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martedì 29 gennaio 2013

GLI UCCELLI DEL MALAUGURIO


Sono qui, da solo, dietro la finestra, proprio come quella volta di tanti anni fa. Guardo fuori, ma non riesco a scorgere nulla. La pallida luce del sole stenta a penetrare la fitta nebbia. Ma ciò che vedo, in realtà, non è veramente nebbia. Si tratta di un insieme di fumo, polvere, vapori, di venefiche esalazioni, di miasmi maleodoranti. È così ormai da tanto tempo, e ogni giorno che passa la situazione peggiora. Il pianeta sta morendo ed io assisto impotente alla sua agonia.
Sono qui, da solo, in questa casa vuota. Mia moglie, la mia cara Miriam è morta. Ho assistito, tempo fa, colmo di pena e d’angoscia ai suoi ultimi rantoli, alla sua disperata e vana ricerca di un ultimo refolo d’aria pura da ingabbiare nei polmoni ormai avvelenati. E anch’io sono malato, molto malato, ma cerco di resistere. È quasi impossibile uscire da casa. A volte sono costretto a farlo, per procurarmi quel poco cibo che è ancora disponibile, ma è necessario – in quel caso - adottare enormi precauzioni. Lo scafandro, la maschera per la respirazione, gli occhiali a tenuta stagna e tutto il resto. Ed è inutile invocare la pioggia, quella pioggia che potrebbe, almeno in parte, ripulire l’atmosfera tossica. Quando l’acqua finalmente scende, da quel cielo che riusciamo solo più a intravedere, è calda e acida. Guai se viene a contatto con la pelle, con gli occhi: corrode e acceca, senza riguardo, senza alcuna pietà.
Sono qui, da solo, privo di speranza, ma non mi arrendo. Sono stanco, ho bisogno di sedermi spesso, di riposarmi. Il mio respiro è ridotto a un orrendo sibilo. Non ho più la forza per muovermi. I miei gesti sono lenti e deboli. Sono ben consapevole che non ci sia più nulla da fare. Purtroppo abbiamo esitato troppo, abbiamo sempre rinviato, e alla fine ci siamo resi conto che non c’era più modo di intervenire. Troppo tardi. È doloroso ammetterlo, ma la Terra morirà: questo è il suo prossimo destino. Per qualche tempo abbiamo sperato nelle nostre risorse tecnologiche - l’unico strumento cui ci siamo affidati - alle quali abbiamo concesso senza riserve tutta la nostra fiducia. Invece, anche in quella circostanza, una volta di più, siamo stati ottusi e ciechi. Proprio quella scienza – che credevamo portatrice di grandi benefici e in grado di risolvere tutti i nostri problemi - si è rivoltata contro di noi e ha decretato la nostra fine. Senza appello. Ora non siamo rimasti in molti. D’altra parte, che senso ha vivere, anzi sopravvivere, in un mondo simile? Per una sorta di tacito accordo, nessuno ha più fatto figli. Non è più prevalso – ed è stata una fortuna, credo - il desiderio egoistico dell’immortalità da ricercare attraverso la perpetuazione della specie. Così la popolazione è invecchiata sempre di più. Poi sono cominciati i decessi. A milioni, da un giorno all’altro, per le più svariate cause, non ultima ma ugualmente drammatica il suicidio di massa. E, a quel punto, quasi tutto si è fermato. La produzione di beni è diminuita fin quasi ad annullarsi, gli scambi commerciali hanno cominciato a rallentare e infine sono cessati. In seguito si sono svuotate le città ed è cambiato il modo di vivere dei sopravvissuti. È iniziata la corsa verso le campagne, la fuga verso quei luoghi ritenuti meno contaminati. Ma non c’era più nulla da fare. Il processo che, con la nostra stoltezza, avevamo attivato, era ormai inarrestabile e irreversibile.
Sono qui, da solo, in preda a pensieri funesti. Come abbiamo potuto fare questo, mi domando? Ed è un pensiero che tormenta di continuo la mia misera esistenza. E al quale non riesco a dare una risposta sensata. Eppure tutto ciò è avvenuto, e ciascuno ne è responsabile in uguale misura, nessuno può essere assolto. Ho passato molto tempo a piangere. Ho versato, copiose e incontenibili, lacrime di rabbia e di sconforto. Ora non ci riesco più. Perché adesso, per me, è giunto il tempo di aspettare. E so che non dovrò farlo ancora a lungo; il tempo in cui finalmente si avvererà quel lontano vaticinio è ormai arrivato. Lo sento, nel corpo e nella mente.


