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sabato 22 giugno 2013

MAGNÌN SOTTO LA PIOGGIA


Pioveva ormai da giorni e giorni. Nessuno, in paese, ricordava una simile primavera. Così umida, così triste e malinconica. Così tediosa. Tutto era umido e impregnato d’acqua, ogni cosa sapeva di muffa: gli ambienti delle case, gli oggetti, gli abiti delle persone. Un clima del genere non poteva che avere inevitabili ripercussioni sull’umore della gente, aumentandone a dismisura il grado di irritabilità.
Di conseguenza, anche l’atmosfera all’interno dei locali della Società Cooperativa, di solito piuttosto vivace, era invece cupa e pesante.
Quattro uomini erano seduti intorno a un tavolino. Tutti sospiravano, tirando profonde boccate dalle sigarette senza filtro e rendendo così l’aria irrespirabile. Di fronte a loro c’erano tre bottiglie di denso vino rosso e un bicchierino di liquore alla prugna.
Ferruccio, l’oste, si avvicinò al gruppo di amici. Tra le mani teneva uno strofinaccio lurido.
“Dicono che pioverà ancora per qualche giorno” li informò, sconsolato.
Dolfo, il corpulento camionista, picchiò un violento pugno sul tavolo. Bottiglie e bicchieri fecero un balzo e poi ricaddero, per miracolo, in piedi. Poi staccò una tremenda raffica di imprecazioni chiamando in causa madonne, santi, madri e sorelle.
“Oggi non lavori?” domandò Ferruccio. “Fai bene, le strade sono scivolose e pericolose” aggiunse, nel tentativo di calmarlo.
L’altro lo guardò, stupito.
“Il mio camion non sopporta l’acqua” disse, serio.
Nel sentire quella parola, acqua, tutti inorridirono disgustati. Quel termine immondo era proibito, nessuno doveva mai pronunciarlo.
Dolfo, imbarazzato, chiese scusa.
“E fa pure freddo” proseguì l’oste, con indifferenza, posando lo sguardo sul gruppo di amici. Magnìn, il figlio dello stagnino, nonché il capobanda, diede un’occhiata ai suoi abiti. Lui vestiva sempre allo stesso modo, tutto l’anno. Pantaloni di velluto a coste larghe, camicia e gilet. Al collo portava un foulard di seta rossa, utile per ripararlo dall’aria quando andava in moto. Luigino, seduto accanto, indossava invece un pesante maglione fatto da sua madre all’uncinetto. L’ometto, tutto pelle e ossa, aveva sempre freddo. Riusciva a scaldarsi soltanto dopo innumerevoli cicchetti del suo amato liquore alla prugna. Dolfo portava l’immancabile canottiera blu e pantaloni da lavoro. Ed era tutto sudato. Sergio era abbigliato in maniera normale: calzoni grigi ben stirati, camicia azzurra e pullover rosso fuoco.
“Se continuerà a piovere tutta la roba marcirà” disse quest’ultimo.
“Quale roba?” chiese Luigino.
“Ma come! La frutta e la verdura, e i prezzi aumenteranno” disse il socio.
Luigino scrollò le esili spalle. Erano almeno vent’anni che non mangiava né frutta né verdura. In verità lui non mangiava quasi nulla. Qualche acciuga in salsa verde, un po’ di formaggio grasso, pane e rafano, e nulla di più. Viveva grazie all’alcol che ingurgitava da mattino a sera. Gli era sufficiente.
“Ho sentito in televisione che gli albergatori si stanno lamentando. Con questo maltempo i turisti se ne stanno a casa” intervenne Sergio.
Magnìn lo guardò, torvo.
“E dov’è che dovrebbero andare questi turisti, come li chiami tu?” disse.
Sergio distolse lo sguardo poi, prima di rispondere, ingollò una robusta sorsata di vino.
“Al mare, per esempio…”
A queste parole tutti scoppiarono a ridere, compreso lo stesso Sergio. Nulla poteva essere considerato più comico dal gruppo di amici che pensare a gente nuda, con la pelle abbrustolita, alle prese con sdraio, ombrelloni, paletta e secchiello.
Dolfo, terminato di sghignazzare, rivolse gli occhi al soffitto, beato.
“Pensate se piovesse vino!” esclamò all’improvviso, abbandonandosi all’estasi.
Tutti, a tale pensiero, trattennero il fiato e furono percorsi da un piacevole brivido. Gli occhi di Dolfo si inumidirono. A dispetto dell’apparenza era un tipo molto sentimentale.
