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giovedì 10 gennaio 2013

LA BATTAGLIA



Il campo di battaglia è sempre lo stesso. Una vasta e piatta pianura, cosparsa di chiazze chiare e scure. Anche oggi il sole è sorto all’improvviso. Se sollevo il capo e lo guardo, la sua luce gialla mi ferisce gli occhi. So che starà lassù a illuminare di un chiarore senza ombre questo tragico scenario fino al termine dello scontro. Poi le tenebre caleranno, repentine, e avvolgeranno tutti, i vivi e i morti. Scruto in lontananza, in direzione dell’orizzonte, e già li vedo. Sono loro, i miei nemici, i nostri nemici. La loro armata è schierata in perfetto ordine; le fila sono ben allineate e strettamente serrate. Appaiono ben decisi, risoluti. Davanti marciano le truppe leggere, con le loro uniformi nere. Dietro, tutti gli altri. Una massa scura, compatta e temibile. Dimenticavo di dire che il nero è il loro colore.
Non crediate che sia la prima volta che mi trovo ad affrontare una simile situazione. Mi limito a descrivere ciò che vedo di solito, tutte le volte che devo combattere. Ormai l’avrete compreso, ma lasciate che lo dica ugualmente: sono un soldato. Il mio mestiere è la guerra, e la mia è una guerra che non finisce mai. Non stupitevi, è così. Fidatevi di me, vi prego.
Lo so, in guerra si può morire, e a me è capitato di morire tante volte. Vorrei raccontarvi subito ciò che si prova quando si muore, ma forse non c’è tempo. Attorno a me noto già una grande animazione. Vedo i miei compagni che si preparano, incrocio i loro sguardi preoccupati. Il nemico sta per attaccare? No, impossibile. Loro aspettano, aspettano perché sanno bene che tocca a noi dare inizio alle ostilità. È così, è la regola. Tocca sempre a noi.
Abbasso il capo ed esamino la mia uniforme. Mi piace, la mia uniforme di colore bianco sporco, cucita con stoffa spessa e resistente. Il suo taglio è semplice e asseconda in pieno la mia natura sobria. Verifico che tutto sia in ordine: i bottoni, la cintura di cuoio e tutti gli altri accessori. L’ultima occhiata è per i miei stivali, comodi e robusti. E sempre lucidi. Con un gesto quasi inconsapevole, mi calco in testa il pesante elmo, poi imbraccio le armi. Ecco, adesso anch’io sono pronto.
Il segnale è trasmesso dalle retrovie. Poco alla volta giunge fino a noi, alle prime linee, quelle dei fanti. Le mie. L’ordine è di avanzare, senza alcun indugio.
Le prime fasi della battaglia sono quelle che più prediligo. L’esercito nemico è ancora immobile, in attesa delle nostre mosse. Io e i miei compagni avanziamo veloci nella terra di nessuno, poco alla volta ci stacchiamo dagli altri reparti, che ci seguiranno solo in un secondo momento. Fate attenzione però: queste prime fasi dello scontro sono molto importanti e spesso risultano decisive per l’esito finale.
In questo istante non penso a nulla. Mi concentro soltanto sulla mia posizione, cerco di mantenere le giuste distanze tra i reparti. Siamo allo scoperto. Dietro di noi il resto delle truppe è in attesa mentre l’esercito nemico inizia finalmente ad avanzare, guardingo e prudente.
Tocca sempre a noi, alla fanteria, sostenere il primo contatto con gli avversari. Che dite? Che è quello il momento in cui si manifesta davvero la paura di morire? No, vi sbagliate. In quegli attimi è presente solo la paura, intesa nella sua essenza più pura, e nient’altro. Si tratta di una paura indefinita, vaga, una sensazione impossibile da esprimere e da raccontare. Nessuno di noi teme la morte, l’annientamento. Non è quello ciò che ci spaventa. Sappiamo bene che risusciteremo, ne siamo sicuri perché finora è sempre stato così, e nulla ci fa credere che questo non possa più avvenire. L’angoscia che ci assale e che può paralizzare è ben più sottile. Non capite vero? Non importa, comprenderete in seguito, ve lo assicuro.
Trascorre un po’ di tempo, e ormai entrambi gli eserciti sono dislocati sul campo di battaglia. Scontri? Certo che ci sono degli scontri! Numerosi, violenti, drammatici. C’è grande confusione. Alcuni cavalieri mi superano di slancio poi, di colpo, tornano indietro, eseguono movimenti bizzarri, che in apparenza paiono indecifrabili. I cavalli sono sudati, hanno la schiuma alla bocca, i loro occhi sporgono terrorizzati dalle orbite. Lo confesso: quelle bestie mi fanno paura. Non soltanto quelle nemiche, pure quelle montate dai miei compagni d’armi. Che dite? Quegli animali sono belli, leggiadri, corrono con le criniere al vento? Pazzi! Non è per niente così! Io vedo soltanto ombre scure e minacciose che mi circondano. Dalle groppe nervose di quegli enormi sauri uomini incattiviti dalla disperazione urlano agitando lunghe scimitarre. Cercano di colpire, a volte sforzandosi di individuare un bersaglio preciso, a volte vibrando tremendi fendenti alla cieca. Volano teste, e sono teste di fanti. In fondo, penserete, si tratta di una bella morte, rapida e chirurgica.  La migliore possibile. L’immagine vi affascina, forse? Osate addirittura sorridere a tale riflessione? Bene, provate allora a raffigurarvi questo: non più il capo che spicca dal corpo, in modo netto, preciso, bensì un colpo, un solo colpo, indirizzato al ventre. E tutto ciò che segue. L’avere coscienza delle carni violate, il brivido freddo, l’incredulità. Pensate alle mani che abbandonano le armi e stringono disperate l’addome. Pensate al patetico, inutile sforzo di trattenere i visceri puzzolenti e fumanti che scivolano verso terra e lì si spargono disordinati. Pensate al terrore e al dolore disumano che angustiano lo sventurato soldato che solo la morte ormai può salvare. Fatto? Credo di sì, perché ora avverto che non sorridete più.
