Oggi mi sono alzato tardi. Era da parecchio tempo che pregustavo
questa lunga dormita. Gli ultimi due mesi di lavoro sono stati terribili. Sono
stato impegnato a lungo, giorno e notte si può dire, in quella delicata
inchiesta sulle presunte – e ora accertate – complicità tra la criminalità
organizzata e alcuni esponenti di spicco del Partito della Nazione. Ho ricevuto
molte pressioni, intimidazioni e minacce ma, con l’aiuto di un valido collega,
sono riuscito ad arrivare fino in fondo. Proprio ieri è stata pubblicata
l’ultima parte del mio lavoro, quella più esplosiva – e grave per le
conseguenze che ne potrebbero derivare per l’assetto politico nazionale – e
dunque ho deciso di concedermi un’intera giornata di riposo, in serena attesa
delle inevitabile reazioni che di sicuro non si faranno attendere. Il mio
direttore mi ha invitato a essere prudente, ha proposto per l’ennesima volta
l’impiego di una scorta per garantire la mia protezione, pagata dal giornale
tra l’altro, ma ho rifiutato. Non ho paura, non temo vendette tuttavia mi
ripugna l’idea, seppure del tutto intangibile a mio parere, di mettere a
repentaglio vite di altri incolpevoli esseri umani. Ormai ho scritto tutto ciò
che sono venuto a conoscere, in dettaglio. Un atto di violenza nei miei
confronti non farebbe altro che confermare e rafforzare quanto contenuto in
quei famosi articoli. Inoltre, ritengo che ciò non torni per nulla utile, in
questo momento, a chi ne è coinvolto. Temo di più, nel lungo periodo, tentativi
di delegittimazione, campagne diffamatorie, secchiate di fango che potrebbero
colpirmi appena avrò abbassato la guardia.
Non sono uscito a comprare i giornali, non ho acceso il computer. Ho
intenzione di non rispondere al telefono. Non voglio sapere nulla, almeno fino
a domani. Quando tornerò in redazione, so che troverò l’inferno. Ma oggi no,
oggi mi voglio godere in assoluta tranquillità questo magico momento di
sospensione. Sarà breve, e nulla e nessuno lo dovrà turbare.
Metto sul fuoco la seconda caffettiera. Preparo, con cura, una fetta
di pane tostata e la ricopro con un abbondante strato di marmellata. Accendo lo
stereo, attendo l’attacco del pianoforte nel concerto di Brahms – una vera
delizia – e mi siedo. Chiudo gli occhi e proprio in quell’istante sento il
suono del campanello. Scatto in piedi, con il battito del cuore accelerato. Chi
può essere? Il postino? Oppure qualcuno con brutte intenzioni? Mi avvicino alla
porta d’ingresso e sbircio dallo spioncino. Vedo un uomo, pressappoco della mia
età e con un aspetto per nulla minaccioso. La prudenza mi suggerisce di non
aprire, ma la mia incoscienza e la mia innata curiosità prevalgono. Socchiudo
la porta e noto che l’uomo non ha nulla tra le mani.
“Buongiorno. Desidera?” Lui mi guarda e non parla. Sembra sorridere,
anche se il movimento della sua bocca è quasi impercettibile.
“Mi dispiace, ma non ho bisogno di niente” aggiungo, nel tentativo
di congedarlo. Mi sforzo di essere gentile, la sua aria dimessa un po’ mi
intenerisce.
“Non mi riconosci?” dice finalmente.
“Come?”
“Sono io. Bellini Angelo, il tuo compagno di scuola.”
Dice proprio così, Bellini Angelo, prima il cognome e poi il nome,
come sta scritto sui registri scolastici. La sua voce è bassa e dal tono
ruvido. Allora mi concentro sui tratti del suo viso. Sono sottili, sfuggenti. I
capelli, sporchi, gli ricadono sugli occhi. Ma ciò che alla fine mi colpisce
sono quelle macchie, quella spruzzata di lentiggini proprio alla radice del
naso. È solo in quel momento, quando il mio sguardo si fissa in quel punto, che
davvero lo riconosco. Sono trascorsi più di trent’anni, eppure qualcosa
all’improvviso scatta nella mia mente. L’immagine che mi trovo di fronte, di
quest’uomo ormai maturo, è messa a confronto con un’altra, quella di un bambino
minuto, con il muso appuntito, con le gambette nude e secche – simili a due
ramoscelli – che spuntano dal grembiulino nero. Mi sovviene, di colpo, anche il
ricordo di un enorme fiocco azzurro, sempre slegato, fissato a un colletto
rigido, di plastica bianca. Adesso ne sono sicuro, è proprio lui. Angelo, il
mio compagno di banco della prima elementare. Dopo un attimo di incredulità,
reagisco.
