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domenica 13 gennaio 2013

POPOLO



La luce filtra attraverso la tapparella socchiusa. È ormai giorno. Vorrei alzarmi dal letto ma non posso. Devo aspettare. Come accade ogni giorno, devo aspettare. È assolutamente proibito scendere dai nostri giacigli senza assistenza. E poi, come potrei farlo? Sono legato alla branda con cinghie di cuoio, che mi impediscono quasi ogni movimento. Posso soltanto dormire, quando ci riesco. Lo faccio quando mi imbottiscono di calmanti e sonniferi. Sì, allora dormo profondamente, un sonno quieto e senza sogni. Comunque, la mia libertà di movimento è assai limitata. Soltanto quando l’operatore, con tutto comodo, arriva e finalmente mi libera, posso finalmente recarmi nella stanza comune per la colazione. Gli altri sono contenti di vedermi, mi salutano con entusiasmo.
“Ciao Popolo! Come va, Popolo? Tutto bene?”
Tutti mi chiamano Popolo, e a me sta bene così, perché il mio vero nome l’ho dimenticato. Mi chiamano in questo modo perché quando sono stato portato qui ho pronunciato una frase che a tutti è rimasta ben impressa nella mente: “La sovranità appartiene al popolo!” Non ricordo con precisione per quale motivo articolai quelle parole. Allora, probabilmente, ne conoscevo bene il significato. Ora non più. Però deve essere qualcosa di importante, anche se adesso in gran parte mi sfugge.
Quando le terapie alle quali vengo sottoposto sono meno invasive, nel breve tempo durante il quale la mia mente è più lucida e meno ottenebrata dalle varie sostanze chimiche, affiora qualche barlume, emergono frammenti di antica consapevolezza. Ma nulla è davvero limpido, tutto risulta sempre piuttosto sconnesso.
Io sono il Re! Sono convinto che sia così, anche se poi non sono in grado di dare seguito a tale mia tracotante affermazione. Sono un Re senza corona e senza potere. Cerco di convincere gli altri, tento di indurli a darmi ragione, faccio di tutto per persuaderli, ma con scarsi risultati.
“Che dici, Popolo? Che tu sei il Re? E che lo siamo pure noi? Tutti insieme siamo il Re? Popolo, tu sei completamente matto! Sei pazzo come un cavallo! Sei più folle di tutti noi messi insieme!”
E tutti quanti scuotono il capo, ricominciano a fumare, a sputare, giocare a carte, a guardare la televisione. Gli infermieri invece ridono. Si divertono, loro.
Appena ho fatto colazione, con la pancia piena, mi ritornano le energie. I miei compagni di sventura, invece, rimangono apatici. Il mio bersaglio diventano gli inservienti, o presunti tali. Quei crudeli carcerieri che non perdono mai occasione di infliggermi tormenti. Ma io rispondo loro per le rime. Perché io sono Popolo, il ribelle, quello che si piega ma che non si spezza mai.
“Bastardi! Oppressori! Vigliacchi!” inizio a insultarli. Loro non reagiscono. Sogghignano, ridacchiano, si danno di gomito. Minacciano di richiudermi nella mia stanza, immobilizzato dai lacci di cuoio, imbottito di sedativi.
“Smettila, Popolo! Stai zitto un attimo. Che hai sempre da reclamare?”   
“Dovete ridarmi la mia libertà. Non ho fatto nulla, mi sono solo opposto al vostro sporco sistema. Voglio di nuovo avere la possibilità di decidere, di fare delle scelte…”
“Lo vedi? Stai di nuovo farneticando. Che cosa vorresti decidere, poi? Non stai bene qui? Pensiamo noi a tutto, facciamo in modo che tu sia sereno, che tu non sia assillato da alcun pensiero. Se la smetti di protestare puoi essere felice.”
“Tiranni! Ci avete rubato tutto! Voglio parlare con il direttore della banca! Subito!”
“Il direttore dell’istituto?” E di nuovo qui vigliacchi si sganasciano dalle risate. Mi irridono.
