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mercoledì 23 gennaio 2013

IL GIORNO DOPO



L’uomo parla di fronte a una platea ridotta. Si tratta di cinque persone in tutto, uomini e donne, che hanno partecipato a quel singolare progetto che lui ha diretto.
“Signori, ci ritroviamo qui insieme per l’ultima volta. Siete ormai giunti al termine del vostro percorso. A questo punto avrete maturato in pieno la consapevolezza che vi ha portato a intraprendere questa strada. Non è più possibile, per voi, tornare indietro. E lo sapete. Tuttavia, osservando i vostri volti sereni, deduco che in voi non sia rimasto nessun rammarico, alcuna nostalgia. Avete assunto una decisione coraggiosa e l’avete portata avanti con grande determinazione. Domani vi sarà somministrata la terapia finale, l’ultima, la definitiva, quella che vi condurrà alla completa guarigione dal vostro male. Vi debbo ringraziare perché è stato bello lavorare con voi. È stata per me una esperienza molto gratificante e, soprattutto, estremamente significativa. Nonché formativa. Una pratica che mi consentirà un approccio ancora più positivo, mi auguro, con i prossimi gruppi, quelli che vi seguiranno. Sarete ricordati come autentici pionieri, eroici precursori.  Per vostro merito i diritti civili, le prerogative proprie della persona, hanno raggiunto e oltrepassato limiti che, fino a poco tempo fa, parevano essere invalicabili. Tutto ciò che riguarda l’autodeterminazione dell’individuo, la sua potestà di scelta, non sarà mai più come prima. Un enorme passo avanti per l’umanità, una grande dimostrazione di evoluzione e di progresso per la nostra società. Non ho altro da aggiungere, pertanto mi limito a rinnovare la mia riconoscenza nei vostri confronti. In ultimo, se voi siete d’accordo, vorrei chiedervi di terminare i nostri incontri allo stesso modo in cui hanno avuto inizio. Rammentando, a me e ai vostri compagni in questo viaggio, ciò che vi ha spinto a intraprendere tale nobile cammino. Nel farlo, vi renderete conto che i vostri ricordi, la rievocazione dei vostri limiti passati e delle vostre umane debolezze sono realtà oggettive che non riproducono più sensazioni di dolore e di sofferenza, ma soltanto pace. Perché tutto è stato superato, adesso che vi apprestate ad essere condotti al risolutivo e conclusivo risanamento.”
L’uomo smette di parlare e sorride alla sua attenta platea. Si porta alle labbra un bicchiere d’acqua. Beve un sorso e rivolge di nuovo l’attenzione alla sala. Alle cinque persone sedute di fronte a lui, uomini e donne.
“Maria, vuoi iniziare tu?” dice.
La donna si alza in piedi. È molto bella, tutto in lei è armonioso: i capelli biondi e soffici, che incorniciano un ovale perfetto, nel quale spiccano la bocca dalla linea morbida e i grandi occhi celesti. Il corpo, flessuoso, dalle proporzioni perfette. Inizia a parlare, con un tono di voce piatto.
“Si dice che la nostra vita sia il prodotto di una serie di scelte, e ciò corrisponde al vero. Soltanto una minima parte dell’esistenza è legata al caso, a eventi che noi non abbiamo la possibilità di governare. Nel mio caso, quest’ultimo aspetto è stato del tutto ininfluente. Io mi trovo nella attuale condizione perché non ho mai rinunciato a decidere. L’ho sempre fatto, confidando nelle mie capacità di valutazione, nella mia grande determinazione. Non ho mai lasciato che decisioni che mi riguardassero fossero assunte da altri. Ho sempre voluto essere padrona della mia vita. E così mi sono ritrovata a compiere continuamente scelte importanti, con risolutezza, senza indugi. Tutti hanno sempre elogiato la mia capacità di assumere in pieno le responsabilità, di non sottrarmi da tali attribuzioni. Una dote rara, che non è di tutti, mi è stato detto. Un elogio, un riconoscimento che ha nutrito sempre di più il mio orgoglio. E la mia vanità. Soltanto a un certo punto dell’esistenza mi sono resa conto che tutte le scelte che avevo compiuto erano sbagliate. Nessuna di quelle decisioni si è rivelata per me favorevole. Mi sono sentita annientata. Smarrita, senza più la possibilità di ritrovare la giusta strada. Ho cercato di essere forte un’ultima volta, e ho deciso di partecipare a questo programma. Finora ho sempre fallito, questa volta spero di no… Grazie.”
