Amo essere
avvolto dall’oscurità.
Ricordo le
lunghe serate estive quando, da ragazzo, me ne stavo sdraiato sotto il terrazzo
di casa, ad assorbire gli odori e gli umori della notte. Mi piaceva stare
immobile, cullato dal frinire dei grilli, la mente impegnata in mille
fantasticherie. Allora avevo tutta la vita davanti, e ne ero ben consapevole.
Tuttavia quella prospettiva non mi allietava più di tanto, al contrario mi
impauriva.
Sono sempre
stato un tipo riflessivo, portato più alla contemplazione che all’azione. Adoro
osservare l’esistenza, la mia e quella degli altri, stando attento a non
interferire in maniera eccessiva, a non provocare mutamenti di rilevo in
quell’equilibrio così delicato. Non sempre ci sono riuscito. In molte
circostanze, le mie cautele si sono rivelate vane.
Nulla hanno
potuto le mie ansie e i miei timori sul trascorrere del tempo. Quell’entità
indecifrabile, alla fine, mi ha sopraffatto. Sono invecchiato, un giorno dopo
l’altro, senza quasi rendermene conto. Mi domando che cosa ho fatto in tutti
questi anni, e non so dare una risposta.
La campagna è
una lontana memoria dell’infanzia. Vivo in città da molto tempo, in questa
città che mi ucciderà. Non sono in grado di porre rimedio a tale condizione,
non ne ho più la forza; la rassegnazione mi impone la sottomissione e pagherò,
senza sconti, questo doloroso tributo.
Intravedo,
nella penombra, i muri che mi circondano, che mi opprimono. Mi sistemo meglio
sulla poltrona, bevo un sorso d’acqua e cerco di concentrarmi sulla musica che
sto ascoltando. Quella musica che non riesce più a trasmettermi emozioni, da
cui non ricavo più, da qualche tempo, alcuna gioia.
Sono stanco,
e la mia mente è affaticata più del corpo, che pure ormai è rigido e legnoso.
Non ho più
speranze, non ho più progetti. Riesco soltanto a guardare indietro. Che cosa
potrei fare che ancora non ho fatto? Nulla. Al massimo, potrei ripetere
all’infinito azioni che ho già compiuto tante volte. Potrei commettere, di
nuovo, gli stessi errori, rivivere l’identica noia.
Penso con
intensità alle persone con le quali ho condiviso parti della mia vita. Qualcuna
non c’è più, altre mi hanno lasciato, altre ancora le ho abbandonate io.
Rifletto sui miei comportamenti, sul male che posso aver fatto loro, sul bene
che ho ricevuto. Non c’è mai stata, da parte mia, l’intenzione di ferire, di
causare sofferenza. Eppure, mi rendo conto, l’ho fatto, e mi dispiace. Non
chiedo il loro perdono, ho bisogno della loro comprensione.
Domani
compirò settant’anni. Ho raggiunto questo traguardo in punta di piedi, con
circospezione, e non mi interessa sapere se ve ne saranno altri. Soprattutto,
non lo condividerò con nessuno, perché sono solo. Non sono troppo turbato dalla
mia attuale situazione. Ormai sono abituato alla solitudine. Sapevo, fin
dall’inizio, che sarebbe andata a finire così. D’altra parte, l’essere umano
nasce solo e muore solo. Alla fine, tutto il resto non conta. Tutto è
dimenticato.
Passo le mani
sul viso, seguo i solchi profondi delle rughe. Il tempo mi ha rimodellato, come
l’acqua e il vento fanno con le rocce. E presto mi abbatterà. Sorrido tra me,
questo pensiero cupo riesce ancora a farmi sorridere.
Squilla il
telefono, ma io rimango immobile. L’avevo quasi dimenticato, quel suono
tormentoso. Nessuno più mi cerca, ed io non sento mai il bisogno di parlare con
qualcuno. Non ho più nulla da dire, ho già speso tutte le mie parole.
Chiunque sia,
insiste a lungo, e non riesco più a sentire la musica. Impreco e poi mi alzo,
infastidito. Alla fine rispondo.
“Ciao” dice
una voce, che riconosco subito. Come non potrei? Non può che essere Lei, ne
sono sicuro.
“Ti
aspettavo” dico.
Una risata
sommessa.
“Mi hai
riconosciuto?”
“Sì.”
“Mi stavo
annoiando.”
“Lo so,
altrimenti non mi avresti chiamato.”
“So a che
cosa stavi pensando.”
“Tu sai
sempre tutto.”
Altra risata.
“Mi conosci
bene.”
“Tutti ti
conoscono.”
“Ma tutti
fingono di non conoscermi.”
“È vero.”
“Non hai
paura di me?”
“Solo la vita
ormai mi fa paura.”
“Sei un tipo
strano.”
“Me lo dicono
sempre.”
“Sai perché
ti ho cercato?”
“Sì.”
“Dimmelo.”
“L’hai detto
tu, perché ti stavi annoiando.”
“Non c’è un
altro motivo?”
“No, credo di
no.”
“Ne sei
convinto?”
“Sì.”
“Se le mie
intenzioni fossero serie, tu saresti pronto?”
“Sì, se lo
fossero. Ma non lo sono, e tu lo sai bene.”
“Perché dici
questo?”
“Perché ho
avuto a che fare con te tante volte, pure se non in maniera diretta. Di solito
non ti comporti in questo modo. In realtà, non mi vuoi. Ti stai soltanto
prendendo gioco di me.”
“Sì, è vero.
Hai ragione.”
“Conosco in
quale maniera tu ottieni il massimo appagamento.”
“Sei davvero
un tipo strano, ma vedo che hai compreso tutto. Hai capito anche me.”
“L’istante esatto
lo conosci soltanto tu e nessun altro. Ed è questo ciò che ti soddisfa, la
scelta dell’istante.”
“Hai ragione
di nuovo. Tu hai colto perfettamente l’essenza del mio compito. E il sottile
piacere che lo accompagna. La scelta dell’istante è l’elemento che appartiene a
me sola. A tale riguardo, il mio giudizio è inappellabile.”
“Quella tua esclusiva
prerogativa è ciò che ci permette di vivere.”
“Sei
profondo.”
“Mi hai
concesso il tempo necessario per diventarlo.”
Altra risata.
“Adesso devo
lasciarti.”
“Anch’io.
Stavo ascoltando musica e tu mi hai disturbato.”
“Ti chiedo
scusa. Sono stata attirata dai tuoi pensieri.”
“Sono sempre
gli stessi. Da tanto tempo.”
“Stavolta
possedevano una maggiore intensità.”
“Può darsi.”
“Arrivederci.”
“A presto.”
Riaggancio e
torno sulla poltrona. Poi guardo l’orologio e vedo che si è fatto tardi. È ora
di andare a letto.
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