Sto avanzando, proprio al centro dello schieramento. Di fronte, sulla mia diagonale, scorgo un arciere nero. Imbraccia l’arco e si appresta a scoccare il dardo. Tuttavia la fortuna mi assiste. Perché tocca a me, mentre lui, nel frattempo, rimane immobile. Stringo le mani sulla lancia e sferro un colpo violento. La lama si conficca in profondità nel suo petto. L’arciere crolla a terra, la sua freccia vola innocua verso il cielo. Allora estraggo con fatica la lancia insanguinata da quelle povere carni che ancora sussultano in preda agli spasmi dell’agonia e proseguo, tremante.
Ora comincio a essere stanco. Mi sento frastornato, le gambe sono diventate pesanti. Eppure non mi posso fermare. Un fante non può mai arretrare, queste sono le regole. Sui lati esterni del campo di battaglia vedo con soddisfazione le nostre truppe pesanti che avanzano e poi occupano la posizione. Osservo gli enormi e paurosi carri, carichi di uomini agguerriti, travolgere e schiacciare la fanteria nemica. Le loro gigantesche ruote non sollevano un granello di polvere. Perché polvere non ce n’è. Qualcuno muore urlando, altri in assoluto e agghiacciante silenzio. Avanti, ancora avanti, poco alla volta. Nei precedenti scontri non mi è mai accaduto di incunearmi così in profondità nelle linee nemiche. Se sono sorpreso? Sì, lo sono, tanto da non sapere che cosa fare. Attendo ordini, che per il momento non giungono. Intravedo un nuovo varco e mi ci introduco, insensibile ai pericoli. Subentra in me un senso di esaltazione che non avevo mai provato prima. Avrò la buona ventura, almeno per una volta, di assistere all’epilogo dello scontro? Perché dico questo? D’accordo, è giusto che lo sappiate: non mi è mai capitato di sopravvivere a una battaglia. La morte, implacabile, mi ha sempre ghermito. In modo sempre differente ma sempre brutale. Tuttavia non ci voglio pensare, qualsiasi distrazione mi potrebbe essere fatale.
Mi guardo attorno e sono pervaso dalla disperazione. Attorno a me è in corso una vera e propria carneficina. Il terreno è disseminato di corpi di uomini e di bestie, a bagno nel loro sangue scuro. Membra e zampe che si contraggono spasmodiche, grida, lamenti, pianti e nitriti disperati. Ferite spaventose, mutilazioni orrende. Invaso dall’orrore della situazione che vivo, mi spingo avanti barcollando attraverso le retrovie avversarie. Come? Non ho sentito. Potete ripetere, per favore? Scusate, ma ho come l’impressione di essere diventato sordo. Sì, adesso ho capito. Capisco, la vostra curiosità e più che lecita ma la risposta è no. È impossibile assuefarsi a queste scene anche se sono già state viste e vissute tante volte. Con il tempo si diventa indifferenti alla morte, non alla sofferenza.
La mia vista è annebbiata dalla stanchezza e dal raccapriccio e quasi non mi accorgo di loro, li avvisto all’ultimo momento. Eppure sono proprio di fronte a me, il sovrano nero e il suo visir. Il consigliere giace, colpito a morte, ai piedi del suo re. L’ha servito fino all’ultimo, con fedeltà e abilità, ma tutto è stato vano. Sorpreso e incredulo, mi rendo conto che il mio esercito sta vincendo. Il comandante nemico è chiuso in un angolo, non ha più vie di fuga. Da un lato lo circondano alcuni mastodontici carri, sull’altro dei cavalieri dall’uniforme chiara gli impediscono ogni movimento. E proprio uno di loro mi rivolge da principio un debole cenno, che poi si trasforma in un vero e proprio incitamento. Subito non comprendo, poi la mia mente si illumina e il mio corpo stremato raccoglie le ultime energie. Che dite? Voi l’avevate capito subito? Siete ancora qui? Sciacalli, andate via! Adesso andate via! Vi supplico!
Il sovrano nemico, possente e bene armato, potrebbe spazzarmi via, potrebbe rubarmi la vita in un attimo, ma invece rimane immobile. Non avrebbe comunque scampo e lo sa. Allora mi sorride. Un sorriso amaro e rassegnato, ma fiero. Distolgo lo sguardo, compio un passo a sinistra, sono costretto a farlo, e mi scaglio su di lui impugnando il lungo coltello. Lo colpisco alla base del collo. Il sangue sprizza copioso e mi inonda il viso.
I miei compagni lanciano un lungo urlo di trionfo.


“Scacco matto!” esclama compiaciuto l’uomo con il turbante.
Il suo avversario si alza in piedi e si inchina. Poi spegne la luce e i due uomini escono.

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