La donna si siede.
“Bene” dice l’uomo. “Anselmo, vuoi proseguire tu?”
L’interpellato si alza in piedi. Si tratta di un tipo mingherlino, infagottato in una giacca troppo grande. Porta occhiali dalle spesse lenti, le sue guance sono ricoperte da una rada peluria. Si guarda attorno, poi si schiarisce la voce e inizia a parlare, con voce sottile.
“Quando ho sentito per la prima volta l’esperienza di Maria, ne sono rimasto strabiliato. Perché ho apprezzato, e soprattutto invidiato, la sua capacità di decidere. Vedete, a me è accaduto esattamente il contrario. Tutte le volte, e sono state tante, che mi sono ritrovato di fronte due o più opzioni, non sono stato in grado di operare una scelta. L’indecisione mi ha sempre ghermito e mi ha reso incapace di prendere una qualsiasi risoluzione. Un blocco totale, impossibile da superare. La conseguenza delle mie innumerevoli esitazioni, della mia continua incertezza, è stata una vita non vissuta. L’esistenza mi ha sballottato di continuo da una parte e dall’altra, senza che io avessi la possibilità di interferire. In pratica, l’ho subita, preda come sono sempre stato di dubbi, titubanze e perplessità. Se oggi sono qui, è perché qualcun altro ha deciso per me. Lo ha fatto per aiutarmi, dice. Mi auguro che questa persona abbia ragione…
L’uomo si siede, esausto.
“Alberto, tocca a te” dice il direttore del progetto.
Il giovane si alza in piedi e sorride. Dimostra non più di trent’anni, ed è un individuo piuttosto attraente. Indossa abiti sportivi, che mettono in evidenza il suo fisico scultoreo. Prima di iniziare a parlare si passa una mano tra i folti capelli, li scompiglia.
“Credo di capire perché mi ha chiesto di intervenire subito dopo l’amico Anselmo, dottore. In fondo io e lui abbiamo qualcosa in comune. Certo, di sicuro non l’aspetto (ride), ma questo non ha importanza. Il fatto è che anch’io, come Anselmo, nel corso della vita non sono mai stato in grado di scegliere. Perché non ne ho mai avuto la forza, oppure il coraggio, o semplicemente non ho mai voluto scontentare nessuno. La differenza tra me e lui tuttavia sta nel fatto che, nel mio caso, tale perenne indecisione si è sempre limitata a un solo elemento dell’esistenza, quello più importante. Mi riferisco alla sfera dei sentimenti. In tutti gli altri campi non ho mai avuto il minimo dubbio, alcuna incertezza. Pur essendo ancora giovane, mi posso considerare un uomo di successo. Nel lavoro, soprattutto, ma ugualmente in tutto il resto. Rimane però quel mio grave limite, vale a dire la sfera affettiva, ed è proprio ciò che mi ha condotto alla rovina. Non ho mai negato a nessuno la mia incondizionata amicizia, e si è trattato di un grave errore. Sono stato tradito da quasi tutti quei presunti amici. Avrei dovuto, tra loro, operare una selezione, fare delle distinzioni. Non sono stato in grado di farlo, e l’ho pagata cara. Non volevo deludere nessuno, intendevo piacere a tutti, e la mia illusione si è ben presto infranta, lasciandomi a pezzi. Ma gli sbagli più gravi li ho commessi in amore. Non mi sono mai accontentato di una sola donna, le ho volute amare tutte. Mi ritenevo capace di dispensare a tutte quelle che incontravo qualcosa di me, ero convinto di poter offrire a ognuna di loro affetto ed emozioni. Alla fine ho scoperto con sgomento che fare ciò non è possibile e, allo stesso tempo, mi sono reso conto di aver buttato la mia vita. In più, credo di aver causato molta sofferenza. Non erano queste le mie intenzioni, dal momento che ritengo di essere una persona buona e generosa. È drammatico scoprire che la bontà, al pari della malvagità, possa provocare immenso dolore. Adesso non ho più stima di me stesso. Mi odio. Ed proprio per questo motivo che mi trovo qui.”
Il giovane si siede. Il suo viso affascinante è imperlato di minuscole gocce di sudore.
“Albina, credo sia il tuo turno” dice l’uomo seduto dietro la scrivania.
