Era d’inverno, quando lo
incontrai dal medico. La sala d’attesa, piccola e opprimente, era affollata. Vidi
una sola sedia libera, sulla quale era appoggiata una borsa. Un uomo la tolse,
e mi fece segno di accomodarmi. Lo ringraziai, spiando appena il suo volto.
Intravidi una massa di capelli castani, uno sguardo curioso posato su di me.
“Fa molto caldo” disse
dopo un po’.
“Sì” risposi.
“L’attesa purtroppo
sarà lunga” aggiunse lui, timidamente.
“Già” dissi,
imbarazzata.
Venne il suo turno, poi
finalmente il mio. La visita fu breve. Andai fuori e lo trovai sul bordo della
strada. Stava aspettando proprio me. Me lo disse quando mi vide, dopo aver
gettato la sigaretta che stava fumando.
“Sei a piedi?” mi
domandò.
Mi rendo conto che
avrei dovuto ignorarlo e tirare dritto, come avrebbe fatto chiunque. Invece il
suo tono gentile, il suo lieve sorriso, il colore caldo della voce mi indussero
a rispondere.
“Sì, non abito molto
lontano” spiegai a quell’uomo sconosciuto.
“Scusa, io sono Marco.
Ti posso accompagnare?”
Gli porsi la mano e
feci segno di sì con il capo.
“Mirella” dissi. “E
sono sposata.”
“Ho una compagna”
rispose lui, serio. Ci guardammo per un lungo istante, poi scoppiammo a ridere.
Fu uno sfogo di allegria strano, forse inopportuno, eppure nessuno dei due
riuscì a frenarlo. Una risata liberatoria. Seguì un momento di imbarazzo,
quindi ci incamminammo.
Era d’inverno, anche se
non faceva freddo. Soffiava una leggera brezza tiepida, come accade talvolta
all’inizio della primavera. Dopo un po’, camminando a passo veloce, iniziammo a
provare caldo e ci sbottonammo i cappotti. Non ricordo esattamente di che
parlammo durante il tragitto verso casa mia, ma la conversazione non languì
mai. Rammento soltanto che lui preferì soprattutto ascoltare, si limitò a
interrompermi di tanto in tanto con qualche domanda appropriata, fece qualche
precisa puntualizzazione. Riuscì comunque a raccontarmi alcune cose su di sé,
tutte piuttosto interessanti.
Giunti davanti al mio
portone ci fermammo, stando in silenzio. Nessuno dei due aveva pensato alla
circostanza del congedo, non eravamo preparati al fatto che non ci saremmo
rivisti mai più. Quell’aspetto della questione ci colse alla sprovvista, ci
sorprese. Fu lui il più pronto a reagire, come mezz’ora prima era stato lui a
prendere l’iniziativa.
“Se vuoi ci possiamo
rivedere” sussurrò con un filo di voce, colto da improvvisa emozione.
“Eh?” esclamai,
fingendo stupore. In realtà lui aveva pronunciato le parole che avevo
desiderato sentire.
Si passò le dita tra i
capelli, più volte, un chiaro segnale di disagio. Deglutì prima di parlare.
“Ascolta, se vuoi ti
posso dare il mio numero di telefono. Così, se per caso ti andasse, mi potresti
chiamare…”
Scrollai le spalle,
fingendo indifferenza. Invece ero preda dell’ansia.
Lui si spostò sotto a
un lampione, prese una penna e un pezzetto di carta e scrisse il numero di
telefono. Quasi senza guardarmi me lo porse. Lo presi e lo misi in tasca,
accennai un saluto con la mano e oltrepassai il portone.
Il giorno dopo lo
chiamai. Da allora è trascorso tanto tempo.
Questa sera ho
indossato il mio abito migliore. Quello che mi piace di più. E l’ho fatto per
me stessa, soltanto per me stessa. È un vestito verde scuro, lungo fino al
ginocchio, con le maniche attillate e una profonda scollatura. Le calze sono
grigio fumo, le scarpe nere con il tacco alto e sottile. Mi sono truccata con
cura, in mattinata sono stata dalla parrucchiera e dall’estetista. Ho fatto di
tutto per cercare di essere bella. Mi avvicino al tavolo della cucina, che è
apparecchiato con eleganza. Smorzo la luce e accendo una candela. Mi siedo e mi
verso mezzo bicchiere di vino bianco. Freddo e secco. E penso.
