Entriamo in classe.
Rumore di banchi
spostati, di zainetti buttati a terra senza alcun riguardo, brusio molesto.
Il professor Pezzana è
in piedi davanti alla cattedra, i suoi occhi ci scrutano curiosi dietro le
spesse lenti. Indossa il solito abito grigio, la camicia azzurra d’ordinanza e
la cravatta rossiccia con qualche macchia di troppo. Solleva il mento, dal
quale spunta una ridicola barbetta appuntita che non lo fa assomigliare né a D’Annunzio
né tantomeno a Pirandello, come lui vorrebbe, ma soltanto a una stupida capra.
Aspetta, per un tempo che pare interminabile, che ci sistemiamo, poi inizia a
declamare con la sua voce nasale.
“S’i’ fosse
foco, arderei ‘l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i ’l’annegherei…
Che lagna. Roba
vecchia, roba stantia, roba che annoia. Il capo mi crolla sul banco.
Intendiamoci, io amo la poesia. Fatemi sentire versi di Federico Garcìa Lorca o
di Dylan Thomas e il mio corpo sarà scosso da brividi. Cecco Angiolieri, al
contrario, mi fa cagare.
Mentre il povero
Pezzana si accanisce, del tutto inascoltato, con l’analisi del testo appena recitato,
la mia distrazione diventa totale. Con lo sguardo cerco Luana. È seduta due
banchi avanti, di lei scorgo soltanto i lunghi capelli lisci e neri. Pure lei è
disattenta, sta parlando a bassa voce con Margherita. Chissà, forse stanno
discorrendo di me. Questa mattina, quando ci siamo incontrati davanti alla
scuola, io e Luana abbiamo appena scambiato un minimo cenno di saluto. Poi,
quando stavo salendo i gradini, mi sono accorto che mi stava guardando, e che sorrideva.
Un po’ imbarazzato ho ricambiato il sorriso.
Dopo ciò che è accaduto
ieri tra noi mi sarei aspettato, da parte di entrambi ma in particolare da me,
ben diverso comportamento. Avrei dovuto dirle qualcosa, soprattutto avrei
dovuto dirle la verità.
Pezzana, dopo aver a
lungo predicato nel deserto, decide di cambiare registro e di interrogare.
Subito si presenta volontaria Valeria, miss Secchiona, rovinando così il
divertimento al vecchio caprone. Lo confesso, in quattro anni di scuola non ho
mai rivolto la parola alla mia compagna Valeria, una stangona che indossa
sempre degli eleganti tailleur. Tailleur! Sembra mia nonna, che cosa potrei mai
dire a una così? Preferisco ignorarla. Mentre Valeria sdottora su Petrarca
cerco ancora Luana. Ha il viso rivolto alla finestra, lo sguardo spento. Oppure
sognante? Non lo so, mi limito a scrutare il suo delicato profilo, mi soffermo
sulle sue labbra socchiuse. Le sue labbra! Cristo, le devo proprio parlare, lei
deve sapere, merita di sapere.
Ciò che è accaduto ieri
ci ha traumatizzato. Non mi riferisco a quel che è successo tra me e Luana,
bensì a quell’altro fatto, a quel fatto molto grave. Per mesi, per anni, ci
siamo riempiti la bocca di espressioni sempre più dure, sempre più violente. Ne
andavamo fieri, ne godevamo nel pronunciarle, finché non siamo stati messi di fronte all'autentica brutalità. A quel punto ci siamo resi conto di non essere attrezzati per
affrontarla. Ci siamo sgonfiati, ne siamo rimasti sconvolti. Nessuno
naturalmente lo ha ammesso, ma è sufficiente guardare i volti turbati
angosciati impauriti dei miei compagni per comprendere che nulla sarà più come
prima. Siamo stati ridimensionati, siamo stati ridotti a ciò che in effetti
siamo, ragazzotti che a parole giocavano, ora non più, a fare i grandi.
Otto! Soddisfatta,
compiaciuta e ancora più stronza, Valeria torna al suo posto. Interrogazione
perfetta, come sempre. Mi auguro che adesso Pezzana chiami me. Sono del tutto
impreparato perché ieri, agitato per la faccenda di Luana, frastornato per l’altra
vicenda, ho trascorso il pomeriggio davanti al televisore passando da un
telegiornale all’altro, meditando sulla mia misera condizione personale. Gli
occhi incollati al video, nella retina immagini di sangue, proprio in quei
momenti ho maturato la decisione di informare Luana. Lei deve sapere.
Invece lo sguardo
caprino del professor Pezzana non si posa su nessuno. Nell’ultimo quarto d’ora
spiegherò, dice con voce stanca, rassegnata. Intorno a me sento sospiri di
sollievo. Tutti si rilassano. Luana si volta all’improvviso e mi fissa. I suoi
occhi brillano, risplendono di una luce particolare, che dopo un po’ mi mette a
disagio. Abbasso la testa, fingo di prendere appunti, incapace di sostenere
quell’occhiata che esprime desiderio, sete d’amore.
Ieri, appena abbiamo
appreso la notizia, siamo subito usciti dall’aula. Come automi ci siamo diretti
nell’atrio, dove è sorta dal nulla un’assemblea spontanea alla quale, fatto
unico e raro, hanno partecipato anche gli insegnanti. Toni concitati, a tratti
rabbiosi. La rabbia vuota di chi si sente smarrito. Dopo ci è stato consentito
di andare a casa, anche se nessuno ne aveva voglia. Sono passato attraverso
diversi capannelli di compagni. Alcuni erano ancora infervorati, la maggior
parte di loro aveva un atteggiamento mesto. Mi sono allontanato perché ho
sentito il bisogno di stare solo. Ho raggiunto il retro della palestra, dove
lascio la mia bicicletta. Lì ho incontrato Luana. Era immobile, vicino alla
recinzione, le braccia strette al corpo, come se avesse freddo. Mi sono
avvicinato a lei, le ho chiesto se andava tutto bene. Ha risposto con un cenno
affermativo, con scarsa convinzione, però. Non so perché l’ho fatto, forse ero
ancora sotto choc, ma l’ho abbracciata. Lei si è stretta a me con forza. L’ho
guidata verso il muro della palestra, in un punto dove nessuno ci poteva
scorgere. Ho sollevato le braccia dalla sue spalle e le ho afferrato il viso, l’ho
indirizzato verso il mio. Immediatamente lei ha schiuso le labbra, alle quali
ho appoggiato le mie, ho incollato le mie. Il bacio è stato lunghissimo,
sembrava non dovesse finire mai. Io tenevo gli occhi aperti, i suoi erano
socchiusi. Alla fine ci siamo separati, bisognosi d’aria. Luana ha sorriso, lo
stesso sorriso di stamattina. Dovevi farlo prima, ha aggiunto con voce roca,
sensuale, prima di andarsene. Attonito, ho slegato la bicicletta e sono tornato a casa.
Suona la campanella,
Pezzana non riesce neppure a completare la parola che stava pronunciando. Un’intensa
onda sonora lo travolge, gli scolpisce sul volto una smorfia triste, poi tutti si
lanciano verso la porta dell’aula. Io esco per ultimo e trovo Luana che mi
aspetta, sulla soglia. Ho un paio di minuti prima che la professoressa Sarti
faccia il suo rumoroso ingresso in classe. Adesso o mai più. Glielo devo dire.
Sì, glielo devo proprio dire, alla povera Luana, che io durante quel bacio,
quell’unico bacio, non ho provato nulla. Che se quello stesso giorno, appena poche
ore prima, non avessero rapito Aldo Moro io non l’avrei mai baciata.
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