Quel giorno mi ero alzato presto. Ricordo che era la vigilia di Natale. Di solito amavo svegliarmi all’alba, ma quello era un giorno speciale. Avevo la residenza degli studenti a mia completa disposizione. O quasi. Oltre a me, erano rimasti un altro ragazzo – Aldo, il mio compagno di stanza – e una ragazza, Miriam. Proprio quella che ritenevo, a torto o a ragione, la mia ragazza, anche se purtroppo era la stessa cosa che credeva pure Aldo, il mio migliore amico. Lei, d’altra parte, sembrava non avesse ancora scelto, e si divertiva un mondo a tenere entrambi nell’incertezza. Tra il personale del collegio era presente solo il portiere, ma il vecchio Anselmo non abbandonava mai la sua guardiola situata al piano terra. L’edificio era dunque tutto per me; i miei due compagni preferivano poltrire fino a tardi e di sicuro non sarebbero comparsi prima di mezzogiorno. Per prima cosa mi feci una lunga doccia. Fu delizioso e, con mia grande sorpresa, l’acqua rimase calda fino alla fine, a differenza di quanto accadeva di solito. Rinvigorito, scesi nel locale cucina; la mia intenzione era quella di saccheggiare la dispensa, comprese le scorte dei compagni che erano rientrati alle loro abitazioni in occasione delle feste, lasciando in tal modo incustoditi i loro preziosi tesori alimentari. Iniziai, con metodo, dalla marmellata di more. Ne ero molto ghiotto. La mangiai direttamente dal barattolo, servendomi di un grosso cucchiaio: un autentico godimento per il palato. Passai subito dopo alle tavolette di cioccolata dell’odiato Samuele che, al suo ritorno, non avrebbe trovato più nulla. Alla fine, ma soltanto alla fine, sbocconcellai una fetta di pane e bevvi del succo di frutta. Ero sazio, e leggermente nauseato. Faceva troppo freddo per uscire quindi, per smaltire il lauto pasto, cominciai a percorrere i lunghi corridoi, senza meta, assaporando il silenzio. Ogni tanto entravo in qualche locale, in qualche stanza, rimanevo un po’ a curiosare, poi riprendevo il mio peregrinare. Infine scesi di un piano e mi diressi verso la biblioteca. Si trattava di un vasto ambiente di forma rettangolare. Su tre pareti erano disposti - su alti scaffali - i volumi. Sull’ultima c’era un’ampia finestra, rivolta verso il giardino. La quiete che mi avvolgeva trasmetteva ai miei sensi una strana eccitazione. Per calmarmi, decisi di fermarmi a leggere qualcosa. Scelsi, a caso, ‘Pollution and total destruction’ di Samuel G. Jackson, un ecologo americano di indubbia fama. L’argomento trattato sembrava interessante e, inoltre, avevo bisogno di fare un po’ di pratica di lingua inglese. Mi accoccolai su una comoda poltrona, proprio accanto alla finestra. Prima di iniziare a leggere diedi un’occhiata fuori. Il cielo era plumbeo, le nuvole erano gonfie di neve. E fu proprio in quell’istante, un momento che non scorderò mai, che li vidi. Sembravano appesi in cielo. Non so dire quanti fossero, ma erano tanti, disposti in più file sovrapposte. Apparivano ai miei occhi come immagini piatte, a due sole dimensioni, ma mi accorsi ben presto che non era così. Si trattava di corpi. Erano corpi di strani esseri. La loro tozza figura ricordava quella di un pinguino, anche se le zampe erano più grandi e dotate di robusti artigli. La loro testa invece era simile a quella di un avvoltoio. Rammento che rimasi molto impressionato da quei becchi ricurvi, di color giallo sporco, e da quegli occhi dalle pupille rosse. A quella vista provai stupore e disorientamento, ma non vera paura, perché il loro sguardo non sembrava malvagio. Era più che altro triste. Tuttavia, d’istinto, indietreggiai. Urtai la poltrona e caddi a terra. Mi rialzai e subito rivolsi lo sguardo all’esterno, e loro erano ancora là, immobili, nel cielo grigio. Pensai di scappare, di andare a svegliare Aldo e Miriam, ma non mi mossi. Ero come ipnotizzato da quell’incredibile visione, che mi attirava. Provai un fremito all’interno della testa. Vibrazioni. Avevo l’impressione che il mio cervello andasse a sbattere contro le pareti del cranio, prima da una parte e poi dall’altra. Alla fine udii la voce, nitida. Sobbalzai, impaurito. Era la mia voce.