La donna alla quale si è rivolto annuisce e si alza in piedi. È piccola di statura, e quasi scheletrica. Porta i capelli rossicci tirati all’indietro e legati in due patetiche trecce. Il viso, dai lineamenti sottili, è punteggiato da una miriade di minuscole efelidi. La sua voce è stridula.
“Fin dall’inizio, da quando era soltanto una bambina, ho compreso di non essere attrezzata per la vita. Innanzitutto a causa del mio corpo. Era brutto e sgraziato. Quando mi confrontavo con le mie amiche ero sempre assalita dallo sconforto. Sapevo, fin da allora, che non sarei stata capace di reggere il loro passo. Loro erano costruite per la vita, io per sopravvivere. E così è stato. Quando mi sono ritrovata donna, le cose sono ancora peggiorate. Ormai ero rimasta indietro in maniera definitiva, non c’era più alcun modo di recuperare. Ero di continuo malata, colpita da affezioni del corpo e della mente, che si rifiutava di rassegnarsi, di accettare una condizione così desolante. Di conseguenza nel corso dell’esistenza non sono riuscita a fare nulla. Non mi sono mai realizzata sul lavoro, non ho mai conosciuto l’amore, e tutto ciò che a quel sentimento si accompagna. A poco a poco mi sono isolata sempre di più, la commiserazione nei confronti di me stessa si è allargata a dismisura. Mi sono abbandonata completamente al compatimento e alla pena. Mi sono trasformata in una morta vivente. Adesso potrò finalmente guarire.”
La donna si siede e, per la prima volta, un lieve sorriso affiora sulle sue inesistenti labbra.
“Grazie, Albina. Rodolfo, tocca a te concludere il nostro ultimo incontro” dice il responsabile del progetto.
L’uomo si alza in piedi a fatica. Il suo enorme corpo non gli permette di muoversi con agilità. Alza le spalle, quasi volesse chiede scusa, si gratta la fronte spaziosa, poi inizia a parlare. Il timbro della sua voce è basso, profondo.
“Che cosa volete che vi dica? Di me sapete ormai tutto, non posso aggiungere nulla di nuovo. Come, allo stesso modo, non posso aggiungere nulla di nuovo alla mia vita. Credo di aver fatto tutto ciò che ho avuto la possibilità di fare. Perché le azioni della nostra esistenza sono condizionate dai nostri limiti, dalle nostre imperfezioni. Eppure io credo di essere giunto molto vicino a questi confini, di avere sfruttato fino in fondo tutte le mie potenzialità, quelle che la natura mi ha fornito. Già, di più non avrei proprio potuto fare. Ma ora non ho più obiettivi, non ho più aspettative. Non ho più la speranza. D’ora in avanti sarei costretto a ripetermi, a fare cose che ho già fatto tante volte. E probabilmente le farei in maniera peggiore. No, non ne ho più voglia. Sono tanto stanco, sono annoiato. Ho deciso di aderire a questo progetto per due ragioni. La prima è la stessa di tutti voi: spero nella guarigione di tutti i miei mali esistenziali. La seconda è ancora più semplice. Dopo tanto tempo mi trovo a poter fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non è avvolto dal solito tedio, dall’usuale fastidio. Che non ho mai fatto in precedenza e che di sicuro non ripeterò. Quest’ultima certezza mi riempie di gioia. Grazie, dottore.”   
L’uomo risistema il suo grosso corpo sulla sedia. È commosso, i suoi piccoli occhi sono lucidi.
Il dottore richiama l’attenzione di tutti. Si alza in piedi.
“Bene, si conclude il nostro ultimo incontro. Vi ringrazio ancora una volta per il vostro impegno, e per avere creduto in me. Vi auguro una serata tranquilla e una notte serena. Domani vi sarà somministrata la cura che sapete, e le vostre afflizioni scompariranno. Ritroverete finalmente la pace. Grazie, di nuovo.”
A poco a poco tutti, uomini e donne, lasciano la sala. Tranne il dottore. Si risiede per un attimo dietro la scrivania, pensieroso. Si stringe il capo tra le mani. Poi si alza all’improvviso e, a lunghi passi, guadagna a sua volta l’uscita. Prima di chiudere a chiave la porta si sofferma per un attimo sulla scritta a caratteri rossi che risalta sul vetro: REPARTO SUICIDIO ASSISTITO. Infine si allontana soddisfatto.

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