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martedì 23 luglio 2013

MAGNÌN SUL TETTO CHE SCOTTA


L’unica possibilità di ripararsi dal caldo torrido era quella di stare rintanati all’interno dei freschi locali dell’edicola-osteria di Albino, seduti al solito tavolo nell’angolo a bere vino. Magnìn e i suoi amici erano convinti che soltanto quella magica bevanda potesse combattere l’arsura provocata dalla canicola, così come lo stesso ambrato liquido, nei mesi invernali, riuscisse a donare al corpo quel languido tepore così dolce da godere in compagnia. Insomma, su tale argomento le convinzioni erano del tutto unanimi: il vino era adatto a tutte le stagioni. Punto.
Magnìn, il figlio dello stagnino, passò la bottiglia a  Dolfo il camionista, il quale la fece scorrere verso Giors. Quest’ultimo ritenne troppo macchinoso manovrare la boccia per riempire il bicchiere e la portò direttamente alle labbra ormai violacee. Enorme fu la sua sorpresa, e la conseguente angoscia, quando dal collo del recipiente stillò una unica goccia che andò a solleticargli la bramosa lingua. Lanciò un urlo disperato.
“Albino! Un litro! Presto!”
Il povero Giors aveva gli occhi fuori dalle orbite, e non riusciva proprio a nascondere l’enorme preoccupazione. Stava rischiando di morire di sete da un momento all’altro.
Albino, il corpulento oste, accorse prontamente zampettando sui suoi minuscoli piedi, che parevano inadatti a sostenerlo ma che invece gli permettevano addirittura di correre. Quando c’era di mezzo un’emergenza,  e quella di sicuro lo era, non ci si poteva abbandonare a eccessivi indugi.
“Ecco, prendi” disse Albino con la sua vocetta sottile e sempre gentile porgendo la bottiglia a Giors il quale, dopo alcune robuste sorsate, riprese colore e si rianimò.
“Non fatemi mai più uno scherzo del genere!” disse Giors all’indirizzo di Magnìn e Dolfo, che stavano ancora sogghignando.
“Dolfo, niente lavoro oggi?” domandò Albino. Un interrogativo del tutto retorico, naturalmente. Tutti sapevano che il camionista non lavorava quasi mai.
Dolfo assunse un’espressione afflitta e addolorata.
“Il camion…” sussurrò.
“Come?”
“Il camion… è ammalato” completò finalmente Dolfo con tono grave.
Un’espressione di somma dolenza si disegnò sui volti dei compari. Albino si abbassò verso il camionista.
“È grave?” chiese. L’altro annuì.
“Il semiasse. Ne avrà per un po’…”
Tutti annuirono, compunti.
“Lo hanno ingessato?” domandò Luigino, che proprio in quel momento aveva fatto il suo ingresso nell’edicola-osteria e aveva colto le ultime parole scambiate dagli amici. Dolfo scosse il testone.
“No, però gli hanno detto di stare immobile a lungo.”
“Te l’avevo detto di prendere un camion tedesco. Sono più robusti, sono fatti di roba più buona” sentenziò Luigino che, prima di sedersi, ordinò ad Albino un bicchierino di liquore alla prugna. Poi frugò nella logora borsa di cuoio ed estrasse una bottiglia di latte che posò sul tavolo.
Tutti lo guardarono stupiti.
“Sei andato a lavorare con questo caldo?” domandarono quasi in coro.
“Ero stufo di stare a casa, mia madre non mi lascia bere” disse Luigino. La spaventosa severità dell’anziana genitrice dell’amico era ben conosciuta. E temuta.
“Bravo, hai fatto bene” disse Giors. “Non ti devi far comandare da tua madre!”
Luigino portò il cicchetto alle labbra, lo svuotò tutto di un fiato e poi fece schioccare la lingua.
“Non ho paura di mia madre, ma della sua scopa” disse.
“Toglimi una curiosità” aggiunse Giors. “Come fai a scolarti in quel modo il liquore alla prugna? Quanti gradi sono? Cinquanta?”
