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domenica 16 giugno 2013

MAGNÌN AL MATRIMONIO


Il corteo nuziale giunse strombazzando nella piazza di fronte alla chiesa. In coda c’erano due rombanti moto, tirate a lucido per l’occasione. Sulla prima c’era Magnìn, che trasportava sul sellino posteriore il corpulento Dolfo. L’altra era quella di Luigino, con il suo passeggero Aurelio Berta detto “Stringhini”.
Le automobili parcheggiarono in maniera selvaggia. I due centauri spensero il motore e arrivarono a destinazione a ruota libera. In gran fretta smontarono e issarono le moto sugli alti cavalletti.
“Sbrighiamoci, prima che non ci sia più posto!” urlò Dolfo, il camionista, che pareva un invasato.
Poi tutti e quattro gli amici si misero a correre. Non in direzione della chiesa, bensì verso l’edicola-osteria di Albino, che si trovava sull’altro lato della piazza. Entrarono e si sistemarono al solito tavolo, che per buona sorte era ancora libero. Nei giorni di matrimonio era sempre difficile trovare posto all’osteria, dal momento che in chiesa ci entravano solo donne e bambini e qualche parente degli sposi.
Magnìn, con un impercettibile cenno del capo, ordinò il primo litro della giornata. A Luigino, senza che ciò fosse stato richiesto, Albino servì il solito bicchierino di liquore alla prugna.
“Finalmente si beve!” esclamò Dolfo portando il bicchiere alle labbra con grande soddisfazione. Gli altri lo imitarono. La lunga traversata nel deserto finalmente aveva avuto termine.
Magnìn e la sua banda erano stati invitati al matrimonio del loro giovane compare Italo, che quel giorno aveva deciso di andarsi a impiccare. Il primo brindisi fu quindi alla sua salute, anche se gli sguardi degli amici erano molto addolorati. Luigino si limitò a scuotere il capo per esprimere la sua disapprovazione. Il vino, in ogni caso, calava senza tregua in quelle gole riarse. I quattro erano già stati al rinfresco alla cascina dello sposo, ma ne erano rimasti piuttosto delusi.
“Che gli è preso a Italo? Ci invita al ricevimento e poi ci fa bere soltanto acqua! Mai vista una roba del genere!” Stringhini era davvero disgustato.
“Guarda che quello che ti sei scolato era vermouth” lo corresse Dolfo, che era già ubriaco. Era grande e grosso ma reggeva lo spirito meno degli altri.
“Che cosa ho detto? Acqua!” ribadì l’altro, e tutti annuirono convinti. Anche lo stesso Stringhini, che era un tipo accomodante e facile da convincere.
“Forse era la sposa che voleva così. È una ragazza raffinata” intervenne con delicatezza Albino, l’oste dal fisico massiccio e dalla vocetta sottile. “Guardate! Sta arrivando adesso!”
Magnìn e gli altri si alzarono in piedi, senza abbandonare i bicchieri, che sembravano incollati alle loro mani, e sbirciarono attraverso la finestra.
Da una Fiat 1500 grigio scuro e lucidata a specchio scese la sposa accompagnata dal padre.
“Porco di un Giuda!” strepitò Dolfo. “È due volte il povero Italo!”
“Che madamùn!” convenne Stringhini, spaventato.
“Grossa è grossa…” analizzò Luigino con la consueta flemma sorseggiando il liquore.
Magnìn non disse nulla. Rabbrividì. Lui era allergico ai matrimoni, e soprattutto al suo. I quattro si risedettero, sapevano che la funzione sarebbe stata lunga e che c’era ancora parecchio tempo per dissetarsi.
“Come siete eleganti!” li adulò Albino. “Dei veri figurini!”
Luigino indossava l’abito che aveva portato alla cresima. Da allora l’ometto non era cresciuto molto, anche se pantaloni e maniche della giacca erano comunque un po’ corti. Magnìn aveva preso in prestito dal fratello “francese” un elegante abito scuro. Roba di lusso, e si vedeva. Al posto della cravatta però si era annodato al collo un foulard rosso, di seta. Utile per andare in moto perché riparava dall’aria. Stringhini vestiva uno spezzato molto attillato, calzoni blu e giacca color ruggine, che metteva ancora più in risalto la sua figura allampanata e secca. Dolfo, invece, si era messo il vestito del “suo” matrimonio, avvenuto quasi vent’anni prima. Da quel tempo lontano il camionista era un po’ ingrassato, di almeno venti chili, e quindi non c’era verso di abbottonare la giacca. E neppure la camicia, anche quella la stessa di quel giorno infausto. In più, sembrava avere avuto qualche problema con la sgargiante e fuori moda cravatta. Il nodo era enorme e dalla sua parte inferiore spuntava una misera striscia di stoffa lunga non più di dieci centimetri.