“La banca, l’istituto, sono la stessa cosa. E voi lo sapete benissimo. Siete i servi del denaro! In suo nome opprimete i deboli, li private del loro diritto di scegliere!”
“Popolo, che dici? Oggi sei più folle del solito? Qui cerchiamo soltanto di curare le vostre fragili menti, di dare un ricovero dignitoso a voi disadattati. Tu e tutti quelli come te, pieni di idee strane…”
“Dignità? Proprio voi parlate di dignità? Siete i disgraziati accoliti di un sistema perverso, i paladini della finanza e del mercato, che tutto decidono e tutto governano. Mi fate orrore!”
Sputo contro l’inserviente più grasso, quello che mi è più insopportabile. Lo colpisco. La saliva densa e schiumosa si allarga sul suo elegante doppiopetto, cola lungo la manica. Lui si ritrae disgustato, cerca di pulirsi con un fazzoletto bianco.
“Questo non lo dovevi fare!” Minaccia.
Alzo le spalle, mi passo una mano sulle labbra ancora umide.
“Forza, chiamate il cassiere” dico, ormai svuotato, rassegnato e privo di forze.
“Che dici, Popolo? Chi sarebbe il cassiere?”
“Come, non lo conoscete? È il vostro compagno, quello con la siringa, quello dall’aria truce che non parla mai ma che buca le braccia…”
“Oggi ti sei svegliato male. Non ti faremo nulla, l’importante è che tu stia calmo. Perché non guardi un po’ la televisione? Ci sono tanti programmi interessanti…”
“Quel ritardato mi ha rovinato la giacca!” sbraita ancora il grassone.
“Popolo, mettiti seduto” mi ordina l’altro, quello più mingherlino. Pure lui indossa giacca e cravatta. Pare che qui dentro una tale divisa sia d’obbligo. Non è la stessa cosa per noi… clienti? Sì, loro ci chiamano così… Noi indossiamo una specie di pigiama, e delle pantofole di stoffa.
“Decido io che cosa devo fare. Non scordate che io sono il Re…” La mia voce è stanca. Ho smarrito presto la mia combattività. È difficile opporsi, fare resistenza. Sono troppo stanco.
“Ascolta, Popolo. Se prometti di startene tranquillo, possiamo anticipare quel gioco che ti piace tanto…” Ancora il mingherlino, con la sua vocetta affettata. È il più bastardo di tutti loro, perché è il più astuto, e conosce i miei punti deboli.
“Non è un gioco, è il fondamento di tutto…”
“Va bene, è come dici tu…”
“Facciamolo” dico. Sono confuso, esausto.
“Aspetta, vado a prendere le schede” risponde lui prima di allontanarsi. L’altro continua a non perdermi di vista. Dopo un attimo l’inserviente (l’impiegato?) è di ritorno. Tra le mani ha alcune schede. Me ne porge una, assieme a una matita copiativa.
“Allora, chi candidiamo stavolta?” mi domanda il vigliacco con un gran sorriso di scherno.
“Uh?”
“Vuoi che candidiamo Pino?” aggiunge rivolgendo uno sguardo in direzione di un mio compagno, che dorme con il capo appoggiato sul tavolo.
“Sì” rispondo. “Però anche Mario, i candidati devono essere almeno due.”
“Ah sì? È così che funziona?” E giù una gran risata.
Prendo la scheda e mi allontano di qualche passo. La appoggio contro il muro. Con la mano tremante scrivo un nome, poi traccio su di esso una croce. Ripiego con cura la scheda e la riconsegno ai miei aguzzini.
“Bene, lo scrutinio lo faremo più tardi. Adesso devi riposare.”
“No, non voglio riposare!” urlo, con le mie ultime energie. “Voglio sapere chi ha vinto! Voglio sapere subito chi mi governerà! Voglio sapere chi mi rappresenterà!” Poi le mie parole si trasformano in un grido disperato. La mia mente si annebbia. Prima di perdere conoscenza intravedo lui, il cassiere, armato di siringa.

2 commenti:

  1. sinceramente è terrificante (per il significato) ma scritto davvero bene e anche suggestivo.
    un abbraccio

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    1. Ti ringrazio, sei molto gentile.
      Ricambio l'abbraccio.

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