La luce filtra
attraverso la tapparella socchiusa. È ormai giorno. Vorrei alzarmi dal letto ma
non posso. Devo aspettare. Come accade ogni giorno, devo aspettare. È
assolutamente proibito scendere dai nostri giacigli senza assistenza. E poi,
come potrei farlo? Sono legato alla branda con cinghie di cuoio, che mi
impediscono quasi ogni movimento. Posso soltanto dormire, quando ci riesco. Lo
faccio quando mi imbottiscono di calmanti e sonniferi. Sì, allora dormo
profondamente, un sonno quieto e senza sogni. Comunque, la mia libertà di
movimento è assai limitata. Soltanto quando l’operatore, con tutto comodo,
arriva e finalmente mi libera, posso finalmente recarmi nella stanza comune per
la colazione. Gli altri sono contenti di vedermi, mi salutano con entusiasmo.
“Ciao Popolo! Come va,
Popolo? Tutto bene?”
Tutti mi chiamano
Popolo, e a me sta bene così, perché il mio vero nome l’ho dimenticato. Mi
chiamano in questo modo perché quando sono stato portato qui ho pronunciato una
frase che a tutti è rimasta ben impressa nella mente: “La sovranità appartiene
al popolo!” Non ricordo con precisione per quale motivo articolai quelle
parole. Allora, probabilmente, ne conoscevo bene il significato. Ora non più. Però
deve essere qualcosa di importante, anche se adesso in gran parte mi sfugge.
Quando le terapie alle
quali vengo sottoposto sono meno invasive, nel breve tempo durante il quale la
mia mente è più lucida e meno ottenebrata dalle varie sostanze chimiche,
affiora qualche barlume, emergono frammenti di antica consapevolezza. Ma nulla
è davvero limpido, tutto risulta sempre piuttosto sconnesso.
Io sono il Re! Sono
convinto che sia così, anche se poi non sono in grado di dare seguito a tale
mia tracotante affermazione. Sono un Re senza corona e senza potere. Cerco di
convincere gli altri, tento di indurli a darmi ragione, faccio di tutto per
persuaderli, ma con scarsi risultati.
“Che dici, Popolo? Che
tu sei il Re? E che lo siamo pure noi? Tutti insieme siamo il Re? Popolo, tu
sei completamente matto! Sei pazzo come un cavallo! Sei più folle di tutti noi
messi insieme!”
E tutti quanti scuotono
il capo, ricominciano a fumare, a sputare, giocare a carte, a guardare la
televisione. Gli infermieri invece ridono. Si divertono, loro.
Appena ho fatto
colazione, con la pancia piena, mi ritornano le energie. I miei compagni di
sventura, invece, rimangono apatici. Il mio bersaglio diventano gli inservienti,
o presunti tali. Quei crudeli carcerieri che non perdono mai occasione di
infliggermi tormenti. Ma io rispondo loro per le rime. Perché io sono Popolo,
il ribelle, quello che si piega ma che non si spezza mai.
“Bastardi! Oppressori!
Vigliacchi!” inizio a insultarli. Loro non reagiscono. Sogghignano,
ridacchiano, si danno di gomito. Minacciano di richiudermi nella mia stanza,
immobilizzato dai lacci di cuoio, imbottito di sedativi.
“Smettila, Popolo! Stai
zitto un attimo. Che hai sempre da reclamare?”
“Dovete ridarmi la mia
libertà. Non ho fatto nulla, mi sono solo opposto al vostro sporco sistema.
Voglio di nuovo avere la possibilità di decidere, di fare delle scelte…”
“Lo vedi? Stai di nuovo
farneticando. Che cosa vorresti decidere, poi? Non stai bene qui? Pensiamo noi
a tutto, facciamo in modo che tu sia sereno, che tu non sia assillato da alcun
pensiero. Se la smetti di protestare puoi essere felice.”
“Tiranni! Ci avete
rubato tutto! Voglio parlare con il direttore della banca! Subito!”
“Il direttore dell’istituto?”
E di nuovo qui vigliacchi si sganasciano dalle risate. Mi irridono.
“La banca, l’istituto,
sono la stessa cosa. E voi lo sapete benissimo. Siete i servi del denaro! In
suo nome opprimete i deboli, li private del loro diritto di scegliere!”