La cerimonia in chiesa purtroppo terminò e Magnìn e i suoi amici furono costretti ad alzarsi, un po’ traballanti, per andare ad accogliere gli sposi sul sagrato.
“Il riso! Preparate il riso!” sbraitarono alcuni indemoniati invitati.
Una signora tutta agghindata che pareva uno scherzo mise tra le mani di Magnìn un intero pacco di riso. Un chilo, valutò il figlio dello stagnino, il peso esatto di una delle sue bocce da gara. Naturalmente non si scomodò ad aprirlo. Lo soppesò un attimo e si limitò a scagliarlo con grande forza contro gli sposi, che erano appena apparsi. Sia Italo che l’anziano don Felice schivarono con abilità il grosso proiettile. Il mattone colpì in pieno il sacrestano e lo abbatté sui gradini della chiesa.
“Viva gli sposi!” gridò Dolfo per sviare l’attenzione dei partecipanti.
“A bocciare sei sempre il più bravo” si complimentò Luigino con Magnìn. L’altro non disse nulla, fece scattare la macchinetta e si accese una delle sue sigarette senza filtro.
Dopo un po’ il corteo si avviò di nuovo, diretto al ristorante. Di tutto ciò che era avvenuto fino a quel momento agli invitati, tranne a qualche parente degli sposi, non era importato un bel nulla, ma adesso la questione diventava più seria. Finalmente si andavano a mettere le gambe sotto il tavolo.
Magnìn e Luigino ripartirono con le loro assordanti moto, zigzagando tra i terrorizzati autisti delle automobili. Entrambi avevano in corpo più alcool che non benzina nei serbatoi.
In qualche maniera arrivarono tutti sani e salvi al ristorante, compreso Magnìn e la sua banda. Dopo una interminabile attesa finalmente il pranzo ebbe inizio. Il menu, evidentemente, era stato scelto da Italo che, almeno a riguardo, non aveva lasciato mettere becco alla sposa. Per antipasto furono serviti salame all’aglio, peperoni arrostiti, acciughe in salsa verde, vitello tonnato e uova sode con rafano. Poi seguirono i primi: agnolotti e cotiche di maiale. E infine i secondi, arrosto con patate e spinaci e pasticcio di piccione. Magnìn, Luigino e Stringhini, ovviamente, non mangiarono nulla. Loro erano lì per bere, non certo per abbuffarsi. Dolfo, invece, onorò tutte le portate, e in più spazzolò anche le porzioni degli amici. Insomma, aveva pranzato per quattro, anche se alla fine sentiva ancora un certo languore allo stomaco. Lo mise a tacere inghiottendo in un attimo quattro enormi fette di torta.
Magnìn e i suoi soci, seduti in fondo al lungo tavolo, e ormai dietro a una barriera di bottiglie vuote, si addormentarono, qualcuno di loro con ancora la sigaretta stretta tra le labbra violacee. Furono svegliati di soprassalto da alcune grida.
“Bacio! Bacio! Bacio!” urlarono in coro quasi tutti gli invitati.
Dolfo, ancora intontito, schioccò un rumoroso e umido bacio sulla guancia imberbe di Stringhini.
“Ehi!” protestò l’altro. “Sei passato sull’altra sponda?” protestò l’amico.
“Credevo fosse come in chiesa quando dicono del segno di pace…” si giustificò, confuso, il camionista.
Al tavolo di Magnìn si avvicinò il fotografo, accompagnato da Italo e dalla sposona.
“Facciamo la foto con gli amici” disse lo sposo con la voce impastata.
Fecero alzare i quattro ma si accorsero che non erano in condizione di stare in piedi. Allora li puntellarono l’uno all'altro e in qualche modo il fotografo riuscì a fare un paio di scatti. La sposa si volle piazzare davanti e li coprì tutti. Magnìn e Luigino si risedettero, gli altri due crollarono sotto il tavolo. Nessuno se ne accorse.
Il pranzo era terminato e giunse così il momento degli scherzi. Un paio di giovani contadini appoggiarono sul tavolo un mastello colmo d’acqua, un grosso pezzo di sapone e alcuni panni, perlopiù enormi mutandoni e reggiseni. Poi legarono un grembiule alla vita di Italo il quale, ormai del tutto annebbiato, non comprese la burla. Afferrò la bacinella e versò l’acqua addosso ai due malcapitati, infradiciandoli. Quindi emise una agghiacciante risata. I soli ad applaudire entusiasti furono Magnìn e Luigino, che avevano ritrovato un minimo di lucidità e avevano ripreso a versarsi da bere.