“Però la pioggia così intensa può provocare alluvioni” intervenne Ferruccio, cercando di riportare tutti alla realtà.
“Basta prendere le barche” sentenziò Luigino, porgendo all’oste il cicchetto da riempire. Gli amici assentirono. La lucida saggezza di quell'uomo era proverbiale.
Seguì un altro giro di bottiglie che, nel giro di poco tempo, furono scientificamente prosciugate. Dolfo sentiva sempre più caldo, non vedeva l’ora di uscire a fare qualcosa.
“Allora, oggi non si fa nulla?” domandò con finta indifferenza.
“Si potrebbe andare a lumache!” propose Sergio con entusiasmo.
Magnìn scosse il capo. Lui preferiva andare in cerca di funghi o, al più, a caccia di vipere.
“E poi che te ne fai delle lumache?” chiese all’amico.
“Per prima cosa le metto a spurgare…” iniziò l’altro, quindi non seppe come proseguire.
“E poi che fai, te le mangi?”
Sergio fece una smorfia. “Sei matto? Le lumache mi fanno schifo!”
Proposta bocciata, dunque. Magnìn divenne pensieroso, e subito il suo pessimo umore contagiò tutti gli altri. I quattro compari continuarono a bere, per cercare di stemperare il morale basso. Ferruccio, l’oste, passò sul tavolo lo straccio lercio e si diresse verso il bancone, richiamato dal suono della campanella della porta. Un giovane contadino era appena entrato nel bar-osteria, dopo aver parcheggiato il vecchio trattore. Indossava un cappello di paglia, una enorme mantella intrisa d’acqua e, ai piedi, portava degli stivaloni di gomma incrostati di letame. Ordinò una cedrata.
Sempre seduti al loro tavolo, Magnìn e la sua banda lo avevano notato.
“Avete visto Pietrino? Da quando ha avuto l’eredità ogni volta che viene qui sembra un pavone!” disse Sergio, sempre ben informato riguardo tutto ciò che accadeva in paese.
Luigino non reagì. Era come in trance, continuava a tenere gli occhi arrossati fissi sul bicchiere di bibita che era comparso sul bancone. Si sentì rivoltare le viscere. Quel giovane stolto si accingeva a bere pioggia, nient’altro che pioggia colorata e gassata. Un autentico sacrilegio!
“Quale ereditità?” domandò invece Dolfo, curioso.
“Non vi ricordate? Il mese scorso è mancato il padre.”
Magnìn annuì.
“Il padre però era una persona per bene. Beveva” affermò con aria solenne.
“Ha preso tanta roba? Soldi? Case?” incalzò Dolfo, notoriamente alquanto pettegolo.
“Impossibile che abbia preso qualcosa” intervenne Magnìn. “Il buon Carluccio, prima di tirare le cuoia, aveva fatto in pieno il suo dovere e si era bevuto tutto.”
Tutti alzarono i bicchieri in segno di rispetto.
“Magnìn ha ragione” confermò Sergio. “Pietrino però ha ereditato l’unico bene prezioso che ancora possedeva il vecchio Carluccio, pace all’anima sua!”
“Sarebbe?” chiese Dolfo.
“Ha preso il posto di suo padre come socio della Cooperativa. Purtroppo ciò è previsto dallo statuto.”
Seguirono commenti costernati. Indignati. Si trattava di un fatto incredibile, inaccettabile. Pietrino era un giovane per bene, ma il fatto che non bevesse lo rendeva, agli occhi dei quattro amici, una persona indegna, e non era possibile che ora occupasse un ruolo così delicato.
“Che tempi!” sbottò Dolfo.
“Già! Dove andremo a finire?” rincarò Sergio.
Magnìn, per scacciare quei foschi pensieri, decise di prendere l’iniziativa. Di scatto si alzò in piedi e inforcò gli occhiali dalle lenti affumicate. Si strinse il foulard al collo.
“Andiamo a giocare a bocce!” ordinò. Tutti lo imitarono, anche se si reggevano a stento in piedi. Era impossibile contraddire Magnìn, nessuno c’era mai riuscito. Tuttavia era doveroso provarci, e lo fece Dolfo con voce strascicata.
“Piove!” Si lamentò. “Ci bagneremo.”
Magnìn lo squadrò dal basso verso l’alto. Il camionista era grosso il doppio di lui, ma non possedeva neppure la minima parte del suo carisma.
