“Dici che verranno?”
domando a Giuseppe.
“Certo. Le donne sono
curiose” risponde il mio amico.
Sospiro, poi appoggio
la mano sulla cintura, alla quale è appesa la fondina che contiene il pugnale.
Giuseppe ha con sé una grossa roncola, agganciata per l’uncino del manico a un
passante dei calzoni.
“Non era meglio se
portavi il coltello a serramanico?” gli dico.
Lui scuote il testone.
“Naa… mi sento più
sicuro con questa.”
“Non è che vuoi
metterti in mostra?”
“Eh? Io? Ma che dici?”
“Vai a vedere se
arrivano” dico.
Giuseppe fa qualche
passo, fin dopo la curva, con il falcetto che gli sbatte sulla coscia, poi
torna indietro.
“Ci siamo, biciclette
in vista. Te l’avevo detto che sarebbero venute” dice. Nella sua voce colgo l’emozione.
La stessa che provo anch’io.
Tutto era accaduto poco
più di tre ore prima, quando eravamo ancora a scuola.
“Perché non glielo
chiediamo?” mi aveva bisbigliato Giuseppe indicando Simonetta e Rosa. Anche
loro stavano confabulando tra loro, ignorando come tutti il povero don Aldo,
impegnato in una fumosa illustrazione del concetto di carità cristiana.
“Chiedilo tu” avevo
risposto. “Ce l’hai la lingua”.
“Ma tu sai parlare
meglio” aveva ribattuto il vigliacco. Avevo annuito.
Simonetta era seduta
proprio nel banco davanti al mio. Durante le lezioni non guardavo quasi mai l’insegnante
di turno, il mio sguardo era sempre fisso su quella massa di capelli neri e
ricci. A volte allungavo una mano e li toccavo, senza che lei se ne accorgesse.
In quei momenti provavo una grande eccitazione. Simonetta mi era piaciuta sin
dalla prima volta che l’avevo vista, all’inizio della scuola media. Lei era una
ragazza molto socievole, io tutto il contrario, dunque era stato molto
difficile attirare la sua attenzione. Infatti non c’ero riuscito. In ogni caso
mi ero fatto coraggio e l’avevo sfiorata sulla schiena. Simonetta si era
voltata e io avevo provato un tuffo al cuore. Mi ero sporto sul banco e mi ero
venuto a trovare vicino al suo viso, al suo naso perfetto, alle sue
sopracciglia ben marcate, a quella boccuccia rossa e intrigante.
“Tu e Rosa verreste
oggi pomeriggio alla casa abbandonata?” avevo chiesto, indicando con il mento
Giuseppe. Poi ero arrossito. Lei non aveva risposto, si era morsicato il labbro
inferiore e poi si era ricomposta. Il mio imbarazzo era stato grande. Quel bastardo
di Giuseppe sogghignava. Non importa, l’avrebbe pagata cara! Lo sapevo, una
come Simonetta non poteva essere interessata a noi. Era una donna, ormai, noi
soltanto dei ragazzini. Si diceva che avesse un ragazzo, uno molto più grande,
che girava con una grossa moto. Ma forse non era vero, era qualcosa che aveva detto
lei stessa per darsi importanza. Mi piaceva pensare che fosse così.
All’uscita dalla
scuola, però, avevo trovato Simonetta che mi aspettava, in compagnia di Rosa.
Aspettava me!
“A che ora oggi
pomeriggio?” aveva chiesto, a bassa voce.
Incredulo di ciò che
stava accadendo non ero riuscito a rispondere, avevo soltanto alzato tre dita.
Poi mi ero allontanato. Anzi, ero scappato, ed ero andato alla ricerca di
Giuseppe, per avvisarlo.
Le ragazze scendono
dalle biciclette. Sono accaldate, bellissime. Simonetta indossa una camicetta
leggera e una gonna corta, color ruggine, dalla quale spuntano le lunghe gambe
snelle fasciate da calze scure. Rosa invece ha le gambe nude, gambe corte ma
ben tornite che conservano ancora la bronzea tinta estiva. Devo ammettere che
pure Rosa è una bella ragazza, anche se Simonetta è di un’altra categoria, e
capisco che a Giuseppe possa piacere, pure se lui non lo vuole ammettere.