“Scusami, ma subito non ti avevo riconosciuto. Vieni, entra.”
“Non vorrei disturbare.”
“Ma che dici? Ci rivediamo dopo così tanto e non vuoi nemmeno
entrare? Dai, non fare complimenti.” Si guarda attorno, guardingo, poi
finalmente si decide. Si liscia la giacca marrone, di una taglia più grande, e
fa due passi in avanti. Mi accorgo che è nervoso perché si muove a scatti. Lo
guido verso il salotto. Passando, tolgo la caffettiera dal fuoco e guardo con
rimpianto la fetta di pane cosparsa di marmellata che era pronta per essere
addentata, ma che invece dovrà aspettare.
“Posso offrirti qualcosa?”
“No, grazie. Preferisco non prendere nulla.” Allora anch’io rinuncio
al caffè, un gesto di cortesia che tuttavia mi costa molto.
“Siediti, almeno” lo invito.
“No, grazie. Non intendo fermarmi a lungo.”
“Hai premura? Devi andare al lavoro?” Non risponde. Forse non ha
sentito, oppure ha finto di non aver sentito. Insisto con delicatezza.
“Ma... dopo tanti anni ricompari, a sorpresa, e non vuoi neppure
fermarti un po’?”
“Un’altra volta. Intendevo solo salutarti” ribadisce.
Allora decido di prendere l’iniziativa. Mi avvicino a lui – è molto
più basso di statura rispetto a me – appoggio dolcemente le mani sulle sue spalle
e lo costringo ad accomodarsi sull’enorme poltrona di pelle nera. Mi siedo
anch’io, proprio di fronte, sul divano.
“Allora Angelo, che cosa mi racconti?” Vedo che, poco alla volta, si
rilassa. I tratti del suo viso che fino a qualche istante fa sembravano come
accartocciati, si distendono.
“Ti devo delle scuse” dice. Anche il suo tono di voce è più sicuro.
“Perché?”
“Me ne sono andato senza neppure salutarti. Non è stata una cosa
bella da fare, tuttavia vorrei che tu comprendessi che non è stata colpa mia,
non è dipeso da me.”
“Non preoccuparti. Ti credo.”
Mentre sto parlando, mentre lo ascolto, cerco di scavare nella
memoria, in quei ricordi lontani, ormai sfumati e indefiniti. Mi torna in mente
il primo giorno di scuola, mia madre che mi accompagna in classe e, su
indicazione della maestra, mi fa sedere al primo banco, dove è già accomodato,
a braccia conserte e con lo sguardo serio – questo lo rammento con precisione –
un altro bambino, Angelo Bellini, la versione infantile di questo singolare
individuo seduto ora davanti a me. Penso alla paura che mi assale quando mia madre
esce dall’aula, al terrore che provo di fronte a quel gesto che, dentro di me,
considero come un abbandono, pur sapendo che non così. Nei giorni precedenti,
tutto mi è stato spiegato più volte dai miei genitori, senza risparmiarmi
nulla; conosco bene ciò che mi aspetta, vale a dire la scuola, la maestra, i
compagni e così via, però la sensazione che avverto in quel preciso istante
rappresenta un qualcosa che poche volte ho poi riprovato nel corso della vita. Anche
adesso, rivivendo quell’evento a distanza di tanti anni, ne patisco.
“Per quale motivo non tornasti più a scuola dopo le vacanze di
Natale? La maestra non ci diede alcuna spiegazione. Un nostro compagno – non
ricordo quale – le chiese se per caso tu fossi morto. Tutti gli altri si misero
a ridere e fummo rimproverati con severità.”
“Mio padre cambiò lavoro all’improvviso, da un giorno all’altro, e
allora ci trasferimmo in un’altra città.”
“Quindi ti toccò cambiare scuola. Fu una brutta esperienza?” Non
risponde, mi guarda, sorride ma non risponde. Allora non insisto.
“Ti ricordi quando mi chiedesti in prestito il temperino?” mi
domanda invece.
“Sì.” È vero, me lo ricordo sul serio. Vedo la mia matita che cade
dal banco, quasi al rallentatore, e che atterra di punta sul pavimento. Lesto,
mi abbasso e la recupero, aiutandomi con il piede. Ma la punta non c’è più, si
è spaccata. Allora mi volto verso Angelo e, bisbigliando, gli chiedo in
prestito il suo temperamatite giallo – il mio, come spesso mi capita, l’ho
dimenticato. Lui è già lì pronto, con il braccio teso. La maestra, vigile,
percepisce il mio movimento, capisce e mi richiama urlando, imputandomi
sbadataggine e trascuratezza. Poi mi costringe ad andare alla cattedra, dove
lei ha installato un grosso temperamatite a manovella. Per punizione mi fa
appuntire una gran quantità di matite colorate, di varie dimensioni, e tutti
sghignazzano per i miei gesti maldestri.
