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domenica 25 ottobre 2015

LA CASA ABBANDONATA


“Dici che verranno?” domando a Giuseppe.
“Certo. Le donne sono curiose” risponde il mio amico.
Sospiro, poi appoggio la mano sulla cintura, alla quale è appesa la fondina che contiene il pugnale. Giuseppe ha con sé una grossa roncola, agganciata per l’uncino del manico a un passante dei calzoni.
“Non era meglio se portavi il coltello a serramanico?” gli dico.
Lui scuote il testone.
“Naa… mi sento più sicuro con questa.”
“Non è che vuoi metterti in mostra?”
“Eh? Io? Ma che dici?”
“Vai a vedere se arrivano” dico.
Giuseppe fa qualche passo, fin dopo la curva, con il falcetto che gli sbatte sulla coscia, poi torna indietro.
“Ci siamo, biciclette in vista. Te l’avevo detto che sarebbero venute” dice. Nella sua voce colgo l’emozione. La stessa che provo anch’io.
Tutto era accaduto poco più di tre ore prima, quando eravamo ancora a scuola.
“Perché non glielo chiediamo?” mi aveva bisbigliato Giuseppe indicando Simonetta e Rosa. Anche loro stavano confabulando tra loro, ignorando come tutti il povero don Aldo, impegnato in una fumosa illustrazione del concetto di carità cristiana.
“Chiedilo tu” avevo risposto. “Ce l’hai la lingua”.
“Ma tu sai parlare meglio” aveva ribattuto il vigliacco. Avevo annuito.
Simonetta era seduta proprio nel banco davanti al mio. Durante le lezioni non guardavo quasi mai l’insegnante di turno, il mio sguardo era sempre fisso su quella massa di capelli neri e ricci. A volte allungavo una mano e li toccavo, senza che lei se ne accorgesse. In quei momenti provavo una grande eccitazione. Simonetta mi era piaciuta sin dalla prima volta che l’avevo vista, all’inizio della scuola media. Lei era una ragazza molto socievole, io tutto il contrario, dunque era stato molto difficile attirare la sua attenzione. Infatti non c’ero riuscito. In ogni caso mi ero fatto coraggio e l’avevo sfiorata sulla schiena. Simonetta si era voltata e io avevo provato un tuffo al cuore. Mi ero sporto sul banco e mi ero venuto a trovare vicino al suo viso, al suo naso perfetto, alle sue sopracciglia ben marcate, a quella boccuccia rossa e intrigante.
“Tu e Rosa verreste oggi pomeriggio alla casa abbandonata?” avevo chiesto, indicando con il mento Giuseppe. Poi ero arrossito. Lei non aveva risposto, si era morsicato il labbro inferiore e poi si era ricomposta. Il mio imbarazzo era stato grande. Quel bastardo di Giuseppe sogghignava. Non importa, l’avrebbe pagata cara! Lo sapevo, una come Simonetta non poteva essere interessata a noi. Era una donna, ormai, noi soltanto dei ragazzini. Si diceva che avesse un ragazzo, uno molto più grande, che girava con una grossa moto. Ma forse non era vero, era qualcosa che aveva detto lei stessa per darsi importanza. Mi piaceva pensare che fosse così.
All’uscita dalla scuola, però, avevo trovato Simonetta che mi aspettava, in compagnia di Rosa. Aspettava me!
“A che ora oggi pomeriggio?” aveva chiesto, a bassa voce.
Incredulo di ciò che stava accadendo non ero riuscito a rispondere, avevo soltanto alzato tre dita. Poi mi ero allontanato. Anzi, ero scappato, ed ero andato alla ricerca di Giuseppe, per avvisarlo.
Le ragazze scendono dalle biciclette. Sono accaldate, bellissime. Simonetta indossa una camicetta leggera e una gonna corta, color ruggine, dalla quale spuntano le lunghe gambe snelle fasciate da calze scure. Rosa invece ha le gambe nude, gambe corte ma ben tornite che conservano ancora la bronzea tinta estiva. Devo ammettere che pure Rosa è una bella ragazza, anche se Simonetta è di un’altra categoria, e capisco che a Giuseppe possa piacere, pure se lui non lo vuole ammettere.