“È tutto bruciato, ormai. Dentro, dico” intervenne Dolfo.
Luigino confermò con un cenno del capo, compiaciuto. Poi chiamò l’oste, che in quel momento era impegnato al banco dei giornali.
“Albino, lo vuoi il latte per il gatto? Me l’hanno dato in fabbrica.”
Luigino lavorava in una fabbrica tossica. I proprietari, autentici criminali, distribuivano dosi di latte agli operai assicurandoli in maniera ingannevole che quella bevanda avrebbe attenuato, se non eliminato del tutto, gli effetti velenosi delle sostanze maneggiate senza alcuna precauzione.
Albino si avvicinò al tavolo e Luigino gli porse la bottiglia di latte.
“Tieni.” L’oste arrossì.
“Fuffi non prende latte. Sapete, l’ho abituato a bere vino…” farfugliò imbarazzato.
Magnìn allora afferrò la bottiglia e la gettò nella spazzatura.
“Non vorrei mai che qualcuno lo bevesse per sbaglio e si sentisse male” disse il figlio dello stagnino. E tutti i presenti approvarono, molto preoccupati.
All’improvviso dall’ingresso si udì un gran trambusto. Un uomo, ansante e trafelato, si precipitò all’interno del locale e si lasciò cadere su una sedia vuota. Era tutto sudato.
“Romualdo!” esclamarono tutti insieme i presenti.
“Presto, da bere. Subito!” ordinò Magnìn, imperioso. La sua voce aveva la freddezza di quella di un chirurgo impegnato in una operazione a cuore aperto.
Romualdo fu subito soccorso e riuscì così a ritrovare un filo di voce.
“Grazie… grazie” sussurrò riconoscente tra una sorsata e l’altra.
“Sei pazzo?” gli domandò Giors. “E se ti scopre tua moglie?”
“Le ho detto che sarei andato a comprare del concime alla cooperativa agricola. E poi a prendere il giornale.”
“E dov’è il concime?” chiese Dolfo.
“Eh? Quale concime?” rispose Romualdo, già in stato confusionale. Il vino stava cominciando a fare effetto, per sua buona sorte.
Giors mise mano al portafoglio.
“Albino, vai a prendere il giornale. E aggiungi anche Stop, altrimenti Romualdo sarà senza alibi e quella vipera della moglie lo riempirà di botte.”
L’oste si diresse di corsa verso il locale dell’edicola.
Magnìn si accese con gesti lenti una sigarette delle sue, senza filtro, poi scrutò a lungo l’amico.
“Perché hai fatto una cosa del genere?” lo interrogò. “Non potevi bere a casa?”
Dolfo sussultò, come percorso da una scarica elettrica.
“Come? A casa può bere?”
Romualdo ritrovò un briciolo di lucidità e riuscì a rispondere.
“Certo che a casa posso bere! Mia moglie dice che se bevo il mio vino non mi ubriaco.”
“È vero?”
“Assolutamente no” rispose Romualdo. “Sono sbronzo dalla mattina alla sera.” Tutti tirarono un sospiro di sollievo. L’onore del vino di Romualdo era salvo.
Albino infilò nella cintura dei pantaloni del poveretto il quotidiano e la rivista, poi lo fece alzare e gli diede una leggera spinta in direzione della porta.
“Vai adesso, sbrigati. E ricorda di dire a tua moglie che quando sei uscito di casa eri già ciucco. Ti crederà di sicuro.”
L’altro annuì, ma era poco convinto, poi in qualche modo fu capace di uscire dal locale.
“Riuscirà a trovare la strada per tornare a casa?” domandò Giors, un po’ in ansia.
“Sicuro” disse Luigino, che era già al secondo bicchierino di liquore alla prugna. “Ha una bicicletta tedesca. Quelle non si perdono mai.”
Al che Dolfo, tignoso, mise in dubbio che il velocipede dell’amico fosse davvero di origine teutonica.
“Ti dico che è tedesca!” ribadì con foga Luigino.
