L’uomo parla di fronte
a una platea ridotta. Si tratta di cinque persone in tutto, uomini e donne, che
hanno partecipato a quel singolare progetto che lui ha diretto.
“Signori, ci ritroviamo
qui insieme per l’ultima volta. Siete ormai giunti al termine del vostro
percorso. A questo punto avrete maturato in pieno la consapevolezza che vi ha
portato a intraprendere questa strada. Non è più possibile, per voi, tornare
indietro. E lo sapete. Tuttavia, osservando i vostri volti sereni, deduco che
in voi non sia rimasto nessun rammarico, alcuna nostalgia. Avete assunto una
decisione coraggiosa e l’avete portata avanti con grande determinazione. Domani
vi sarà somministrata la terapia finale, l’ultima, la definitiva, quella che vi
condurrà alla completa guarigione dal vostro male. Vi debbo ringraziare perché
è stato bello lavorare con voi. È stata per me una esperienza molto
gratificante e, soprattutto, estremamente significativa. Nonché formativa. Una
pratica che mi consentirà un approccio ancora più positivo, mi auguro, con i
prossimi gruppi, quelli che vi seguiranno. Sarete ricordati come autentici
pionieri, eroici precursori. Per vostro
merito i diritti civili, le prerogative proprie della persona, hanno raggiunto
e oltrepassato limiti che, fino a poco tempo fa, parevano essere invalicabili.
Tutto ciò che riguarda l’autodeterminazione dell’individuo, la sua potestà di
scelta, non sarà mai più come prima. Un enorme passo avanti per l’umanità, una
grande dimostrazione di evoluzione e di progresso per la nostra società. Non ho
altro da aggiungere, pertanto mi limito a rinnovare la mia riconoscenza nei
vostri confronti. In ultimo, se voi siete d’accordo, vorrei chiedervi di
terminare i nostri incontri allo stesso modo in cui hanno avuto inizio.
Rammentando, a me e ai vostri compagni in questo viaggio, ciò che vi ha spinto
a intraprendere tale nobile cammino. Nel farlo, vi renderete conto che i vostri
ricordi, la rievocazione dei vostri limiti passati e delle vostre umane debolezze
sono realtà oggettive che non riproducono più sensazioni di dolore e di
sofferenza, ma soltanto pace. Perché tutto è stato superato, adesso che vi
apprestate ad essere condotti al risolutivo e conclusivo risanamento.”
L’uomo smette di
parlare e sorride alla sua attenta platea. Si porta alle labbra un bicchiere
d’acqua. Beve un sorso e rivolge di nuovo l’attenzione alla sala. Alle cinque
persone sedute di fronte a lui, uomini e donne.
“Maria, vuoi iniziare
tu?” dice.
La donna si alza in
piedi. È molto bella, tutto in lei è armonioso: i capelli biondi e soffici, che
incorniciano un ovale perfetto, nel quale spiccano la bocca dalla linea morbida
e i grandi occhi celesti. Il corpo, flessuoso, dalle proporzioni perfette.
Inizia a parlare, con un tono di voce piatto.
“Si dice che la nostra
vita sia il prodotto di una serie di scelte, e ciò corrisponde al vero.
Soltanto una minima parte dell’esistenza è legata al caso, a eventi che noi non
abbiamo la possibilità di governare. Nel mio caso, quest’ultimo aspetto è stato
del tutto ininfluente. Io mi trovo nella attuale condizione perché non ho mai
rinunciato a decidere. L’ho sempre fatto, confidando nelle mie capacità di
valutazione, nella mia grande determinazione. Non ho mai lasciato che decisioni
che mi riguardassero fossero assunte da altri. Ho sempre voluto essere padrona
della mia vita. E così mi sono ritrovata a compiere continuamente scelte
importanti, con risolutezza, senza indugi. Tutti hanno sempre elogiato la mia
capacità di assumere in pieno le responsabilità, di non sottrarmi da tali attribuzioni.
Una dote rara, che non è di tutti, mi è stato detto. Un elogio, un
riconoscimento che ha nutrito sempre di più il mio orgoglio. E la mia vanità.
Soltanto a un certo punto dell’esistenza mi sono resa conto che tutte le scelte
che avevo compiuto erano sbagliate. Nessuna di quelle decisioni si è rivelata
per me favorevole. Mi sono sentita annientata. Smarrita, senza più la
possibilità di ritrovare la giusta strada. Ho cercato di essere forte un’ultima
volta, e ho deciso di partecipare a questo programma. Finora ho sempre fallito,
questa volta spero di no… Grazie.”