“Perché portate quei
cosi?” domanda Simonetta indicando roncola e pugnale.
“Non si sa mai”
bofonchia Giuseppe.
“Può esserci qualcuno?”
dice Rosa, indicando il rudere della casa abbandonata.
“Al massimo ci sono dei
topi” dico io.
“Ahhh!” strilla lei.
“Paura?” dico.
“Macché! Però mi fanno
schifo” dice lei facendo una smorfia.
“Mettiamo dentro le
bici” suggerisco. “Così nessuno le vede”.
Entriamo tutti. Anche
la recinzione della casa è in parte diroccata, sufficiente comunque a
nasconderci alla vista di eventuali passanti. La casa abbandonata, in ogni
caso, si trova in un luogo abbastanza isolato, e sulla strada acciottolata che
le scorre davanti transitano a volte soltanto alcuni contadini con i loro
rumorosi trattori.
Nel cortile interno le
erbacce sono alte quasi un metro. Giuseppe inizia a sferzarle con la roncola,
ne fa strage. Sfoga così la sua evidente agitazione.
“Smettila, che tanto c’è
il sentiero” lo fermo. Noto che è tutto sudato e rosso in faccia.
Percorriamo in silenzio,
in fila indiana, lo stretto viottolo. Simonetta mi cammina davanti. Osservo con
grande interesse la sua vita stretta, l’ondeggiare dei fianchi, le caviglie
sottili. Cammina un po’ a fatica sul terreno sconnesso a causa delle scarpe che
hanno un piccolo tacco. Giungiamo di fronte alle rovine della casa.
“E adesso?” domanda
Rosa. Un sottile velo di sudore le imperla il labbro superiore, dove noto una
quasi invisibile peluria, decolorata. Chissà se quel sudore ha un sapore
salato, penso, prima di essere colto da una breve vertigine.
“Si può entrare, anche
se è pericoloso” sta dicendo Giuseppe. “Noi conosciamo una via sicura.”
“Ma è tutto crollato!”
sbotta Simonetta.
“No, quella parte è
ancora in piedi. Si può salire, anche se la scala non è molto stabile. Si può
arrivare al primo piano e percorrerlo tutto, il pavimento ha ceduto in alcuni
punti ma procedendo con cautela si può fare.” Noto con piacere che Giuseppe ha
ritrovato la favella. È nel suo elemento, adesso. Al contrario, io sono
assalito dal dubbio. Che ci facciamo qui?
“No!” Il rifiuto di
Simonetta è categorico. “Io lì sopra non ci salgo”.
“Neppure io” dice Rosa.
Giuseppe si stringe
nelle spalle ed entra nella casa. Guardo per un attimo le ragazze, con una
espressione di scusa, poi lo seguo.
“Sei impazzito?”
bisbiglio alla sua schiena. Lui comincia a salire sulla scala pericolante,
senza rispondere. Quando lo raggiungo siamo già al primo piano. Sul pavimento
si aprono dei buchi, qua e là, occorre molta prudenza oppure si finisce di
sotto.
“Non vedi che a loro
non interessa? Perché non le portiamo al parco?” dico, arrabbiato
“A fare che cosa?” dice
lui.
Sbuffo.
“Dai, torniamo giù”
dico toccandogli una spalla. Alla fine ubbidisce.
Quando siamo nel
cortile vediamo che le biciclette non ci sono più. E neppure le ragazze.
“Se ne sono andate”
dice Giuseppe. Sembra sinceramente sorpreso.
“Cosa credevi? Che
stessero ad aspettare il ritorno dell’eroe?”
“Peggio per loro” dice.
“Peggio per noi,
invece!” Sono davvero infuriato con il mio amico.
“Siamo troppo piccoli
per loro” dice Giuseppe, un po’ mortificato.
“Non dire sciocchezze!
Hanno la nostra stessa età!” ribatto.
“No, siamo troppo
piccoli, ti dico. Non hai visto? Avevano il viso tutto truccato”.
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