Magnìn bloccò la discussione sul nascere sferrando un violento pugno sul tavolo. I bicchieri sobbalzarono, Giors corse ad abbracciare la bottiglia del vino per impedire che si rovesciasse. Se la strinse al petto con appassionata tenerezza. Albino, vedendo ciò, per un attimo fu colto dalla commozione. L’oste era grande e grosso ma molto sentimentale.
“Adesso vado a lavorare” disse Magnìn.
“Con questo caldo?” domandò Dolfo, atterrito. Per la cronaca lui non lavorava neppure quando il clima era fresco.
“Ho finito i soldi” dichiarò il figlio dello stagnino. “E dunque mi tocca.”
“Che lavoro devi fare?” chiese Giors. La domanda era del tutto pertinente, dal momento che Magnìn, quando ne aveva necessità, accettava qualsiasi lavoro. Ed era in grado di svolgerli tutti nel migliore dei modi. O quasi.
“Ho bisogno di un aiutante” aggiunse Magnìn, rivolto ai presenti. Tutti si nascosero dietro al bicchiere.
Magnìn scosse il capo, sconsolato, leccò con cura una sigaretta e poi la infilò tra le labbra. Azionò la macchinetta a benzina e rifletté un attimo.
“Allora chiamatemi Gelu” disse infine, ormai avvolto in una nube di fumo azzurro. Albino scattò. I comandi di Magnìn erano legge.
Gelu era fuori e, nonostante il gran caldo, se ne stava seduto tutto solo sotto il sole rovente. In verità a fargli compagnia c’era una bottiglia da un litro, ormai quasi del tutto prosciugata. L’uomo era alto e secco, con la pelle scura e con arti smisuratamente lunghi. Portava sempre, sia in estate che durante l’inverno, un cappello di paglia calato sugli occhi. E fumava soltanto le sue sigarette, quelle che si fabbricava personalmente utilizzando un tabacco molto forte. Gelu non aveva un lavoro stabile. Spesso aiutava l’uno o l’altro del paese, facendo l’agricoltore, il boscaiolo oppure il manovale nell’edilizia. Quel poco che guadagnava gli bastava per vivere perché le sue esigenze erano veramente minime. Non si era mai sposato e non aveva figli, mangiato lui mangiato tutti. La sua passione era la raccolta dei funghi. Era un autentico specialista, conosceva tutti i luoghi migliori e non li rivelava mai a nessuno. Si sarebbe di sicuro portato quei suoi segreti nella tomba. Durante la stagione adatta non si recava a funghi con un cestino o una piccola sporta, come facevano tutti gli altri raccoglitori. No, lui ci andava con un carretto, che quasi sempre riusciva a riempire. Poi lo attaccava alla sua vecchia bicicletta e portava quei bellissimi funghi ad amici e conoscenti e non accettava mai denaro in cambio di quel ricco e saporito dono. Al più accettava qualche bicchiere di vino, per smorzare quella sete che sempre lo affliggeva.
“Gelu! Ti vuole Magnìn!” gridò Albino dalla soglia della sua edicola-osteria.
L’altro annuì con un cenno impercettibile del capo, perché era un tipo di poche parole, scolò l’ultimo bicchiere e poi si alzò, dopo essersi spolverato i suoi soliti pantaloni blu da lavoro. Si presentò al cospetto di Magnìn.
“Si può sapere che lavoro devi fare?” chiese per l’ennesima volta Dolfo, rivolto al figlio dello stagnino. Il camionista era più curioso di una gazza. L’altro ancora una volta non rispose ma parlò direttamente a Gelu.
“Ti va di darmi una mano a pulire un camino?”
“Pronti” rispose l’uomo dalle lunghe braccia con la sua voce bassa e nasale.
“Bene, andiamo a prendere la moto”. I due uscirono, entrambi un po’ traballanti.