“Perché portate quei cosi?” domanda Simonetta indicando roncola e pugnale.
“Non si sa mai” bofonchia Giuseppe.
“Può esserci qualcuno?” dice Rosa, indicando il rudere della casa abbandonata.
“Al massimo ci sono dei topi” dico io.
“Ahhh!” strilla lei.
“Paura?” dico.
“Macché! Però mi fanno schifo” dice lei facendo una smorfia.
“Mettiamo dentro le bici” suggerisco. “Così nessuno le vede”.
Entriamo tutti. Anche la recinzione della casa è in parte diroccata, sufficiente comunque a nasconderci alla vista di eventuali passanti. La casa abbandonata, in ogni caso, si trova in un luogo abbastanza isolato, e sulla strada acciottolata che le scorre davanti transitano a volte soltanto alcuni contadini con i loro rumorosi trattori.
Nel cortile interno le erbacce sono alte quasi un metro. Giuseppe inizia a sferzarle con la roncola, ne fa strage. Sfoga così la sua evidente agitazione.
“Smettila, che tanto c’è il sentiero” lo fermo. Noto che è tutto sudato e rosso in faccia.
Percorriamo in silenzio, in fila indiana, lo stretto viottolo. Simonetta mi cammina davanti. Osservo con grande interesse la sua vita stretta, l’ondeggiare dei fianchi, le caviglie sottili. Cammina un po’ a fatica sul terreno sconnesso a causa delle scarpe che hanno un piccolo tacco. Giungiamo di fronte alle rovine della casa.
“E adesso?” domanda Rosa. Un sottile velo di sudore le imperla il labbro superiore, dove noto una quasi invisibile peluria, decolorata. Chissà se quel sudore ha un sapore salato, penso, prima di essere colto da una breve vertigine.
“Si può entrare, anche se è pericoloso” sta dicendo Giuseppe. “Noi conosciamo una via sicura.”
“Ma è tutto crollato!” sbotta Simonetta.
“No, quella parte è ancora in piedi. Si può salire, anche se la scala non è molto stabile. Si può arrivare al primo piano e percorrerlo tutto, il pavimento ha ceduto in alcuni punti ma procedendo con cautela si può fare.” Noto con piacere che Giuseppe ha ritrovato la favella. È nel suo elemento, adesso. Al contrario, io sono assalito dal dubbio. Che ci facciamo qui?
“No!” Il rifiuto di Simonetta è categorico. “Io lì sopra non ci salgo”.
“Neppure io” dice Rosa.
Giuseppe si stringe nelle spalle ed entra nella casa. Guardo per un attimo le ragazze, con una espressione di scusa, poi lo seguo.
“Sei impazzito?” bisbiglio alla sua schiena. Lui comincia a salire sulla scala pericolante, senza rispondere. Quando lo raggiungo siamo già al primo piano. Sul pavimento si aprono dei buchi, qua e là, occorre molta prudenza oppure si finisce di sotto.
“Non vedi che a loro non interessa? Perché non le portiamo al parco?” dico, arrabbiato
“A fare che cosa?” dice lui.
Sbuffo.
“Dai, torniamo giù” dico toccandogli una spalla. Alla fine ubbidisce.
Quando siamo nel cortile vediamo che le biciclette non ci sono più. E neppure le ragazze.
“Se ne sono andate” dice Giuseppe. Sembra sinceramente sorpreso.
“Cosa credevi? Che stessero ad aspettare il ritorno dell’eroe?”
“Peggio per loro” dice.
“Peggio per noi, invece!” Sono davvero infuriato con il mio amico.
“Siamo troppo piccoli per loro” dice Giuseppe, un po’ mortificato.
“Non dire sciocchezze! Hanno la nostra stessa età!” ribatto.
“No, siamo troppo piccoli, ti dico. Non hai visto? Avevano il viso tutto truccato”.

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