Con lo scioglimento
delle Camere, avvenuto subito dopo l’ufficialità delle dimissioni di Mario
Monti, è stato compiuto l’ultimo atto formale relativo all’attuale travagliata
legislatura, collocata ormai definitivamente in archivio. E che da oggi può
essere considerata passato.
È partita la corsa al
voto, che sarà caratterizzata da una campagna elettorale piuttosto breve e che
vivremo in un periodo inconsueto. Il voto è stato fissato per la fine di
febbraio. Le forze politiche in campo hanno quasi ultimato il loro
riposizionamento, stanno definendo i programmi, scegliendo i candidati da
proporre nelle liste. Si voterà con la vecchia legge elettorale, uno strumento
inadeguato, che mortifica la rappresentanza, che lascia assoluta mano libera ai
partiti riguardo le candidature. Una legge che però non sarebbe stato opportuno
cambiare proprio nell’immediatezza delle elezioni. E così infatti è stato perché
nessuno, tra i contendenti, aveva un reale interesse a farlo. L’unico pregio del “Porcellum” è quello di
assicurare una netta maggioranza (almeno in uno dei due rami del Parlamento)
alla coalizione vincitrice del confronto elettorale.
Anche l’ultimo dubbio
che aveva tenuto tutti con il fiato in sospeso nell’ultimo periodo si è
finalmente sciolto: l’attuale Presidente del Consiglio non presenterà una
propria lista, e non sarà direttamente in lizza. Insomma, non si sottoporrà al
giudizio degli elettori. Rispetto a ciò, alla fine, è prevalso l’orientamento
più volte espresso (in pubblico e nelle conversazioni private) dal Presidente
della Repubblica: Mario Monti è già un parlamentare della Repubblica, essendo
stato nominato senatore a vita proprio da Giorgio Napolitano, e dunque la sua candidatura
sarebbe apparsa non conveniente.
Monti, tuttavia, non
rinuncia del tutto a ritagliarsi un ruolo futuro a livello di impegno nelle
istituzioni. Nella sua conferenza stampa di fine legislatura il professore ha
detto che, nel caso in cui una o più forze politiche che si riconoscano nella
sua Agenda d’intenti intendano proporre la sua candidatura a Primo Ministro,
lui non si tirerebbe indietro. Da queste parole deriva la precisa intenzione di
Monti di riproporsi per poter portare a termine il risanamento del Paese,
avviato e condotto nell’ultimo anno con discreti risultati ma da implementare soprattutto
con robuste misure rivolte allo sviluppo, la parte del programma del suo
esecutivo che più di tutte è rimasta non attuata, in quanto condizionata, come pure
altri importanti aspetti, dall’anomala maggioranza che sosteneva il governo. A
proposito, c’è chi ha fatto notare che anche l’annunciata equità non è stata
molto perseguita. Il Paese, a distanza di un anno, sta decisamente meglio, è
stata ritrovata quasi del tutto la credibilità a livello europeo e
internazionale che era ormai stata smarrita, tuttavia i cittadini più deboli (il loro numero continua ad aumentare) stanno soffrendo come e più
di prima. Servono con urgenza politiche fiscali che consentano una migliore redistribuzione
delle risorse, e occorre soprattutto agire con determinazione a favore del
lavoro. Tutto questo può essere realizzato al meglio soltanto da un governo
politico, sostenuto da una maggioranza omogenea e robusta. Ci si chiede se esistano
le condizioni, nel quadro politico che si potrà delineare dopo il voto,
affinché ciò possa essere fatto. Ci si domanda infine chi potrà in concreto
metterlo in atto. In definitiva, chi vincerà le elezioni?
La coalizione di
centro-sinistra è, fra tutte, la grande favorita. E quasi certamente si imporrà. Il dubbio è se
si tratterà di una vittoria limpida, che possa consentire di fare a meno di
ulteriori alleanze post-voto. Tale eventualità, cioè quella di dover ricorrere all'appoggio di altre forze politiche, potrebbe purtroppo
verificarsi, dal momento che la legge elettorale permette una affermazione
netta in uno dei due rami del Parlamento ma non necessariamente in entrambi (il
punto debole è il Senato). A quel punto potrebbe rientrare in pista proprio
Mario Monti, appoggiato dal raggruppamento di Centro che si sta definendo
attorno a Casini, al ministro Riccardi e a Montezemolo. Ma il PD, e il suo leder Bersani, pur vincitori, sarebbero
disposti a fare un passo indietro a favore del professore? Forse no, per ovvie
e condivisibili ragioni. Il rischio di instabilità e di conseguente
ingovernabilità è dunque elevato.
La coalizione di
centro-destra è invece fuori dai giochi, destinata a sicura sconfitta
nonostante lo schizofrenico impegno dell’antico leader Berlusconi, che per l’ennesima
volta e con la solita sconsideratezza (e arroganza) si è ributtato nella
mischia. La rinnovata o meno alleanza con la Lega Nord, da parte del PDL, appare invece come del tutto ininfluente. Il
Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo otterrà comunque un buon risultato (in
ogni caso inferiore alle aspettative che si erano create non più di un paio di
mesi fa). Si tratterà comunque di voti e di seggi non spendibili, destinati a
rimanere congelati per l’intera durata della legislatura. Nel prossimo Parlamento
l’opposizione sarà robusta, ma frammentata e non in grado di agire con unità d’intenti.
In conclusione, le
ragioni per essere ottimisti non sono molte. L’incertezza continua a regnare,
accompagnata da una certa inquietudine. La prossima legislatura sarà decisiva
per dire se il nostro Paese ce la potrà fare ad allontanare definitivamente la
crisi, e se si riuscirà a invertire la deriva negativa che ci assilla ormai da
tempo. È doveroso però essere fiduciosi. Almeno per ora, in attesa degli eventi
futuri.
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