La donna si siede.
“Bene” dice l’uomo.
“Anselmo, vuoi proseguire tu?”
L’interpellato si alza
in piedi. Si tratta di un tipo mingherlino, infagottato in una giacca troppo
grande. Porta occhiali dalle spesse lenti, le sue guance sono ricoperte da una
rada peluria. Si guarda attorno, poi si schiarisce la voce e inizia a parlare,
con voce sottile.
“Quando ho sentito per
la prima volta l’esperienza di Maria, ne sono rimasto strabiliato. Perché ho apprezzato,
e soprattutto invidiato, la sua capacità di decidere. Vedete, a me è accaduto
esattamente il contrario. Tutte le volte, e sono state tante, che mi sono
ritrovato di fronte due o più opzioni, non sono stato in grado di operare una
scelta. L’indecisione mi ha sempre ghermito e mi ha reso incapace di prendere
una qualsiasi risoluzione. Un blocco totale, impossibile da superare. La
conseguenza delle mie innumerevoli esitazioni, della mia continua incertezza, è
stata una vita non vissuta. L’esistenza mi ha sballottato di continuo da una
parte e dall’altra, senza che io avessi la possibilità di interferire. In
pratica, l’ho subita, preda come sono sempre stato di dubbi, titubanze e
perplessità. Se oggi sono qui, è perché qualcun altro ha deciso per me. Lo ha
fatto per aiutarmi, dice. Mi auguro che questa persona abbia ragione…
L’uomo si siede,
esausto.
“Alberto, tocca a te”
dice il direttore del progetto.
Il giovane si alza in
piedi e sorride. Dimostra non più di trent’anni, ed è un individuo piuttosto
attraente. Indossa abiti sportivi, che mettono in evidenza il suo fisico scultoreo.
Prima di iniziare a parlare si passa una mano tra i folti capelli, li
scompiglia.
“Credo di capire perché
mi ha chiesto di intervenire subito dopo l’amico Anselmo, dottore. In fondo io
e lui abbiamo qualcosa in comune. Certo, di sicuro non l’aspetto (ride), ma
questo non ha importanza. Il fatto è che anch’io, come Anselmo, nel corso della
vita non sono mai stato in grado di scegliere. Perché non ne ho mai avuto la
forza, oppure il coraggio, o semplicemente non ho mai voluto scontentare
nessuno. La differenza tra me e lui tuttavia sta nel fatto che, nel mio caso,
tale perenne indecisione si è sempre limitata a un solo elemento dell’esistenza,
quello più importante. Mi riferisco alla sfera dei sentimenti. In tutti gli
altri campi non ho mai avuto il minimo dubbio, alcuna incertezza. Pur essendo
ancora giovane, mi posso considerare un uomo di successo. Nel lavoro,
soprattutto, ma ugualmente in tutto il resto. Rimane però quel mio grave
limite, vale a dire la sfera affettiva, ed è proprio ciò che mi ha condotto
alla rovina. Non ho mai negato a nessuno la mia incondizionata amicizia, e si è
trattato di un grave errore. Sono stato tradito da quasi tutti quei presunti
amici. Avrei dovuto, tra loro, operare una selezione, fare delle distinzioni.
Non sono stato in grado di farlo, e l’ho pagata cara. Non volevo deludere
nessuno, intendevo piacere a tutti, e la mia illusione si è ben presto infranta,
lasciandomi a pezzi. Ma gli sbagli più gravi li ho commessi in amore. Non mi
sono mai accontentato di una sola donna, le ho volute amare tutte. Mi ritenevo
capace di dispensare a tutte quelle che incontravo qualcosa di me, ero convinto
di poter offrire a ognuna di loro affetto ed emozioni. Alla fine ho scoperto
con sgomento che fare ciò non è possibile e, allo stesso tempo, mi sono reso
conto di aver buttato la mia vita. In più, credo di aver causato molta
sofferenza. Non erano queste le mie intenzioni, dal momento che ritengo di
essere una persona buona e generosa. È drammatico scoprire che la bontà, al
pari della malvagità, possa provocare immenso dolore. Adesso non ho più stima
di me stesso. Mi odio. Ed proprio per questo motivo che mi trovo qui.”
Il giovane si siede. Il
suo viso affascinante è imperlato di minuscole gocce di sudore.
“Albina, credo sia il
tuo turno” dice l’uomo seduto dietro la scrivania.