Gelu si accomodò sul sellino posteriore ma le sue gambe erano talmente lunghe che toccavano terra. Non sapeva proprio dove metterle. Un vero problema che tuttavia non angustiò Magnìn più di tanto. Disse all’amico di sistemare quelle appendici infinite sulle sue spalle, mise in moto scalciando come un forsennato e partì come una furia facendo impennare la sua Itom Sirio di colore rosso fiammante. Gelu, in effetti, stava un po’ scomodo ma non si lamentò. Non lo faceva mai, accettava qualsiasi cosa con pazienza e rassegnazione.
Il centauro e il suo aggrovigliato passeggero giunsero a destinazione in un attimo. Magnìn, come sempre, aveva tirato il collo alla sua moto che però aveva risposto alla grande. I due smontarono e il figlio dello stagnino suonò il campanello di una graziosa villetta.
Li accolse una donna ancora giovane, vestita con un leggero abito di cotonina.
“Camino” si limitò a pronunciare Magnìn. Quando si trovava di fronte una donna era sempre in difficoltà. E ancora di più se la femmina era piacente, come in questo caso. Si sa, le donne portano soltanto guai, e più se ne sta alla larga più si vive tranquilli. Magnìn aderiva in pieno a tale filosofia, e costituiva la ragione principale per la quale non si era mai sposato.  
“Come?” domandò la signora aprendo il cancello.
“Pulire. Camino” bofonchiò Magnìn. Gelu, da parte sua, si era calato ancora di più il cappello sul viso, tanto che di lui si intravedeva solo la punta del naso pronunciato e la sottile striscia delle labbra. Quell’uomo lì era molto timido.
“Ah! Prego, entrate” li invitò la donna. I due ubbidirono. Magnìn, dopo l’iniziale esitazione, ritrovò a poco a poco l’abituale baldanza.
“C’è dell’acqua?” domandò alla donna con un sorriso furbo.
“Acqua?”
“Intendo dire acqua corrente. Tipo un fosso o qualcosa del genere.”
“C’è un piccolo canale che scorre sul retro della casa…”
“Perfetto” disse Magnìn. Poi tornò verso la moto. Frugò in una delle capienti sacche laterali ed estrasse un bottiglione di vino da due litri. Di corsa si diresse verso il luogo che gli era stato indicato e mise a mollo la bottiglia assicurandola a un pezzo di spago. In tal modo sarebbe stata al fresco. Poi tornò da Gelu, che nel frattempo era rimasto immobile di fronte alla cliente. Sembrava una statua.
“Cominciamo” disse Magnìn all’aiutante.
“Ma… e gli attrezzi?” obiettò la giovane signora.
“Quali attrezzi?”
“Non so… la scala, e il resto. Oppure intendete salire sul tetto passando dall’interno?”
“Noi non entriamo mai in casa. Non vogliamo sporcare” disse Magnìn, quasi offeso. Gelu annuì.
“E come farete a salire?”
“Non c’è problema” rassicurò la donna il figlio dello stagnino. Aveva adocchiato un grosso tiglio in prossimità di un angolo dell’edificio. Lo indicò all’amico.
“Forza Gelu, inizia ad andare su.”
L’altro non se lo fece ripetere. Abbracciò il tronco e in un attimo fu quasi in cima all’albero. Fece un piccolo balzo e fu sul tetto. Peggio di una scimmia. Magnìn ebbe qualche difficoltà in più. Il fusto era molto largo e lui non disponeva di lunghe leve come quelle dell’amico. Si bloccò ed estrasse una sigaretta da un pacchetto sgualcito. Lisciò bene la cicca con le dita nodose, l’accese e poi, fumando come una ciminiera, riuscì finalmente ad arrampicarsi. I due spazzacamini improvvisati si ritrovarono così sul tetto. Le tegole erano roventi ma, nonostante ciò, Gulu si era sfilato gli scarponi e camminava a piedi nudi. Piedi le cui piante erano più spesse del cuoio. La donna li guardava dal basso non nascondendo una certa apprensione. Dopo poco più di cinque minuti Magnìn e il suo strano aiutante ridiscesero.
“Avete dimenticato qualcosa? C’è qualche problema?” domandò loro la signora.