“Sai, quella volta ci sono rimasto male, per te. E non ho riso. La
notte, per il dispiacere, non ho dormito.”
“Ti ringrazio.”
“Il giorno dopo è stato ancora peggiore.” Osservo i suoi occhi, che
ora sono diventati tristi, e capisco ciò che sta per dire. Sorrido imbarazzato,
vorrei sviare l’argomento ma non ho la prontezza necessaria.
“Te la sei fatta addosso.”
Quello non è certo un bel ricordo. Mi rivedo, mentre cerco di
resistere allo stimolo sempre più pressante. Ma non ho il coraggio di chiedere
di uscire dall’aula e allora cedo. A un certo punto la maestra si zittisce e si
avvicina a me. I miei compagni si tappano il naso. Soltanto Angelo, nonostante
sia invaso dalla puzza più di tutti, rimane impassibile. La maestra, con gesti
bruschi, mi strappa dal banco e mi conduce in bagno, dove mi spoglia e cerca di
lavarmi. Poi mi riveste, ma senza rimettermi le mutande, che getta in un cestino.
La mia mortificazione è assoluta, devastante. Non ho mai più provato una cosa
del genere, per mia fortuna. Ancora adesso, al solo pensiero, ne sono
profondamente turbato.
“Angelo, ma tu ti ricordi proprio tutto!” Non risponde, ma incrocia
le braccia sul petto, come allora, un gesto che evoca fatalità e rassegnazione.
E anche compatimento. Nei confronti di chi?
Prima di sprofondare nella malinconia, cerco di riportare il
discorso ai giorni nostri.
“Quando sei tornato in città? Da poco, vero?”
“No, quattro anni fa.”
“Quattro anni? E come mai mi hai cercato soltanto adesso se ci
tenevi a rivedermi?”
“Non ti ho cercato, ti ho incontrato per caso, appena ritornato in
città, alla fermata di un bus ma tu non mi hai visto. Io invece ti ho
riconosciuto subito. Anzi, ti confesso che speravo proprio di imbattermi in
te.”
“Incredibile. E come hai fatto a scoprire dove abito?” L’espressione
sul suo viso volpino diventa furba. Ammicca.
“Ti ho seguito.”
“Che cosa?” domando, sorpreso da quella risposta inaspettata.
“Quella volta ti ho seguito. Ho visto che sei entrato in quel grande
palazzo in centro, dove lavori, ho atteso che uscissi e ti sono venuto dietro
fin qui.”
“Vuoi dire che hai aspettato fuori tutto il giorno?”
“Sì, ma non l’ho fatto solo quella volta, da allora l’ho fatto quasi
tutti i giorni.”
Sono sconvolto, una sottile inquietudine mi percorre, tuttavia cerco
di mantenere la calma.
“Angelo, sai che lavoro faccio?” Scuote la testa.
“No, non l’ho ancora capito. Ci ho provato, ma quel palazzo è troppo
grande, pieno di mille attività diverse.
Fai l’assicuratore?”
“Sono un giornalista.” Il suo viso esprime un sincero stupore. E
compiacimento.
“Scrivi sui giornali? Su tutti i giornali?”
“No, su uno soltanto.”
“Lo sapevo! Eri già bravo a scrivere anche ai tempi della scuola.”
“Angelo! Che cosa stai dicendo? Facevamo la prima elementare!” Vedo
che scuote il capo. Non vede l’ora di ribattere, di confutare la mia
affermazione. Ai lati della sua bocca, dove le labbra si congiungono, si
accumula della saliva. Distolgo lo sguardo, un po’ disgustato.
“Ti ricordi quando la maestra ci faceva copiare dalla lavagna le
lettere dell’alfabeto? Tu riuscivi a farle belle rotonde, quasi senza staccare
la penna dal foglio, e non ti cadeva mai una macchia. Io invece non ci riuscivo,
facevo fatica e cercavo di imitarti ma senza risultati. Eri veramente bravo! Ti
confesso che qualche volta ho pure provato un po’ di invidia.”
Cerco di non farmi distrarre dalle sue precise, minuziose
rievocazioni. In lui, nelle sue parole, colgo – devo ammetterlo, a questo punto
– un preoccupante elemento ossessivo. Tento di approfondire l’aspetto che più
mi turba.
“Dimmi, quante volte mi hai pedinato, in realtà? E perché l’hai
fatto? Non potevi semplicemente farti riconoscere come hai fatto oggi?”