“Ho detto che andiamo a giocare a bocce e così faremo” ribadì. “Tanto c’è la tettoia” Discussione conclusa, come sempre. I quattro si diressero verso uno stanzino nel quale riponevano l’attrezzatura da gioco. Si armarono e uscirono sotto la pioggia battente. L’unico ad attardarsi fu Luigino. Anche se pioveva, anche se faceva freddo, lui non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua abituale ed elegante tenuta da gioco. Dopo essersi tolto gli scarponi da bagnato si sfilò i pantaloni di vigogna e ne indossò un paio di tela leggera. Poi calzò delle scarpe di corda. Infine, a fatica, riuscì a infilarsi sopra il maglione, che gli arrivava alle ginocchia, il suo famoso camiciotto a righe. Completò l’operazione sistemando in un taschino posteriore dei calzoni la bacchetta telescopica per misurare i punti e nell’altro un panno giallo per strofinare le bocce. In una tasca anteriore trovò invece posto un pallino di riserva. Infine afferrò e soppesò la borsa contenente le sue sfere da competizione di bronzo luccicante e dal diametro ridotto, pesanti esattamente ottocentonovantacinque grammi. Luigino aveva le mani piccole. Finalmente pronto, uscì a sua volta nel cortile della Società Cooperativa, dove gli amici lo stavano aspettando già completamente inzuppati. Tra le pietre del selciato spuntavano qua e là ciuffi di muschio dal colore verde brillante. I quattro compari puntarono decisi verso il campo da bocce, dove trovarono altri giocatori già impegnati in una partita, e che all’istante smisero di giocare. Sgombrarono in fretta il campo, uno di loro passò il rullo e un altro spazzò il terreno con una grossa scopa di rami di melo intrecciati. Poi si sistemarono attorno al campo di gioco, incuranti del diluvio. Non volevano perdersi neppure un attimo dello spettacolo.
“Giochiamo io e Luigino contro voi due” stabilì Magnìn.
Dolfo protestò piagnucolando.
“Non vale! Il bocciatore e il puntatore più forti contro i più deboli. Non c’è storia!”
Magnìn osservò l’amico per un istante. Il figlio dello stagnino era un tipo testardo ma era pure un grande sportivo. Decise di concedere al camionista una possibilità. Luigino, dal canto suo, rimase imperturbabile. Era già concentrato sulla partita.
“Tiriamo a sorte?” suggerì Sergio, speranzoso.
Magnìn scosse il capo, fece schioccare le labbra, poi azionò la macchinetta a benzina e si accese una delle sue sigarette senza filtro. Notò con disapprovazione che la cicca era un po’ umida. Dedusse che il tabacco assorbe l’umidità, e di quella ce n’era davvero tanta.
“Facciamo così” disse dopo aver aspirato alcune boccate. “Chi tira la boccia più lontano può scegliere il socio.”
Nessuno ebbe qualcosa da ridire. Erano tutti entusiasti. Le idee di Magnìn erano sempre geniali. Soltanto Sergio manifestò un piccolo dubbio.
“Ma dove le tiriamo le bocce?” domandò.
Magnìn buttò il mozzicone, che toccò terra sfrigolando.
“Tiro libero” disse a bassa voce. E l’approvazione fu ancora una volta totale.
Tornarono nel cortile.
“Andate a chiamare Ferruccio” aggiunse il figlio dello stagnino. “A turno ci riparerà con l’ombrello.”
E l’oste arrivò reggendo un gigantesco parapioggia nero a due piazze. Ognuno dei quattro compari aveva in mano una boccia da allenamento, di quelle che Ferruccio metteva a disposizione dei clienti non abituali. Le preziose sfere da gara, truccate con il mercurio, erano state lasciate all’asciutto. Guai se si fossero bagnate! Avrebbero perso la loro sfolgorante lucentezza.
“Comincio io!” disse Sergio, deciso. Poi sporse la lingua, impugnò ben stretta la boccia e fece oscillare il braccio a pendolo. A un certo punto lanciò. La sfera, resa scivolosa dalla pioggia che continuava a cadere torrenziale, gli scappò di mano e andò a infrangere il vetro di una finestra del Salone della Musica.
“Come facciamo a misurare?” chiese Dolfo. Sergio si strinse nelle spalle.
“Sabato sera, quando i musici faranno le prove, la andrò a recuperare” disse infine il maldestro lanciatore, un po’ imbarazzato, rivolgendosi allo sbalordito Ferruccio.
