Il corteo nuziale
giunse strombazzando nella piazza di fronte alla chiesa. In coda c’erano due
rombanti moto, tirate a lucido per l’occasione. Sulla prima c’era Magnìn, che
trasportava sul sellino posteriore il corpulento Dolfo. L’altra era quella di Luigino,
con il suo passeggero Aurelio Berta detto “Stringhini”.
Le automobili
parcheggiarono in maniera selvaggia. I due centauri spensero il motore e
arrivarono a destinazione a ruota libera. In gran fretta smontarono e issarono
le moto sugli alti cavalletti.
“Sbrighiamoci, prima
che non ci sia più posto!” urlò Dolfo, il camionista, che pareva un invasato.
Poi tutti e quattro gli
amici si misero a correre. Non in direzione della chiesa, bensì verso
l’edicola-osteria di Albino, che si trovava sull’altro lato della piazza.
Entrarono e si sistemarono al solito tavolo, che per buona sorte era ancora
libero. Nei giorni di matrimonio era sempre difficile trovare posto
all’osteria, dal momento che in chiesa ci entravano solo donne e bambini e
qualche parente degli sposi.
Magnìn, con un
impercettibile cenno del capo, ordinò il primo litro della giornata. A Luigino,
senza che ciò fosse stato richiesto, Albino servì il solito bicchierino di
liquore alla prugna.
“Finalmente si beve!”
esclamò Dolfo portando il bicchiere alle labbra con grande soddisfazione. Gli
altri lo imitarono. La lunga traversata nel deserto finalmente aveva avuto
termine.
Magnìn e la sua banda
erano stati invitati al matrimonio del loro giovane compare Italo, che quel
giorno aveva deciso di andarsi a impiccare. Il primo brindisi fu quindi alla
sua salute, anche se gli sguardi degli amici erano molto addolorati. Luigino si
limitò a scuotere il capo per esprimere la sua disapprovazione. Il vino, in
ogni caso, calava senza tregua in quelle gole riarse. I quattro erano già stati
al rinfresco alla cascina dello sposo, ma ne erano rimasti piuttosto delusi.
“Che gli è preso a
Italo? Ci invita al ricevimento e poi ci fa bere soltanto acqua! Mai vista una
roba del genere!” Stringhini era davvero disgustato.
“Guarda che quello che
ti sei scolato era vermouth” lo corresse Dolfo, che era già ubriaco. Era grande
e grosso ma reggeva lo spirito meno degli altri.
“Che cosa ho detto?
Acqua!” ribadì l’altro, e tutti annuirono convinti. Anche lo stesso Stringhini,
che era un tipo accomodante e facile da convincere.
“Forse era la sposa che
voleva così. È una ragazza raffinata” intervenne con delicatezza Albino, l’oste
dal fisico massiccio e dalla vocetta sottile. “Guardate! Sta arrivando adesso!”
Magnìn e gli altri si
alzarono in piedi, senza abbandonare i bicchieri, che sembravano incollati alle
loro mani, e sbirciarono attraverso la finestra.
Da una Fiat 1500 grigio
scuro e lucidata a specchio scese la sposa accompagnata dal padre.
“Porco di un Giuda!”
strepitò Dolfo. “È due volte il povero Italo!”
“Che madamùn!” convenne
Stringhini, spaventato.
“Grossa è grossa…”
analizzò Luigino con la consueta flemma sorseggiando il liquore.
Magnìn non disse nulla.
Rabbrividì. Lui era allergico ai matrimoni, e soprattutto al suo. I quattro si
risedettero, sapevano che la funzione sarebbe stata lunga e che c’era ancora
parecchio tempo per dissetarsi.
“Come siete eleganti!”
li adulò Albino. “Dei veri figurini!”
Luigino indossava
l’abito che aveva portato alla cresima. Da allora l’ometto non era cresciuto
molto, anche se pantaloni e maniche della giacca erano comunque un po’ corti.
Magnìn aveva preso in prestito dal fratello “francese” un elegante abito scuro.
Roba di lusso, e si vedeva. Al posto della cravatta però si era annodato al
collo un foulard rosso, di seta. Utile per andare in moto perché riparava
dall’aria. Stringhini vestiva uno spezzato molto attillato, calzoni blu e
giacca color ruggine, che metteva ancora più in risalto la sua figura
allampanata e secca. Dolfo, invece, si era messo il vestito del “suo”
matrimonio, avvenuto quasi vent’anni prima. Da quel tempo lontano il camionista
era un po’ ingrassato, di almeno venti chili, e quindi non c’era verso di
abbottonare la giacca. E neppure la camicia, anche quella la stessa di quel
giorno infausto. In più, sembrava avere avuto qualche problema con la
sgargiante e fuori moda cravatta. Il nodo era enorme e dalla sua parte
inferiore spuntava una misera striscia di stoffa lunga non più di dieci
centimetri.