“Te l’ho detto, ti ho seguito quasi tutti i giorni. Anche se avevo
paura, perché non sapevo come avresti reagito. Finalmente, oggi mi sono fatto
coraggio. Ho aspettato che tua moglie uscisse…”
“Perché?” Lo interrompo, in modo brusco. Sto cominciando a irritarmi.
“Scusami, ma ho paura delle donne sconosciute.”
La mia mente allenata di cronista si mette in moto. Cerco di essere
freddo e riepilogo i fatti: i tre mesi alla scuola elementare, l’abbandono
improvviso di Angelo, la sua ricomparsa dopo tanti anni, i suoi morbosi
pedinamenti, la sua precisa memoria di episodi ormai lontani, il suo strano
atteggiamento.
Le mie riflessioni sono stroncate sul nascere.
“Ti ricordi cosa accadde a Michele? Mi vengono ancora i brividi a
pensarci!”
“No! Non me lo ricordo!” La mia voce si alza di tono. E si incrina.
“Dici sul serio? Come hai fatto a dimenticarlo? Allora, lui si mette
a cancellare con la gomma, quella di due colori, blu e rossa, però non si
accorge che la sta usando dal lato sbagliato. Lo sanno tutti – persino io,
pensa – che per cancellare quanto si sia scritto con la matita bisogna usare la
gomma dalla parte più morbida – quella rossa, giusto? – e invece lui continua a
premere e sfregare sul foglio con la parte blu, quella dura, finché la carta si
buca. Ti ricordi come ci rimase male? Si fece tutto rosso in faccia e poi,
piagnucolando, chiamò la maestra. Lei arriva, guarda un attimo il foglio e poi
lo strappa, e dopo afferra il povero Michele per le orecchie e lo solleva da
terra. Lo solleva da terra! Ci pensi? Chissà che dolore…”
“Angelo, vorrei dirti che…”
“E le pantofole? Ti ricordi le pantofole? Quella maestra, voglio
dire la nostra maestra, ci impediva di camminare in aula con le scarpe – forse
per il rumore, forse per non sporcare, chissà – e allora ci costringeva, prima
di entrare in classe, a infilare delle pantofole. Non so tu, ma io mi sentivo
sempre umiliato ogni volta che dovevo sottostare a quell’imposizione.”
Angelo ormai è come un fiume in piena, sembra inarrestabile. Mi
butta addosso un ricordo dopo l’altro, mi travolge con le sue tristi memorie.
Sì, tristi, perché quasi tutti i fatti evocati sono intrisi di mestizia e
malinconia seppure prevalga sempre, in lui, nel suo giudizio riguardo tali
lontani avvenimenti, un senso di struggente nostalgia. Mi spiego: è come se, in
quel poveraccio seduto di fronte a me, l’intera vita fosse concentrata in quei
tre mesi di scuola. Ma che cosa ha fatto dopo? Com’è vissuto?
“Angelo, ma tu che lavoro fai?” Ci riprovo ma lui, ancora una volta,
non risponde. Mi guarda senza parlare, estatico; osservandolo comprendo che, in
questo momento, con la mente lui non si trova qui, nel salotto di casa mia,
bensì in quella piccola aula con i muri verdi e il pavimento di legno, seduto
nel banco, a fianco del suo ammirato compagno di un tempo.
“Angelo, ascolta. Perché ti sei tanto fissato su quei tre mesi di
scuola? Nella tua vita avrai fatto tante altre cose. Avrai conosciuto molti
altri compagni, altri insegnanti, avrai lavorato, avrai incontrato tante
persone, avrai avuto delle donne, forse dei figli, perché – rispondi, ti prego
– ti sei tanto intestardito su di me e su quel breve periodo di tanti anni fa?”
Per la prima volta da quando è iniziata la nostra surreale
conversazione, lo vedo scosso. Qualcosa di ciò che ho detto – con veemenza, lo
ammetto – è penetrato in lui. Abbassa il capo e lo incassa in quella sua giacca
enorme, tanto che mi ricorda una tartaruga spaventata che si nasconde per
sfuggire al pericolo. E inizia a parlare, comincia finalmente a rispondere alla
mia domanda. Lo fa con una voce che non sembra più la sua, simile com’è a uno
straziante pigolio. Mi vengono i brividi.
“Dopo quei tre mesi non sono più andato a scuola. E quei tre mesi
sono stati il periodo più felice della mia vita. L’unico che voglio ricordare.”
A quel punto si alza e comincia a dirigersi verso la porta. Il suo passo è
strascicato, l’andatura di un uomo sconfitto. È come se reggesse, sulle sue
fragili spalle, tutto il peso del mondo. Comprendo a stento le sue ultime
parole.
“Non ho più avuto altri compagni, né altri insegnanti. Non ho mai
lavorato e non ho mai avuto una donna. Figli?”
Esce e chiude la porta, dolcemente.