“Non si preoccupi, tutto a posto” la tranquillizzò Magnìn. Poi, seguito come un’ombra da Gelu, si diresse verso il fosso. Si passarono più volte il bottiglione, ingollando enormi sorsate di nettare, che stava iniziando a rinfrescarsi. Quindi, sotto lo sguardo strabiliato della giovane donna, risalirono sul tetto. Magnìn aveva approfittato della pausa ristoratrice per andare a recuperare nelle capienti sacche della moto un rotolo di corda. Se lo portava sempre dietro. Sudati e ansimanti i due soci ripresero, o meglio cominciarono, il loro lavoro.
“Ascolta, Gelu” disse il figlio dello stagnino. “Visto che sei magro ti calo nel camino con la fune e tu cerca di pulire come puoi. Usa le mani, i piedi o cosa preferisci.” Gelu annuì, serio. Aveva capito che cosa doveva fare. Magnìn legò alla vita l’aiutante e lo calò lentamente nella canna fumaria. Dentro a quel budello il caldo era infernale e poi c’era polvere, tanta polvere. Non erano presenti grosse incrostazioni ma tanta fuliggine nera in sospensione. Gelu, mentre tentava affannosamente di pulire, ne aspirò una boccata. Era meno pesante del suo tabacco, considerò. Alla fine giunse alla base del caminetto. Udì la voce soffocata dell’amico.
“Riesci a resistere qualche minuto prima che ti tiri su? Mi è venuta una sete incredibile! Gelu mugugnò qualcosa, che Magnìn scambiò per una approvazione. Allora scese velocemente dal tetto, si scolò mezzo bottiglione di vino, che ora era piacevolmente fresco, e poi risalì sulla copertura con una certa fatica. Cominciava a vedere doppio e triplo. Afferrò il capo della fune, dopo averlo slegato dal punto dove l’aveva assicurato, e iniziò a tirare con forza. Con troppa forza. Fece un movimento brusco e inciampò su una tegola sconnessa. Scivolò giù dal tetto sempre reggendo la corda tra le mani. In basso la donna lanciò un urlo. Magnìn cadde nel vuoto, al rallentatore. A mano a mano che il figlio dello stagnino scendeva, dall’altra parte, dentro la canna fumaria, Gelu iniziava a risalire, facendo in tal modo da contrappeso. Magnìn si posò lentamente a terra, cadendo in piedi, proprio come i gatti. L’amico si ritrovò invece in cima al camino. Nel risalire aveva dato suo malgrado un’altra buona ripassata alle pareti della canna fumaria, che adesso era bella pulita. Un ottimo lavoro, considerò l’uomo dai lunghi arti. Si slegò la corda e scese a terra a sua volta. Si piazzò di fianco all’amico, orgoglioso.
“Ecco, abbiamo finito” stava dicendo Magnìn alla donna, che in volto aveva ancora un’espressione sconvolta e quasi non riusciva a parlare. Poi, constatando che entrambi i lavoratori godevano di buona salute, finalmente riuscì a calmarsi. Si rivolse a Gelu.
“Signore, vuole darsi una ripulita?”
Gelu la guardò con aria interrogativa.
“La signora sta dicendo che sei un po’ sporco” tradusse Magnìn.
“Sono sporco?” chiese Gelu.
Magnìn lo squadrò bene, poi scrollò le spalle.
“Soltanto un po’ di polvere” disse. “Andando in moto andrà via”. Gelu era completamente annerito. Di lui si intravedeva soltanto il bianco degli occhi.
La donna si apprestò a pagare i due per il lavoro svolto.
“Mi fate la fattura oppure…”

“Mica siamo dei maghi” bofonchiò Gelu. Magnìn lo zittì con uno sguardo torvo e poi scosse il capo. La donna comprese ed estrasse dal borsellino alcune banconote. Lui prese il denaro e ne diede subito la metà all’amico che lo ficcò in tasca. I biglietti si annerirono all’istante, ma per bere qualche volta sarebbero andati bene lo stesso. Sicuro.

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