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domenica 6 gennaio 2013

LEI


Amo essere avvolto dall’oscurità.
Ricordo le lunghe serate estive quando, da ragazzo, me ne stavo sdraiato sotto il terrazzo di casa, ad assorbire gli odori e gli umori della notte. Mi piaceva stare immobile, cullato dal frinire dei grilli, la mente impegnata in mille fantasticherie. Allora avevo tutta la vita davanti, e ne ero ben consapevole. Tuttavia quella prospettiva non mi allietava più di tanto, al contrario mi impauriva.
Sono sempre stato un tipo riflessivo, portato più alla contemplazione che all’azione. Adoro osservare l’esistenza, la mia e quella degli altri, stando attento a non interferire in maniera eccessiva, a non provocare mutamenti di rilevo in quell’equilibrio così delicato. Non sempre ci sono riuscito. In molte circostanze, le mie cautele si sono rivelate vane.
Nulla hanno potuto le mie ansie e i miei timori sul trascorrere del tempo. Quell’entità indecifrabile, alla fine, mi ha sopraffatto. Sono invecchiato, un giorno dopo l’altro, senza quasi rendermene conto. Mi domando che cosa ho fatto in tutti questi anni, e non so dare una risposta.
La campagna è una lontana memoria dell’infanzia. Vivo in città da molto tempo, in questa città che mi ucciderà. Non sono in grado di porre rimedio a tale condizione, non ne ho più la forza; la rassegnazione mi impone la sottomissione e pagherò, senza sconti, questo doloroso tributo.
Intravedo, nella penombra, i muri che mi circondano, che mi opprimono. Mi sistemo meglio sulla poltrona, bevo un sorso d’acqua e cerco di concentrarmi sulla musica che sto ascoltando. Quella musica che non riesce più a trasmettermi emozioni, da cui non ricavo più, da qualche tempo, alcuna gioia.
Sono stanco, e la mia mente è affaticata più del corpo, che pure ormai è rigido e legnoso.
Non ho più speranze, non ho più progetti. Riesco soltanto a guardare indietro. Che cosa potrei fare che ancora non ho fatto? Nulla. Al massimo, potrei ripetere all’infinito azioni che ho già compiuto tante volte. Potrei commettere, di nuovo, gli stessi errori, rivivere l’identica noia.
Penso con intensità alle persone con le quali ho condiviso parti della mia vita. Qualcuna non c’è più, altre mi hanno lasciato, altre ancora le ho abbandonate io. Rifletto sui miei comportamenti, sul male che posso aver fatto loro, sul bene che ho ricevuto. Non c’è mai stata, da parte mia, l’intenzione di ferire, di causare sofferenza. Eppure, mi rendo conto, l’ho fatto, e mi dispiace. Non chiedo il loro perdono, ho bisogno della loro comprensione.
Domani compirò settant’anni. Ho raggiunto questo traguardo in punta di piedi, con circospezione, e non mi interessa sapere se ve ne saranno altri. Soprattutto, non lo condividerò con nessuno, perché sono solo. Non sono troppo turbato dalla mia attuale situazione. Ormai sono abituato alla solitudine. Sapevo, fin dall’inizio, che sarebbe andata a finire così. D’altra parte, l’essere umano nasce solo e muore solo. Alla fine, tutto il resto non conta. Tutto è dimenticato.
Passo le mani sul viso, seguo i solchi profondi delle rughe. Il tempo mi ha rimodellato, come l’acqua e il vento fanno con le rocce. E presto mi abbatterà. Sorrido tra me, questo pensiero cupo riesce ancora a farmi sorridere.
Squilla il telefono, ma io rimango immobile. L’avevo quasi dimenticato, quel suono tormentoso. Nessuno più mi cerca, ed io non sento mai il bisogno di parlare con qualcuno. Non ho più nulla da dire, ho già speso tutte le mie parole.
Chiunque sia, insiste a lungo, e non riesco più a sentire la musica. Impreco e poi mi alzo, infastidito. Alla fine rispondo.
“Ciao” dice una voce, che riconosco subito. Come non potrei? Non può che essere Lei, ne sono sicuro.
“Ti aspettavo” dico.
Una risata sommessa.
“Mi hai riconosciuto?”
“Sì.”
“Mi stavo annoiando.”
“Lo so, altrimenti non mi avresti chiamato.”
“So a che cosa stavi pensando.”
“Tu sai sempre tutto.”
Altra risata.
“Mi conosci bene.”
“Tutti ti conoscono.”
“Ma tutti fingono di non conoscermi.”
“È vero.”
“Non hai paura di me?”
“Solo la vita ormai mi fa paura.”
“Sei un tipo strano.”
“Me lo dicono sempre.”
“Sai perché ti ho cercato?”
“Sì.”
“Dimmelo.”
“L’hai detto tu, perché ti stavi annoiando.”
“Non c’è un altro motivo?”
“No, credo di no.”
“Ne sei convinto?”
“Sì.”
“Se le mie intenzioni fossero serie, tu saresti pronto?”
“Sì, se lo fossero. Ma non lo sono, e tu lo sai bene.”
“Perché dici questo?”
“Perché ho avuto a che fare con te tante volte, pure se non in maniera diretta. Di solito non ti comporti in questo modo. In realtà, non mi vuoi. Ti stai soltanto prendendo gioco di me.”
“Sì, è vero. Hai ragione.”
“Conosco in quale maniera tu ottieni il massimo appagamento.”
“Sei davvero un tipo strano, ma vedo che hai compreso tutto. Hai capito anche me.”
“L’istante esatto lo conosci soltanto tu e nessun altro. Ed è questo ciò che ti soddisfa, la scelta dell’istante.”
“Hai ragione di nuovo. Tu hai colto perfettamente l’essenza del mio compito. E il sottile piacere che lo accompagna. La scelta dell’istante è l’elemento che appartiene a me sola. A tale riguardo, il mio giudizio è inappellabile.”
“Quella tua esclusiva prerogativa è ciò che ci permette di vivere.”
“Sei profondo.”
“Mi hai concesso il tempo necessario per diventarlo.”
Altra risata.
“Adesso devo lasciarti.”
“Anch’io. Stavo ascoltando musica e tu mi hai disturbato.”
“Ti chiedo scusa. Sono stata attirata dai tuoi pensieri.”
“Sono sempre gli stessi. Da tanto tempo.”
“Stavolta possedevano una maggiore intensità.”
“Può darsi.”
“Arrivederci.”
“A presto.”
Riaggancio e torno sulla poltrona. Poi guardo l’orologio e vedo che si è fatto tardi. È ora di andare a letto.

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