“Dolfo, tocca a te!” disse Magnìn.
La boccia quasi sparì, affondata nell’enorme mano del camionista. Dolfo ruotò più volte il braccio, aumentando sempre di più la velocità, e alla fine mollò. La sfera assunse una traiettoria perfettamente verticale, si confuse con il grigio delle nuvole e tutti la persero di vista. Dopo alcuni lunghi istanti carichi di tensione la palla di metallo ricadde perforando l’ombrello di Ferruccio, sfiorando il grosso naso dell’oste e andando a conficcarsi nel terreno impregnato d’acqua. Tutti rimasero ammutoliti, tranne Magnìn e Luigino. Il primo si accese l’ennesima sigaretta, dopo averla prima leccata con estrema cura. L’altro, impassibile, estrasse la bacchetta telescopica e, stando in ginocchio, misurò il lancio di Dolfo.
“Due centimetri in lunghezza, sette in profondità” fu il suo preciso responso. Dolfo scosse il capoccione, insoddisfatto. Ferruccio, ancora pallido come un cadavere per il pericolo corso, non disse nulla. Si limitò a gettare a terra l’ombrello, ormai inservibile, e a rifugiarsi sotto il porticato. Proprio quando arrivò il turno di Luigino la pioggia aumentò ancora d’intensità. Un autentico diluvio, ma l’ometto con il camiciotto a righe non si lasciò intimidire dalla furia degli elementi. Sputò a terra, asciugò la boccia con il suo panno giallo, poi la impugnò di sottomano. Luigino era il migliore puntatore del paese, e non solo. In ogni suo lancio riusciva ad accostare la boccia a non più di un centimetro dal pallino. Spesso lo baciava. Era in grado di imprimere alle bocce direzioni impossibili, di farle saltare e curvare. Tuttavia adesso si trattava di usare la forza, e quella proprio non la possedeva, perché era di costituzione minuta. Allora scelse l’astuzia. Lanciò la boccia direttamente sulla strada, che in quel punto era in leggera pendenza. La palla di ferro prese un buon abbrivio, all’improvviso curvò, come per prodigio, e imboccò una ripida china, quella che conduceva verso la chiesa. E scomparve alla vista. Un volenteroso giovane, incurante del nubifragio, inforcò la bicicletta e si recò a verificare l’esito del tiro. Fu di ritorno dopo qualche minuto, tutto trafelato e completamente zuppo d’acqua.
“Ha preso in pieno il sacrestano che stava uscendo dalla chiesa!” gridò. “Sulla caviglia!” precisò.
Luigino annuì, infilò le mani in tasca e andò a mettersi al riparo. Aveva la gola secca, e ordinò a Ferruccio un bicchierino di liquore alla prugna. L’oste lo servì subito.
Magnìn prese posizione proprio in mezzo al cortile della Società Cooperativa. Naturalmente avrebbe potuto rinunciare alla sua prova. Luigino aveva vinto, e avrebbe sicuramente scelto lui come compagno per la partita. Tuttavia il figlio dello stagnino non era un tipo che rinunciava facilmente alle sfide. Era in gioco la sua reputazione. Che cosa avrebbero detto in paese se si fosse arreso senza lottare?

Magnìn era immobile, con la boccia in mano, un occhio socchiuso per prendere meglio la mira. Sembrava una statua. Nessuno osava parlare. Trascorse mezz’ora, poi un’ora, e lui non si muoveva. Gli portarono del vino, per riscaldarlo. Tentarono persino di accendergli una sigaretta, ma non ci riuscirono, poiché pioveva sempre più forte. e tirava vento. D’un tratto sopraggiunse un camion. Magnìn ne sbirciò la targa, e vide che era quella di un’altra provincia. Con un abile movimento del polso riuscì a gettare la boccia sul cassone del veicolo in corsa. Quella palla di ferro, prima di fermarsi, avrebbe percorso chissà quanti chilometri! Aveva vinto! I presenti applaudirono. Qualcuno si inchinò in segno di rispetto. Dolfo, esaltato per l’impresa dell’amico, ordinò da bere per tutti. Quindi il camionista lanciò un'occhiata alle nubi che si addensavano sempre di più, gonfie d'acqua a dismisura, si strizzò la canottiera e poi andò di corsa verso il campo da bocce. In fondo, che importava se non c’era il sole?  

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