Appena seduti, ci
scrutammo a lungo. Occhi negli occhi. A lungo.
Non è semplice
sostenere per tanto tempo lo sguardo di un’altra persona. Quasi impossibile da
fare se si tratta di uno sconosciuto. Oppure di una sconosciuta. Tale esercizio
per riuscire richiede, da parte dei due, l’esistenza di un elevato grado di
confidenza, esige intimità e complicità.
Eppure io lo stavo
facendo, senza alcun timore. Assenza assoluta di smarrimento. In me, e anche in
lui.
Il locale che avevamo
scelto, per puro caso, era senza dubbio squallido. Nient’altro che un misero
bar di periferia. Il primo che avevamo trovato dopo un prolungato girovagare.
Stanchi, eravamo entrati e ci eravamo accomodati a un tavolino proprio in
fondo, un po’ nascosto.
Oltre a noi due,
naturalmente, non c’era nessuno. Perché era un orario particolare, un momento
indefinito. Né carne né pesce. Non era mattino, quando gli avventori si
precipitano al bancone ordinando brioches, caffè e cappuccini. O panini alla
mortadella e un bicchiere di vino bianco, se si tratta di camionisti. Sì,
quello sembrava proprio un bar per camionisti, e per frettolosi operai. Di quelli che mentre
azzannano il sandwich buttano un’occhiata distratta ai giornali sportivi, a
qualche donna presente nel locale. E poi se ne vanno a lavorare compiaciuti,
con lo stomaco pieno e un sorrisino sulle labbra. Un illusorio buon umore
destinato a spegnersi presto, appena inizieranno a faticare.
E non era nemmeno l’ora
del pranzo, con tutti quei piatti e piattini colmi di cibo di plastica malamente
riscaldato che viaggiano tra un tavolo e l’altro in una immensa confusione e che
vengono ingurgitati in tutta fretta.
Il bancone era vecchio,
rivestito di formica di colore verde chiaro.
Era invece pomeriggio,
per esattezza l’ora del tè. Ma in locali come quello nessuno beve tè. Per tale
ragione eravamo soli. Il barista, al nostro ingresso, si era sforzato di essere
gentile. Però si intuiva la sua fretta. Quella di chiudere, probabilmente,
perché considerava la sua giornata ormai conclusa. Di sicuro il suo non era un
posto da frequentare la sera. Quindi si percepiva la sua impazienza, la sua
voglia di rovesciare le sedie sui tavolini, di passare uno straccio lurido sul
pavimento lercio, di rimettere al loro posto bicchieri, tazze, tazzine e
bottiglie, e di abbassare finalmente la pesante serranda arrugginita. E invece
no, non lo poteva fare, perché noi avevamo avuta la bella pensata di entrare
proprio in quel momento cruciale. Quando non ci eravamo fermati al bancone ma
ci eravamo diretti risoluti, un po’ furtivi, al tavolino nell’angolo, per un
istante avevo letto nei suoi occhi sbiaditi la più limpida disperazione. Un
attimo, soltanto un attimo, poi l’uomo si era ripreso, aveva atteso qualche
minuto e poi si era avvicinato a noi per prendere le ordinazioni.
Ci eravamo rifugiati in
quel bar non per desiderio di consumare qualcosa, ma perché sfiniti, non tanto
nel corpo quanto nell’anima. Ci stupimmo quasi quando l’uomo si accostò. Che
cosa voleva da noi quel tipo? Poi recuperammo un lembo di lucidità, ben poca in
verità, il minimo necessario per ordinare due caffè. Quando si è colti alla
sprovvista si finisce sempre per ordinare un caffè.
Fuori, attraverso la
vetrata, vedevamo scorrere un traffico incessante di automobili. Le lame di luce
dei fari fendevano lo scuro nascente del pomeriggio invernale.
Ci guardammo. Ancora e
ancora, finché un lieve sorriso deformò la linea delle nostre labbra screpolate.
Lui appoggiò la sua
mano sulla mia. Mi accarezzò con finta indifferenza la punta delle dita. Poi la
spostò sul dorso. I suoi gesti erano incerti e impacciati, perché io stavo
immobile, non reagivo e mi limitavo a fissarlo, anche se il mio corpo era
percorso da brividi. Mi sistemai meglio sulla sedia. Nel farlo, mi avvicinai di
più a lui, sporgendo il busto in avanti. Lui, con l’altra mano, mi scostò una
ciocca di capelli. Lo fece in maniera goffa, ma con grande tenerezza. I suoi occhi
chiari brillavano febbrili.
Piegai il capo di lato,
imbronciai le labbra, cercai di assumere un’espressione che apparisse allo
stesso tempo seducente e divertita.
“Che cosa vorresti
fare?” domandai.
Mi godetti per alcuni
secondi il suo stupore, il suo grande sbalordimento. Sapevo bene che cosa
avrebbe voluto rispondere. Sapevo bene che non lo avrebbe fatto. E infatti.
“Non lo so” disse.
La sua mano si era
spostata sulla mia coscia.
“Tu sai che cosa voglio”
aggiunsi. E lui comprese. Nello stesso momento intesi il suo sconforto, il suo
profondo abbattimento. Subito mi pentii della mia affermazione. Troppo diretta,
addirittura crudele, ma ormai era troppo tardi.
Colpito, cercò comunque
di reagire, facendo ricorso alla sua abituale elegante eloquenza. Una dote che,
quando era solo con me, spesso smarriva.
“Un saggio cinese
diceva che quando stai per essere travolto dagli avvenimenti della vita ti devi
fermare” disse, incerto.
“Non capisco” risposi,
anche se non era vero. Lui cercò di precisare, ma era in difficoltà.
“Dobbiamo smettere di
correre” disse. “Cerchiamo di congelare questo momento, che dovrebbe essere
bello e non doloroso, e riflettiamo. Cerchiamo di usare la ragione, non
roviniamo tutto.”
“Il sentimento prevale
sempre sulla ragione” dissi.
Lui mi accarezzò la
spalla, la massaggiò per alcuni istanti. Poi ritirò la mano, sconfitto. Abbattuto.
Annientato. Il suo volto, una maschera di dolore e tristezza.
I caffè, nel frattempo,
si erano raffreddati. Li bevemmo lo stesso. Poi lui guardò l’orologio.
“Per te è tardi” disse,
con un filo di voce.
“È vero, non mi ero
accorta che fosse trascorso così tanto tempo”.
Presi il giaccone e lo
indossai, lui fece lo stesso. I nostri gesti erano lenti, sofferti. Andò alla
cassa e pagò. Il barista non riuscì a nascondere il suo sollievo. Ci diede la
buonasera con eccessivo entusiasmo, e in tal modo si tradì.
Uscimmo fuori, al
freddo e al buio. Il gelo autentico era però racchiuso all’interno dei nostri
corpi. Fui assalita da un tremendo senso di sconforto. Nessuno dei due parlò
per alcuni minuti. Infine ci lasciammo, con un saluto timido, appena
sussurrato. Lo osservai sparire nella foschia, il passo trascinato, ingobbito.
Avevo recitato la mia
parte, e non avevo potuto evitare di farlo. Era essenziale per conservare la
stima nei confronti di me stessa. Tuttavia per lui provavo compassione. Una
pena che in breve si trasformò in rinnovato affetto, forse anche qualcosa di
più ma che non osavo ammettere. In fondo aveva cercato di essere leale, non
aveva tentato di incantarmi. Meritava il mio rispetto.
Avrei tentato di
rimediare l’indomani, quando ci saremmo rivisti. Perché era qualcosa a cui non
potevo rinunciare. Almeno per il momento…
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