La cerimonia in chiesa
purtroppo terminò e Magnìn e i suoi amici furono costretti ad alzarsi, un po’
traballanti, per andare ad accogliere gli sposi sul sagrato.
“Il riso! Preparate il
riso!” sbraitarono alcuni indemoniati invitati.
Una signora tutta
agghindata che pareva uno scherzo mise tra le mani di Magnìn un intero pacco di
riso. Un chilo, valutò il figlio dello stagnino, il peso esatto di una delle
sue bocce da gara. Naturalmente non si scomodò ad aprirlo. Lo soppesò un attimo
e si limitò a scagliarlo con grande forza contro gli sposi, che erano appena
apparsi. Sia Italo che l’anziano don Felice schivarono con abilità il grosso
proiettile. Il mattone colpì in pieno il sacrestano e lo abbatté sui gradini
della chiesa.
“Viva gli sposi!” gridò
Dolfo per sviare l’attenzione dei partecipanti.
“A bocciare sei sempre
il più bravo” si complimentò Luigino con Magnìn. L’altro non disse nulla, fece
scattare la macchinetta e si accese una delle sue sigarette senza filtro.
Dopo un po’ il corteo
si avviò di nuovo, diretto al ristorante. Di tutto ciò che era avvenuto fino a
quel momento agli invitati, tranne a qualche parente degli sposi, non era
importato un bel nulla, ma adesso la questione diventava più seria. Finalmente
si andavano a mettere le gambe sotto il tavolo.
Magnìn e Luigino
ripartirono con le loro assordanti moto, zigzagando tra i terrorizzati autisti
delle automobili. Entrambi avevano in corpo più alcool che non benzina nei
serbatoi.
In qualche maniera
arrivarono tutti sani e salvi al ristorante, compreso Magnìn e la sua banda.
Dopo una interminabile attesa finalmente il pranzo ebbe inizio. Il menu,
evidentemente, era stato scelto da Italo che, almeno a riguardo, non aveva
lasciato mettere becco alla sposa. Per antipasto furono serviti salame
all’aglio, peperoni arrostiti, acciughe in salsa verde, vitello tonnato e uova
sode con rafano. Poi seguirono i primi: agnolotti e cotiche di maiale. E infine
i secondi, arrosto con patate e spinaci e pasticcio di piccione. Magnìn,
Luigino e Stringhini, ovviamente, non mangiarono nulla. Loro erano lì per bere,
non certo per abbuffarsi. Dolfo, invece, onorò tutte le portate, e in più
spazzolò anche le porzioni degli amici. Insomma, aveva pranzato per quattro,
anche se alla fine sentiva ancora un certo languore allo stomaco. Lo mise a
tacere inghiottendo in un attimo quattro enormi fette di torta.
Magnìn e i suoi soci,
seduti in fondo al lungo tavolo, e ormai dietro a una barriera di bottiglie
vuote, si addormentarono, qualcuno di loro con ancora la sigaretta stretta tra
le labbra violacee. Furono svegliati di soprassalto da alcune grida.
“Bacio! Bacio! Bacio!”
urlarono in coro quasi tutti gli invitati.
Dolfo, ancora
intontito, schioccò un rumoroso e umido bacio sulla guancia imberbe di
Stringhini.
“Ehi!” protestò l’altro.
“Sei passato sull’altra sponda?” protestò l’amico.
“Credevo fosse come in
chiesa quando dicono del segno di pace…” si giustificò, confuso, il camionista.
Al tavolo di Magnìn si
avvicinò il fotografo, accompagnato da Italo e dalla sposona.
“Facciamo la foto con gli
amici” disse lo sposo con la voce impastata.
Fecero alzare i quattro
ma si accorsero che non erano in condizione di stare in piedi. Allora li
puntellarono l’uno all'altro e in qualche modo il fotografo riuscì a fare un paio
di scatti. La sposa si volle piazzare davanti e li coprì tutti. Magnìn e
Luigino si risedettero, gli altri due crollarono sotto il tavolo. Nessuno se ne
accorse.
Il pranzo era terminato
e giunse così il momento degli scherzi. Un paio di giovani contadini
appoggiarono sul tavolo un mastello colmo d’acqua, un grosso pezzo di sapone e
alcuni panni, perlopiù enormi mutandoni e reggiseni. Poi legarono un grembiule
alla vita di Italo il quale, ormai del tutto annebbiato, non comprese la burla.