La donna alla quale si
è rivolto annuisce e si alza in piedi. È piccola di statura, e quasi
scheletrica. Porta i capelli rossicci tirati all’indietro e legati in due
patetiche trecce. Il viso, dai lineamenti sottili, è punteggiato da una miriade
di minuscole efelidi. La sua voce è stridula.
“Fin dall’inizio, da
quando era soltanto una bambina, ho compreso di non essere attrezzata per la
vita. Innanzitutto a causa del mio corpo. Era brutto e sgraziato. Quando mi
confrontavo con le mie amiche ero sempre assalita dallo sconforto. Sapevo, fin
da allora, che non sarei stata capace di reggere il loro passo. Loro erano
costruite per la vita, io per sopravvivere. E così è stato. Quando mi sono
ritrovata donna, le cose sono ancora peggiorate. Ormai ero rimasta indietro in
maniera definitiva, non c’era più alcun modo di recuperare. Ero di continuo
malata, colpita da affezioni del corpo e della mente, che si rifiutava di
rassegnarsi, di accettare una condizione così desolante. Di conseguenza nel
corso dell’esistenza non sono riuscita a fare nulla. Non mi sono mai realizzata
sul lavoro, non ho mai conosciuto l’amore, e tutto ciò che a quel sentimento si
accompagna. A poco a poco mi sono isolata sempre di più, la commiserazione nei confronti
di me stessa si è allargata a dismisura. Mi sono abbandonata completamente al
compatimento e alla pena. Mi sono trasformata in una morta vivente. Adesso potrò
finalmente guarire.”
La donna si siede e,
per la prima volta, un lieve sorriso affiora sulle sue inesistenti labbra.
“Grazie, Albina.
Rodolfo, tocca a te concludere il nostro ultimo incontro” dice il responsabile
del progetto.
L’uomo si alza in piedi
a fatica. Il suo enorme corpo non gli permette di muoversi con agilità. Alza le
spalle, quasi volesse chiede scusa, si gratta la fronte spaziosa, poi inizia a
parlare. Il timbro della sua voce è basso, profondo.
“Che cosa volete che vi
dica? Di me sapete ormai tutto, non posso aggiungere nulla di nuovo. Come, allo
stesso modo, non posso aggiungere nulla di nuovo alla mia vita. Credo di aver
fatto tutto ciò che ho avuto la possibilità di fare. Perché le azioni della
nostra esistenza sono condizionate dai nostri limiti, dalle nostre
imperfezioni. Eppure io credo di essere giunto molto vicino a questi confini, di
avere sfruttato fino in fondo tutte le mie potenzialità, quelle che la natura
mi ha fornito. Già, di più non avrei proprio potuto fare. Ma ora non ho più obiettivi,
non ho più aspettative. Non ho più la speranza. D’ora in avanti sarei costretto
a ripetermi, a fare cose che ho già fatto tante volte. E probabilmente le farei
in maniera peggiore. No, non ne ho più voglia. Sono tanto stanco, sono
annoiato. Ho deciso di aderire a questo progetto per due ragioni. La prima è la
stessa di tutti voi: spero nella guarigione di tutti i miei mali esistenziali.
La seconda è ancora più semplice. Dopo tanto tempo mi trovo a poter fare
qualcosa di nuovo, qualcosa che non è avvolto dal solito tedio, dall’usuale
fastidio. Che non ho mai fatto in precedenza e che di sicuro non ripeterò.
Quest’ultima certezza mi riempie di gioia. Grazie, dottore.”
L’uomo risistema il suo
grosso corpo sulla sedia. È commosso, i suoi piccoli occhi sono lucidi.
Il dottore richiama l’attenzione
di tutti. Si alza in piedi.
“Bene, si conclude il
nostro ultimo incontro. Vi ringrazio ancora una volta per il vostro impegno, e per
avere creduto in me. Vi auguro una serata tranquilla e una notte serena. Domani
vi sarà somministrata la cura che sapete, e le vostre afflizioni scompariranno.
Ritroverete finalmente la pace. Grazie, di nuovo.”
A poco a poco tutti,
uomini e donne, lasciano la sala. Tranne il dottore. Si risiede per un attimo
dietro la scrivania, pensieroso. Si stringe il capo tra le mani. Poi si alza
all’improvviso e, a lunghi passi, guadagna a sua volta l’uscita. Prima di chiudere
a chiave la porta si sofferma per un attimo sulla scritta a caratteri rossi che
risalta sul vetro: REPARTO
SUICIDIO ASSISTITO.
Infine si allontana soddisfatto.
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