Era d’inverno, ma
nonostante ciò io e Marco riuscimmo a incontrarci parecchie volte. Non sapevamo
mai dove andare ma questo, invece di scoraggiarci, contribuì a rafforzare
ancora di più il nostro legame. Trascorrevamo ore sulla sua macchina, al
freddo, in luoghi appartati. Parlavamo, ci scambiavamo effusioni, a volte ci
spingemmo oltre. Oppure ci sedevamo in qualche bar per bere qualcosa di caldo,
cauti e sempre vigili, le mani tra le mani, a scambiare sguardi.
Quando arrivò la
primavera, la nostra storia prese il volo. Non poteva essere altrimenti. Marco
da tempo era in crisi con la sua compagna. La lasciò e si trasferì da suo
fratello. Lei non fece molto per trattenerlo. Era libero, ora toccava a me. Mio
marito non sospettava nulla. Non sembrava notare i miei ritardi, il mio
comportamento diventato stravagante, la mia continua svagatezza. La mia
freddezza nei suoi confronti, l’indifferenza. A un certo punto non fui più in
grado di vivere nella doppiezza. Confessai tutto. Soltanto in quel momento,
dopo l’iniziale incredulità, lui reagì. Lo fece con cattiveria, con estrema
meschinità. Fece di tutto per danneggiarmi, per rendermi la vita impossibile.
Sia finché continuammo per qualche tempo a vivere ancora insieme, che dopo. Mi
resi conto che anche lui non mi amava più. Il mio senso di colpa si attenuò,
anche se non scomparve del tutto.
Era d’inverno quando
lasciai per sempre lui e la mia casa, portando con me soltanto due valigie. E
nessun bel ricordo.
Finisco di bere il vino.
Mi alzo. Metto in tavola l’antipasto. Ho preparato degli avocado con spuma di
formaggio. Ho diviso in due i frutti tropicali, li ho sfregati con il limone
per non farli annerire. Poi ho frullato ricotta e mascarpone, ho aggiunto olio,
sale e pepe in abbondanza. Infine ho travasato il composto ottenuto in una
terrina e ho riempito gli avocado con questa spuma. Ho cosparso il tutto con
erba cipollina fresca. Inizio a mangiare, lentamente, cercando di assaporare
ogni boccone. Mentre penso.
Sono andata a vivere
con Marco, prima in un incantevole monolocale poi in un appartamento più
spazioso. Abbiamo trascorso insieme molti anni felici. Dopo essere diventati
amanti diventammo anche amici. Alla fine eravamo soprattutto amici. Era bello
condividere tutto con lui, viaggiare in sua compagnia. Era un uomo poco
esigente, che mai ha interferito con la mia libertà personale, che per me è
tutto. Poco alla volta però il rapporto si è esaurito, giorno dopo giorno si è
consumato. Avremmo potuto lasciarci da buoni conoscenti, da amichevoli compagni
di vita. Invece non andò così, per causa mia.
Era d’inverno quando
iniziò la mia relazione con Fulvio. Lui era un amico di Marco. Lo frequentavamo
da solo, perché la sua compagna non si
univa mai a noi quando organizzavamo qualcosa: una cena, un film, uno
spettacolo a teatro oppure un concerto. Quella donna, che io conoscevo appena,
non amava uscire. Forse non gradiva la mia presenza e quella di Marco.
Ricordo che una sera
ero sola in casa, Marco era uscito con qualche amico. Sapevo che Fulvio e
Giulia, la sua compagna, erano in vacanza. In Francia, mi pare. All’improvviso
fui colta da uno strano impulso. Presi il telefono e mandai un messaggio a
Fulvio. Nulla di impegnativo, s’intende, solo un semplice saluto. Lui rispose
subito, con parole molto affettuose. E poi continuammo, anche quando lui
ritornò. Quel tipo particolare di contatto era ormai stabilito, si trattava di una
nuova contiguità che non prevedeva più la presenza di Marco. Cominciammo a
vederci spesso, quasi tutti i giorni, all’insaputa del mio compagno. Ci
capitava ancora di ritrovarci insieme, tutti e tre, e in quei momenti io e
Fulvio dovevamo fingere, dovevamo forzare il nostro comportamento, stare bene
attenti a non far trapelare nulla. Dopo un po’ Marco cominciò a sospettare
qualcosa, per via del mio atteggiamento distaccato, dei miei silenzi, della mia
insofferenza nei suoi confronti. A quel
punto era ormai certo che avessi un amante, anche se non dubitò mai del
suo amico. Una triste sera, messa alle strette dopo una estenuante discussione,
fui io a confessare tutto. Per Marco fu un vero
trauma. Urlò, pianse e imprecò, completamente annientato. Mi disse che
anche lui aveva una storia, con una ragazza straniera che aveva conosciuto sul
lavoro. Non credo fosse vero. In ogni caso non mi importava. Implorai Marco di
concedermi un periodo di riflessione. Lui oppose resistenza, poi si arrese,
benché a fatica, consapevole del fatto che la nostra unione fosse ormai
sfasciata, rotta senza rimedio. Andai via da casa. Dapprima mi trasferii da
un’amica, quindi in un residence fatiscente. Le telefonate tra me e Marco si
diradarono sempre di più. La sua voce, attraverso il telefono, era sempre
spezzata, piena di risentimento. Ne aveva tutte le ragioni. Lo avevo tradito e
ingannato, forse anche umiliato, eppure non riusciva a farmi sentire del tutto
colpevole. Avevo seguito l’impulso del cuore e, anche se avevo rovinato tutto, sapevo
bene che la mia condotta, pur detestabile ai suoi occhi, era il frutto di una
scelta consapevole: la predilezione di vivere, di assecondare una spinta
interiore che non possedeva nulla di razionale, il non rinunciare a vivere una
storia appagante.