Un ragazzino si fece avanti con un paio di forbici in mano e si diresse verso lo sposo. Era arrivato il momento più atteso: il taglio della cravatta! Tutti misero mano al portafogli. Magnìn estrasse dal taschino della giacca un rotolo di banconote da centomila e le buttò sul tavolo. Erano gli ultimi soldi che possedeva, per fortuna. Il giorno successivo avrebbe così potuto riprendere a lavorare, accumulare altro denaro per poi smettere di nuovo ogni attività finché non avesse dilapidato tutto. Lui viveva così.
Il giovane iniziò a tagliare la cravatta dalla punta. Diede una violenta sforbiciata, si vide una scintilla e l’attrezzo andò in pezzi. Italo si esibì in una nuova raggelante risata. L’astuto contadino aveva, in precedenza, passato un robusto fil ferro lungo l’intera circonferenza della cravatta che in tal modo aveva resistito al taglio. Tutti gli invitati si guardarono, strabiliati per il trucco. Giacomo Concia, detto “Turèt”, scosse l’enorme capoccione. L’uomo era, per così dire, imparentato con lo sposo per via di alcuni vitelli che gli aveva venduto. Si alzò, uscì dal ristorante reggendosi a stento sulle corte gambe malferme e si mise a trafficare nel bagagliaio della sua Fiat 500 giardinetta. Ritornò poco dopo con un ceppo di legno e una motosega che, con pochi abili colpi, avviò. Il locale si riempì all’istante di fumo nero e denso. Seguì un fuggi fuggi generale.
“Metti la cravatta sul tronco!” gridava Turèt con il volto sempre più rubizzo inseguendo un terrorizzato Italo.
Luigino rimase impassibile. Il suo sguardo era concentrato sulla rombante motosega.
“È tedesca, senti che bel rumore” disse, rivolto a Magnìn, il quale assentì ammirato.
Alla fine Turèt fu neutralizzato con la promessa di un bicchierone di fernet.
Italo e l’imponente sposa si congedarono dagli invitati. Dovevano andare a preparare le valigie per il viaggio di nozze. Sarebbero partiti l’indomani. La destinazione era la Liguria, dove avrebbero trascorso due soli giorni. Il giovane Italo era un tipo sentimentale e proprio non riusciva a staccarsi dalle amate vacche per troppo tempo.
Poco per volta tutti sciamarono fuori dal ristorante. Pochi erano in grado di camminare come cristiani. Alcuni si spostavano a quattro zampe, altri addirittura strisciavano. Soltanto qualche bambino era rimasto abbastanza sobrio. Magnìn e i suoi compagni, invece, si erano un po’ ripresi. Merito del costante allenamento quotidiano. Il figlio dello stagnino, baldanzoso, si diresse verso la sua moto. E con un balzo fu in sella.
“Ehi! Guarda che sei seduto al contrario!” disse Dolfo. In effetti Magnìn stava cercando di impugnare il manubrio ma non lo trovava. Alla fine si rese conto che la sua posizione in sella era un po’ strana.
“Non importa, ormai sono messo così e parto così!” disse. Magnìn era un tipo piuttosto testardo ed era impossibile fargli cambiare idea. Nessuno c’era mai riuscito. Dolfo, rassegnato, alzò le spalle e prese posto anche lui sulla moto. Sempre al contrario, naturalmente. Magnìn protese le braccia all’indietro e finalmente riuscì ad afferrare le manopole. Scalciò sulla messa in moto, inserì la marcia e riuscì a partire.
“Ma così non ci vedi niente!” urlò preoccupato il padre di Italo, che aveva assistito alla terrificante scena.
“Sono talmente lordo che tanto ci vedrei doppio o triplo e sarebbe ancora peggio” rispose Magnìn mentre già si allontanava ondeggiando sulla strada ghiaiosa.
Alcuni volenterosi issarono Luigino sulla moto, perché da solo proprio non ci riusciva. Poi sistemarono dietro di lui Stringhini, che si abbioccò all’istante ma riuscendo miracolosamente a reggersi in equilibrio sul sellino.
“Sicuro di farcela?” disse un parente della sposa, un po’ in apprensione, a Luigino.
“Io no, ma la moto conosce la strada” rispose l’altro, prima di dare gas.

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