Il ricordo più intenso
che conservo dei tempi della scuola media è quello delle lezioni di educazione
fisica. E del professor C. e della pallacanestro. Il nostro insegnante era un
tipo particolare: vestiva sempre con una giacca blu scuro e pantaloni grigi,
portava i capelli lunghi, gonfiati con il phon e fissati con una abbondante
dose di lacca. Rammento il suo grosso naso e la sua voce pacata e dal timbro
sottile. Il professor C., fin dal primo giorno che ci conobbe, decise di
scacciare dalle nostre giovani menti la fissazione per il calcio. Stabilì che
durante tutto l'anno scolastico avremmo praticato un unico sport: la
pallacanestro. E fu così anche l'anno successivo. L'ultimo anno, con nostro
grande dispiacere, il nostro insegnante preferito non ricomparve, sostituito da
un anonimo e più giovane collega che non lasciò di sé alcuna traccia.
Il primo giorno di
lezione fummo divisi in due squadre. Il professore, dimostrando grande
generosità, ci consentì di chiamarle Torino e Juventus. Io fui assegnato alla
prima. All'epoca era d'obbligo indossare, durante l'attività di educazione
fisica, una maglietta bianca e dei pantaloncini blu. Il nostro insegnante ci
diede il permesso di personalizzare tali scialbe divise. Ognuno di noi si fece
cucire, dalle proprie madri o dalle sorelle maggiori, una grande lettera sulla
maglietta: una T di colore granata oppure una J di colore nero. Eravamo pronti
per iniziare le nostre sfide, che sarebbero andate avanti per due anni ogni
volta che c'era lezione di educazione fisica.
Il professor C. fu
fortunato (o abile?) nella scelta dei giocatori, titolari e riserve, che
componevano le due squadre, tanto che le partite risultavano sempre piuttosto
equilibrate. Una volta prevaleva una compagine, la volta successiva quasi
sempre vinceva l'altra. In tal modo il nostro interesse per quello sport che
iniziammo ad apprezzare era sempre alimentato, e ognuno di noi non vedeva l'ora
di andare in palestra per prendersi una rivincita su una precedente sconfitta.
Il professor C. aveva sempre con sé un piccolo quaderno, sul quale annotava con
cura maniacale i risultati delle partite e stilava classifiche.
Ognuna delle due
squadre disponeva di un giocatore di alta statura, dote che in uno sport come
la pallacanestro consente spesso di sovrastare gli altri. Per quei due sventurati
non era affatto così. Erano ragazzi completamente negati per qualsiasi attività
sportiva. Erano rigidi, impacciati nei movimenti, del tutto privi di
coordinazione motoria, quasi incapaci persino di correre. Guerrino era nella
mia squadra. Era un ragazzo alto più di un metro e ottanta, rosso di pelo, con
il viso cavallino disseminato di lentiggini. Figlio di contadini, aveva delle
mani enormi, callose e abituate ai lavori di fatica. Guerrino era un gran bravo
ragazzo. Frequentai con lui le scuole medie e poi tutte le superiori, dove io
gli permettevo di copiare i miei temi e lui si sdebitava passandomi gli
esercizi di computisteria e di tecnica bancaria, materie che studiavo con
scarso impegno. L'altro spilungone era un ragazzo del quale, confesso, non ricordo
il nome. Lo chiamavamo sempre e soltanto per cognome, e quello ancora lo
rammento. Anche lui, come Guerrino, era molto alto e magro. Aveva una grossa
testa a forma di triangolo rovesciato, sulla cui sommità spuntavano irti
capelli neri. Portava degli occhiali con piccole lenti rotonde, che gli davano
l'aria dello scienziato pazzo. Durante le partite sistemavamo lui e Guerrino
sotto il canestro e dicevamo loro di non muoversi. Il loro compito, con
l'ausilio della loro alta statura, era quello di raccogliere i rimbalzi. Anche
in quell'apparente semplice compito si rivelarono essere delle autentiche
frane. Arrivavano sempre a intercettare il pallone in ricaduta ma non
riuscivano mai ad afferrarlo, talmente erano goffi. Non saltavano ma si
limitavano ad allungare il più possibile le braccia, le mani con le dita rigide
e protese. Un giorno, finalmente, Guerrino riuscì a far suo un pallone che
aveva a lungo danzato sull'anello senza però entrarvi. Il pallone sembrò
scomparire tra le sue manone. Quindi lo lanciò con tutta la sua notevole forza
verso il canestro. La palla rimbalzò con un colpo secco contro il tabellone e
poi si insaccò. Naturalmente quello non era il canestro della squadra
avversaria. Quando si rese conto del tremendo errore il povero Guerrino
avvampò, tanto che divenne difficile distinguere il colore del suo viso da
quello dei suoi capelli. Tutti noi comprendemmo il suo dramma e, mentre il
professor C. ridacchiava divertito, ci buttammo su Guerrino, lo abbracciammo
festosi e ci congratulammo con lui. In fondo era pur sempre il suo primo punto
realizzato, che importava se non lo aveva fatto nel canestro giusto?
Come detto, poco per
volta ci appassionammo alla pallacanestro e quasi dimenticammo il calcio.
Imparammo alla perfezione tutte le regole. D'altra parte il professor C. era
inflessibile. Fischietto in bocca, sanzionava con severità tutte le infrazioni:
fallo di passi, doppio palleggio, palla trattenuta e ogni contatto fisico
troppo violento.
Da parte mia me la
cavavo abbastanza bene. Avevo un fisico minuto, tuttavia ero agile e svelto.
Sapevo palleggiare bene, ero preciso nei passaggi e nel tiro (spesso mi allenavo
a casa, da solo, utilizzando un canestro costruito con maestria da mio padre e
che avevo agganciato alla ringhiera di un balcone).
Il giocatore più forte,
e che avevo la fortuna di avere nella mia squadra, era senza dubbio Gerardo.
Era un ragazzo che viveva nelle case popolari, insieme ai genitori e a una
lunga serie di fratelli e sorelle. Gerardo aveva un fisico particolare: il
busto lungo e sottile, il sedere sporgente e gambe muscolose. Portava occhiali
dalle lenti molto spesse che non si toglieva mai, in special modo quando
giocava. Diceva che altrimenti non avrebbe neppure visto il canestro. Gerardo
aveva una voce bassa e roca, da persona adulta, ed era un vero giocoliere. Il
professor C. non mancava mai di rimproverarlo quando eccedeva in virtuosismi,
che comunque gli riuscivano benissimo.
Toccammo la nostra
apoteosi (che rappresentò anche la fine di tutto) al termine del secondo anno
di scuola media. Il professor C., d'intesa con alcuni suoi colleghi, organizzò
un torneo tra i migliori della nostra scuola (una specie di
"nazionale", e io fui tra i selezionati) e squadre di altre scuole
della provincia. Inutile dire che lo vincemmo. Eravamo molto più bravi, molto
più preparati, di tutti gli altri. Il professor C. fu molto orgoglioso della
nostra impresa.
Il ricordo più luminoso
che custodisco dei tempi della scuola media è dunque quello di un pallone
arancione, di un anello di metallo con la reticella e di una persona, il
professor C., di grande spessore umano.
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