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sabato 14 maggio 2011

LA CABINA




C’è un presidente. Per forza, direte, è un seggio elettorale, e non può non esserci un presidente. D’accordo, avete ragione, comunque c’è. È il direttore di una scuola. Bassotto, grassoccio, con un bel paio di baffi neri e un lungo riporto sul cranio. Fa caldo, è vero, ma non tanto da giustificare le due enormi chiazze di sudore sotto le sue ascelle. Dite ciò che volete, ma quello di presiedere una sezione elettorale è un incarico di grande responsabilità, nonché un dovere civico, tale da giustificare pure fenomeni di esagerata traspirazione. E poi c’è la segretaria. Una signorina con i capelli grigi, seria e austera ma di sicuro di mostruosa efficienza. L’ha portata lui, il presidente. Non si tratta di sua moglie, come potreste pensare, e neppure di sua nonna, come farebbe invece pensare l’età non più verde. Di certo l’ha raccattata a scuola, e forse anche lì fa la segretaria. Poi, tra gli scrutatori, c’è uno che porta la barba e che non sembra molto pulito. È di sinistra? Non scherziamo, non stiamo parlando di adesso, ma di trent’anni fa. Un’altra è una ragazza giovane, avrà poco più di diciotto anni, ed è molto graziosa. Ha i capelli neri, tagliati a caschetto, la pelle ambrata e un corpo esuberante. Indossa una gonna nera, elegante, e una vezzosa camicetta bianca. Chissà dove pensava di andare. Si vede che è un po’ spaesata perché rimane immobile e si muove soltanto quando riceve un ordine. Cioè, quando le viene affidato un compito, intendevo dire. Gli altri scrutatori? E chi se li ricorda?
Tutti ai vostri posti! Che la votazione abbia inizio!
In realtà non succede nulla. Ogni tanto arriva qualcuno a votare. Io e gli altri scrutatori, a parte la ragazza, facciamo a gara nel dichiarare di conoscere gli elettori anche se non è vero, in modo da non dover registrare i loro dati. Il presidente assiste perplesso ma non dice nulla.
A vivacizzare un po’ l’ambiente ci pensa il cavalier Servetti. Con la sua vecchia 1100 blu fa di continuo la spola tra il seggio e le abitazioni delle vecchiette che accompagna a votare. Ne porta una ogni mezz’ora, con incredibile regolarità. In più, insiste per accompagnarle in cabina. Perché una non ci vede tanto, l’altra ha l’artrosi alle mani, un’altra ancora è malferma sulle gambe. Poi c’è quella che ha la pressione alta, quella che soffre di diabete, e ancora quella che è stata appena operata. Insomma, non una è sana, anche se sembrerebbe esattamente il contrario. Il più malmesso pare proprio il cavaliere. È agitato, affannato, sudato, congestionato. Chissà se reggerà fino all’ultima vecchietta. Eppure, non può fare a meno di svolgere quel compito. Il risultato sarà qualche croce in più apposta su un’altra croce circondata da uno scudo. Il presidente non vede di buon occhio tale andirivieni, forse perché è comunista, tuttavia alla fine lascia perdere e finge di non notare tali macchinazioni.
Ci stiamo un po’ annoiando quando, nel primo pomeriggio, arriva un tipo grande e grosso. Ve lo descrivo meglio. Ha una camicia azzurra con le maniche rimboccate e rimango impressionato dai suoi avambracci: sono più grandi delle mie gambe! I pantaloni, ben stirati, sono incredibilmente corti. Forse sono quelli della cresima. Le scarpe, almeno un cinquanta di numero, sono lucidate a specchio. I suoi capelli sono lisciati all’indietro con qualcosa che pare brillantina. Sì, prima ho detto trent’anni fa, non sessanta! Nondimeno, è così. Credetemi. Quando si avvicina a me sento puzza di naftalina. Si può sapere da dove l’hanno tirato fuori? Appena gli porgo la matita il suo volto, prima bianco cera, si imporpora. Stringe convulsamente il legnetto tra quegli enormi badili di carne. Si vede che ha una paura folle di farla cadere. Quando gli consegno la scheda l’afferra con l’altra mano e quasi la sgualcisce. Tutto il suo gigantesco corpo trema. Finora non ha pronunciato una sola parola. Il presidente lo invita ad accomodarsi in cabina. Nei suoi occhi scorgo il panico. Alla fine ad ogni modo si avvia, con passi lunghi e meccanici, ed entra nella cabina di legno.
Tutti noi, noi scrutatori intendo, stiamo ridacchiando. Il presidente no, e nemmeno la segretaria, però mi accorgo che i due compari si scambiano uno sguardo allarmato.
Passano cinque minuti, ne passano dieci, e poi un quarto d’ora, ma l’elettore è sempre in cabina. Sentiamo dei fruscii, dei piccoli colpi, lunghi sospiri, ma quello non ne vuole proprio sapere di uscire. Al seggio frattanto si è creata la coda, dal momento che di cabina ne abbiamo una sola.
Il presidente, finalmente, si spazientisce e invita ad alta voce l’elettore a riemergere. E quello esce, fradicio di sudore e con in mano la scheda aperta. Le matite sono diventate due, ma poi mi rendo conto che si tratta di quella che avevo consegnato, spezzata nell’impeto dell’esercizio del voto. Il presidente, a quella vista, balza in piedi e inizia a gridare come un ossesso.
“Torni dentro! Torni dentro! Deve ripiegare la scheda! La deve riconsegnare chiusa!”
E poi cita addirittura, del tutto a sproposito a mio avviso, alcuni articoli della legge elettorale. D’accordo, il vecchio ragazzo baffuto è preparato, ma perché deve dimostrarlo proprio in questo delicato momento?
L’uomo, anzi il gigante, si affanna ancora di più. Quasi accartoccia la povera scheda poi, incitato anche dagli altri elettori in attesa, sembra capire e ritorna nell’antro per la votazione. Sul pavimento del seggio intravedo due impronte umide. Incredibile! Il sudore ha oltrepassato pure le suole delle scarpe! Poveretto!
I piccoli colpi di prima adesso si trasformano in tonfi sordi, in botti secchi, in rumori strani, di imprecisata natura. L’operazione di ripiegatura della scheda sembra assai complicata. A un tratto la grande e pesante cabina di legno inizia a tremare, poi a ondeggiare in maniera paurosa, a inclinarsi in modo pericoloso. E infine cade, proprio sull’urna, che esplode e spande schede per tutto il locale. Alcuni elettori, curiosi, aprono qualche scheda e commentano i voti espressi. Il presidente sta per svenire. La segretaria, più fredda, si mette a quattro zampe e cerca di raccogliere le schede disperse.
L’uomo in cabina, ora che la cabina non c’è più e non costituisce più per lui un riparo dal mondo, perde del tutto la testa. Prende la scheda, fradicia di sudore e ripiegata in malo modo, e la inserisce nell’unica urna che ha a sua disposizione, la sua smisurata bocca. Poi, a fatica, inghiotte.

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