cambio delle guardie, e uscii.
Attraversai con noncuranza il cortile, facendo cenni di saluto ai secondini che
entravano in servizio. Nessuno badò a me più di tanto. Ancora qualche passo e
mi ritrovai fuori, dopo più di vent'anni. Davanti a me si stendeva una enorme
spianata, tutt'attorno non scorgevo edifici ma soltanto spazio vuoto. Uno
spazio enorme, infinito. Iniziai a sudare, poi i battiti del cuore
accelerarono, mi sembrava di svenire. Non era vero
che soffrivo di claustrofobia, come avevo sempre creduto, in realtà pativo di
quell'altra cosa, la paura degli spazi aperti. Mi ero ammalato in prigione. Facendomi
forza con le ultime energie rimaste, sempre più in affanno, raggiunsi il
portone del carcere e suonai il campanello.
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