Dopo un solo mese,
trascorso tra angoscia e speranza, tra gioia e incertezza, Fulvio mi lasciò.
Non intendeva far soffrire la sua compagna, disse. Preferì il mio dolore.
Era d’inverno quando
ciò accadde.
Vado ai fornelli, a
rifinire il primo piatto. Ho preparato dei maccheroni alla nizzarda. Ho pelato
i pomodori e li ho tagliati a piccoli pezzi. Poi ho affettato delle zucchine a
rondelle. In poco olio e burro ho fatto imbiondire schegge di cipolla, ho
aggiunto pomodori e zucchine, salato e pepato. Dopo venti minuti di cottura a
fuoco lento ho aggiunto delle olive nere snocciolate. Ora non mi resta che
scolare la pasta e condirla con la salsa. Lo faccio, e me ne servo una porzione
abbondante. Porto il piatto in tavola e riprendo a mangiare. E a pensare.
Era d’inverno quando,
pochi anni fa, ho incontrato Giovanni a una festa di compleanno. È lui l’uomo
con il quale attualmente divido la mia esistenza. Questa sera, tuttavia,
Giovanni non c’è. È andato a giocare a calcetto con i suoi colleghi di lavoro.
Poi andranno a mangiare una pizza e di sicuro rientrerà tardi. Lo fa spesso, ma
a me non importa. Anzi, assaporo con piena soddisfazione questi momenti di
libertà. Perché l’amore tra noi due è durato poco. Unire due solitudini non è
stato sufficiente per rendere solida la nostra storia. Ci siamo messi insieme
per noia, per stanchezza, per sfinimento. Era normale che finisse in questo
modo. In verità non litighiamo mai, perché nessuno dei due ne ha voglia, ci
sembra una incombenza troppo gravosa, estenuante. Preferiamo ignorarci e
condurre ognuno la propria vita, senza condividere nulla, neppure il letto.
Siamo due persone di mezza età con più rimpianti che aspettative.
La pasta era davvero
buona, e mi sento sazia. Chissà se riuscirò ad assaggiare anche l’ultimo piatto
che ho preparato, gli spinaci gratinati. Decido di sì, poiché di sicuro ne vale
la pena. Ho lavato con cura gli spinaci e poi li ho spezzettati. In una grossa
padella ho fatto fondere del burro, ho aggiunto gli spinaci e, dopo averli
fatti cuocere per alcuni minuti, vi ho unito del parmigiano. Poi ho messo tutto
in una pirofila. Adesso la estraggo dal forno, dopo quasi mezz’ora. La
gratinatura mi pare perfetta, il profumo è invitante. Mi risiedo e mangio. Mi
verso ancora del vino, mi accorgo che ho quasi finito la bottiglia. Mi sento un
po’ annebbiata, per nulla euforica, tormentata da mille pensieri.
Era d’inverno quando,
un anno fa, mi sono innamorata di Luca. Dopo tanti mesi la mia infatuazione per
lui non si è ancora attenuata. Lo incontro tutti i giorni e, per motivi di
lavoro, trascorriamo insieme parecchio tempo. Non ho mai avuto il coraggio di
rivelargli il mio interesse. Luca non si è accorto di niente, credo. In ogni
caso non ha mai accennato a ricambiare il mio trasporto, le mie affettuosità
nei suoi confronti. Non è attratto da me, non gli piaccio. Sono disperata e
avvilita, spesso scoppio a piangere, come mi accade in questo momento. Sento
dentro di me un grande vuoto.
È di nuovo inverno, il
mio corpo è percorso da brividi. Sono sola.
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