“Ti abbiamo forse spaventato? Stai tranquillo, non ti faremo del male, le nostre intenzioni sono pacifiche. E non essere troppo turbato per ciò che ti sta accadendo. Siamo spiacenti, ma questo è il modo più semplice che abbiamo trovato per poter comunicare con te.”
In quel momento ero confuso e sgomento, incapace di formulare pensieri compiuti, e nemmeno in grado di articolare alcun suono. La mia mente, per un attimo, vacillò.
“Devi sapere che noi siamo semplici esploratori e che veniamo da molto lontano. Stiamo osservando, per poi riferire alla nostra gente. Abbiamo ricevuto un incarico delicato. Tra un po’ di tempo, anche se non sappiamo ancora quando, noi prenderemo possesso di questo pianeta. Questo ci è stato comandato di fare, e noi eseguiremo. È bene che tu sappia che la nostra non sarà un’invasione; noi, semplicemente, rimpiazzeremo voi esseri umani. Siamo desolati, ma purtroppo la vostra specie si è dimostrata incapace di prendersi cura di questo mondo, un mondo che vi era stato affidato affinché ne aveste riguardo e che invece state distruggendo. Noi cercheremo di salvarlo. Lo ripuliremo e lo renderemo di nuovo un luogo in cui sarà piacevole vivere. Rimedieremo così ai vostri errori, alla vostra irresponsabilità e alla vostra negligenza. In seguito, appena avremo ultimato la nostra opera, potrà esserci finalmente un nuovo inizio, ma voi non ne farete più parte, perché non ci sarete più. Avete fallito e non meritate un’altra possibilità. Siamo molto addolorati per questo.”
Seppure a fatica, compresi ciò che mi era stato comunicato. Provai rabbia e un profondo senso di ribellione, anche se ero cosciente del fatto che quelle strane creature avevano ragione. Tra le mani stringevo ancora il libro. Con uno scatto improvviso lo gettai alle mie spalle.
“Adesso noi ce ne andremo, ma torneremo. Ma non prima che il vostro infelice destino sia giunto al suo pieno compimento. Vi attendono enormi sofferenze. Sappiamo bene come l’estinzione di una specie sia un processo terribile e straziante. I vostri patimenti saranno anche i nostri. Avete fallito, ma non vi faremo mancare la nostra pietà.”
Ero ancora stordito da quelle potenti onde sonore che a lungo mi avevano tormentato il cervello, però notai con sorpresa che le mie corde vocali avevano ripreso a funzionare. Allora spalancai la finestra, mi affacciai e iniziai a gridare.
“Chi siete? Che cosa volete? Cosa state dicendo? Via, andate via! Maledetti profeti di sventure! Andate via, dannati uccelli del malaugurio!”
Non li vidi più.


E adesso sono qui, da solo, e li sto aspettando. So che torneranno, ne sono sicuro perché tutto ciò che avevano previsto si è avverato. Verranno perché questo pianeta sta davvero morendo e c’è bisogno della loro saggezza.
Io quella volta li ho visti, e loro hanno parlato con me.
Cerco di alzarmi, ma il mio torace è scosso da una tosse secca, cattiva. Con indifferenza sputo a terra un grumo di sangue. Le forze mi stanno abbandonando sempre di più. Mi aggrappo al davanzale della finestra e incollo gli occhi al vetro.
Tornate, vi prego…

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