“Popolo, che dici? Oggi
sei più folle del solito? Qui cerchiamo soltanto di curare le vostre fragili
menti, di dare un ricovero dignitoso a voi disadattati. Tu e tutti quelli come
te, pieni di idee strane…”
“Dignità? Proprio voi
parlate di dignità? Siete i disgraziati accoliti di un sistema perverso, i
paladini della finanza e del mercato, che tutto decidono e tutto governano. Mi
fate orrore!”
Sputo contro l’inserviente
più grasso, quello che mi è più insopportabile. Lo colpisco. La saliva densa e
schiumosa si allarga sul suo elegante doppiopetto, cola lungo la manica. Lui si
ritrae disgustato, cerca di pulirsi con un fazzoletto bianco.
“Questo non lo dovevi
fare!” Minaccia.
Alzo le spalle, mi
passo una mano sulle labbra ancora umide.
“Forza, chiamate il
cassiere” dico, ormai svuotato, rassegnato e privo di forze.
“Che dici, Popolo? Chi sarebbe
il cassiere?”
“Come, non lo
conoscete? È il vostro compagno, quello con la siringa, quello dall’aria truce
che non parla mai ma che buca le braccia…”
“Oggi ti sei svegliato
male. Non ti faremo nulla, l’importante è che tu stia calmo. Perché non guardi
un po’ la televisione? Ci sono tanti programmi interessanti…”
“Quel ritardato mi ha
rovinato la giacca!” sbraita ancora il grassone.
“Popolo, mettiti seduto”
mi ordina l’altro, quello più mingherlino. Pure lui indossa giacca e cravatta.
Pare che qui dentro una tale divisa sia d’obbligo. Non è la stessa cosa per noi…
clienti? Sì, loro ci chiamano così… Noi indossiamo una specie di pigiama, e
delle pantofole di stoffa.
“Decido io che cosa devo
fare. Non scordate che io sono il Re…” La mia voce è stanca. Ho smarrito presto
la mia combattività. È difficile opporsi, fare resistenza. Sono troppo stanco.
“Ascolta, Popolo. Se
prometti di startene tranquillo, possiamo anticipare quel gioco che ti piace
tanto…” Ancora il mingherlino, con la sua vocetta affettata. È il più bastardo
di tutti loro, perché è il più astuto, e conosce i miei punti deboli.
“Non è un gioco, è il
fondamento di tutto…”
“Va bene, è come dici
tu…”
“Facciamolo” dico. Sono
confuso, esausto.
“Aspetta, vado a prendere
le schede” risponde lui prima di allontanarsi. L’altro continua a non perdermi
di vista. Dopo un attimo l’inserviente (l’impiegato?) è di ritorno. Tra le mani
ha alcune schede. Me ne porge una, assieme a una matita copiativa.
“Allora, chi candidiamo
stavolta?” mi domanda il vigliacco con un gran sorriso di scherno.
“Uh?”
“Vuoi che candidiamo
Pino?” aggiunge rivolgendo uno sguardo in direzione di un mio compagno, che
dorme con il capo appoggiato sul tavolo.
“Sì” rispondo. “Però
anche Mario, i candidati devono essere almeno due.”
“Ah sì? È così che
funziona?” E giù una gran risata.
Prendo la scheda e mi
allontano di qualche passo. La appoggio contro il muro. Con la mano tremante
scrivo un nome, poi traccio su di esso una croce. Ripiego con cura la scheda e
la riconsegno ai miei aguzzini.
“Bene, lo scrutinio lo
faremo più tardi. Adesso devi riposare.”
“No, non voglio
riposare!” urlo, con le mie ultime energie. “Voglio sapere chi ha vinto! Voglio
sapere subito chi mi governerà! Voglio sapere chi mi rappresenterà!” Poi le mie
parole si trasformano in un grido disperato. La mia mente si annebbia. Prima di
perdere conoscenza intravedo lui, il cassiere, armato di siringa.
sinceramente è terrificante (per il significato) ma scritto davvero bene e anche suggestivo.
RispondiEliminaun abbraccio
Ti ringrazio, sei molto gentile.
EliminaRicambio l'abbraccio.