Afferrò la bacinella e versò l’acqua addosso ai due malcapitati,
infradiciandoli. Quindi emise una agghiacciante risata. I soli ad applaudire
entusiasti furono Magnìn e Luigino, che avevano ritrovato un minimo di lucidità
e avevano ripreso a versarsi da bere.
Un ragazzino si fece
avanti con un paio di forbici in mano e si diresse verso lo sposo. Era arrivato
il momento più atteso: il taglio della cravatta! Tutti misero mano al
portafogli. Magnìn estrasse dal taschino della giacca un rotolo di banconote da
centomila e le buttò sul tavolo. Erano gli ultimi soldi che possedeva, per
fortuna. Il giorno successivo avrebbe così potuto riprendere a lavorare,
accumulare altro denaro per poi smettere di nuovo ogni attività finché non
avesse dilapidato tutto. Lui viveva così.
Il giovane iniziò a
tagliare la cravatta dalla punta. Diede una violenta sforbiciata, si vide una
scintilla e l’attrezzo andò in pezzi. Italo si esibì in una nuova raggelante risata.
L’astuto contadino aveva, in precedenza, passato un robusto fil ferro lungo l’intera
circonferenza della cravatta che in tal modo aveva resistito al taglio. Tutti
gli invitati si guardarono, strabiliati per il trucco. Giacomo Concia, detto “Turèt”,
scosse l’enorme capoccione. L’uomo era, per così dire, imparentato con lo sposo
per via di alcuni vitelli che gli aveva venduto. Si alzò, uscì dal ristorante
reggendosi a stento sulle corte gambe malferme e si mise a trafficare nel
bagagliaio della sua Fiat 500 giardinetta. Ritornò poco dopo con un ceppo di
legno e una motosega che, con pochi abili colpi, avviò. Il locale si riempì all’istante
di fumo nero e denso. Seguì un fuggi fuggi generale.
“Metti la cravatta sul
tronco!” gridava Turèt con il volto sempre più rubizzo inseguendo un
terrorizzato Italo.
Luigino rimase
impassibile. Il suo sguardo era concentrato sulla rombante motosega.
“È tedesca, senti che
bel rumore” disse, rivolto a Magnìn, il quale assentì ammirato.
Alla fine Turèt fu neutralizzato
con la promessa di un bicchierone di fernet.
Italo e l’imponente
sposa si congedarono dagli invitati. Dovevano andare a preparare le valigie per
il viaggio di nozze. Sarebbero partiti l’indomani. La destinazione era la
Liguria, dove avrebbero trascorso due soli giorni. Il giovane Italo era un tipo
sentimentale e proprio non riusciva a staccarsi dalle amate vacche per troppo
tempo.
Poco per volta tutti
sciamarono fuori dal ristorante. Pochi erano in grado di camminare come
cristiani. Alcuni si spostavano a quattro zampe, altri addirittura strisciavano.
Soltanto qualche bambino era rimasto abbastanza sobrio. Magnìn e i suoi
compagni, invece, si erano un po’ ripresi. Merito del costante allenamento
quotidiano. Il figlio dello stagnino, baldanzoso, si diresse verso la sua moto.
E con un balzo fu in sella.
“Ehi! Guarda che sei
seduto al contrario!” disse Dolfo. In effetti Magnìn stava cercando di
impugnare il manubrio ma non lo trovava. Alla fine si rese conto che la sua
posizione in sella era un po’ strana.
“Non importa, ormai
sono messo così e parto così!” disse. Magnìn era un tipo piuttosto testardo ed
era impossibile fargli cambiare idea. Nessuno c’era mai riuscito. Dolfo,
rassegnato, alzò le spalle e prese posto anche lui sulla moto. Sempre al
contrario, naturalmente. Magnìn protese le braccia all’indietro e finalmente riuscì
ad afferrare le manopole. Scalciò sulla messa in moto, inserì la marcia e
riuscì a partire.
“Ma così non ci vedi niente!”
urlò preoccupato il padre di Italo, che aveva assistito alla terrificante
scena.
“Sono talmente lordo
che tanto ci vedrei doppio o triplo e sarebbe ancora peggio” rispose Magnìn mentre
già si allontanava ondeggiando sulla strada ghiaiosa.
Alcuni volenterosi
issarono Luigino sulla moto, perché da solo proprio non ci riusciva. Poi
sistemarono dietro di lui Stringhini, che si abbioccò all’istante ma riuscendo
miracolosamente a reggersi in equilibrio sul sellino.
“Sicuro di farcela?”
disse un parente della sposa, un po’ in apprensione, a Luigino.
“Io no, ma la moto
conosce la strada” rispose l’altro, prima di dare gas.
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