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domenica 6 novembre 2011

INCUBI



Da qualche tempo ho sviluppato una singolare peculiarità. Allo scopo di illustrarla, farò ricorso a un esempio tratto dalla realtà.
È notte, sono disteso a letto. A un tratto percepisco un movimento accanto a me. Mi volto e scorgo un’ombra scura adagiata al mio fianco. Ne colgo gli impercettibili movimenti, il respiro pesante. Mi immobilizzo, in preda al terrore. Il cuore mi martella il petto. Nella penombra, vedo che quella sagoma ha sembianze mostruose. Riesco addirittura ad avvertire il suo odore, dolciastro, nauseabondo. So per certo che se quell’essere raccapricciante si svegliasse costituirebbe per me un pericolo subitaneo e mortale. Rimango ancora fermo per qualche istante, ormai in preda al panico, vittima di una indescrivibile e ancestrale paura, poi decido che è il momento di intervenire per scongiurare l’inevitabile e orribile epilogo. Risolvo di svegliarmi, e ciò avviene immediatamente. All’improvviso riprendo coscienza, accanto a me non c’è più nessuno, poco alla volta il mio cuore ritrova il suo ritmo normale. L’incubo è rimosso, anche questa volta sono riuscito a viverlo ma, nello stesso tempo, a impedirne la spaventosa conclusione.
Ebbene, è proprio questa la caratteristica cui mi riferivo: la capacità di controllare un sogno angoscioso, di attenuarne ed eliminarne gli effetti. A mio piacimento.
Una caduta improvvisa. Nel nulla. La sensazione di vuoto che attanaglia le viscere. La consapevolezza di uno schianto. La possibilità di interromperla un attimo prima, di salvarsi.
Il percorrere in automobile una strada stretta e tortuosa. Il veicolo che, impazzito, si rifiuta di affrontare una curva e prosegue diritto, verso il burrone; il pedale del freno che, seppure azionato disperatamente, non funziona.
Avere la possibilità di troncare queste visioni cariche d’oppressione, di lenire l’ansia che le accompagna, di ricondurle alla loro reale essenza secondo volontà.
Una scarpa slegata, una semplice scarpa slegata. Un  qualcosa di assolutamente innocuo. Il chinarsi per provvedere. Il non riuscire ad afferrare le stringhe. Il ripetere all’infinito gli stessi inutili gesti e, di colpo, la cognizione di dover fare presto, molto presto. L’incapacità di riuscire, e l’affanno e l’inquietudine, entrambi dolorosi, penosi. La salvifica facoltà di poter porre fine al tormento. Farlo.
L’incubo, purtroppo ricorrente, di trovarsi nel bel mezzo di una guerra appena scoppiata. L’inquietudine repentina che avvolge l’intero essere, e il senso di incredulità e la sensazione di inadeguatezza all’inaspettato evento. L’apprensione. Lo spavento. Lo scatenarsi di forze incontrollabili. Gli enormi carri armati, soldati giganteschi che sparano all’impazzata, il rumore degli aerei e i boati delle bombe. Tutto in pochi minuti. Finché l’agghiacciante scenario non viene spezzato da un comando imperioso. Il risveglio, finalmente, e la salvezza.
Adesso è di nuovo notte. La temo, la notte. Mi sveglio di soprassalto. Ho sentito dei rumori. Forse nell’ingresso, oppure in cucina. Atterrito, mi alzo a sedere sul letto, lo sguardo fisso sul vetro della porta. Dopo pochi istanti, vedo l’ombra. Si muove, circospetta. Grido, ma dalla mia bocca non esce alcun suono. Poi, la maniglia che si muove. L’uomo entra nella stanza. Indossa un cappello, nella mano stringe una pistola. So bene ciò che accadrà. È il momento di dire basta, di fare ricorso al mio dono, di porre fine all’incubo. Ma non lo faccio, indugio. Mi compiaccio della mia esitazione. Intendo, per una volta soltanto, estendere la mia attitudine di controllare il sogno, e dirigerlo verso una conclusione non cruenta, diversa. Lo sparo mi coglie di sorpresa. Un po’. Percepisco in maniera netta il rimbombo, e poi il proiettile che attraversa la mia carne, il contraccolpo sull’addome, la sensazione di freddo che ne segue. Ora basta, però. Non è proprio il caso di proseguire. Occorre svegliarsi, e posso farlo, lo so. Ma ancora esito. È strano vedere il mio corpo esamine e ricoperto di sangue, l’uomo che fugge. È curioso, nonché tragico. Mi appassiono. Non faccio nulla.
Ormai sono trascorsi alcuni giorni. Lo confesso, è stato noioso assistere alla veglia funebre, al funerale, tuttavia non sono intervenuto, non ancora. Ho aspettato. Poi, tutto è finito. Sono qui, in questo spazio angusto,  sepolto sotto qualche metro di terra. In pace. L’incubo prosegue, ma non so più se si tratti di un vero incubo. Perché sono sereno. Da un momento all’altro so che potrei bloccare tutto, che avrei la possibilità di risvegliarmi nel mio letto e di riprendere la mia vita normale. Penso che prima o poi lo farò, ma non so quando. Per ora, va bene così.

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