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sabato 28 maggio 2011

IL BALLOTTAGGIO



Il locale stava chiudendo. Dietro al bancone era rimasto un uomo che, dopo aver ultimato le pulizie, si stava accingendo a spegnere le luci. A un tratto vide un’ombra, qualcuno che si chinava per oltrepassare la saracinesca già in parte abbassata e si intrufolava all’interno.
“Ehi!” gridò il barista.
“Alberto, sono io!” Lo riconobbe.
“Tu? È da tempo che non ci vediamo!” disse il barista.
Il nuovo venuto era un individuo alto e magro, indossava un lungo soprabito e degli occhiali scuri che si affrettò a togliere. Il viso era stanco e segnato.
“Buonasera, signor sindaco” ribadì il barista. Il suo tono ora non era più meravigliato ma pesantemente ironico.
“Scusami per l’intrusione improvvisa ma…”
“E la scorta?”
“È rimasta fuori.”
“Ah! Volevo ben dire! Ormai non ti muovi più senza i tuoi angioletti!”
“Ne farei volentieri a meno ma purtroppo è una necessità” disse l’uomo con l’impermeabile.
Subito dopo ci fu un momento di imbarazzo. I due uomini, che un tempo erano stati grandi amici, non si incontravano da più di cinque anni.
“Hai bisogno di qualcosa?” ruppe il silenzio Alberto.
“No, no” rispose il sindaco. “Volevo salutarti. Sai, potrebbe essere l’ultima volta.”
Il barista sospirò.
“Perché hai accettato di ricandidarti?” domandò.
“Prima dammi qualcosa da bere, per favore. Ne ho bisogno.”
Alberto gli versò una grappa, l’altro afferrò il bicchiere e lo portò alle labbra con avidità. Nonostante gli anni trascorsi, non aveva cambiato gusti e abitudini, constatò il barista.
“Che cosa avrei dovuto fare?”
“Rinunciare, lasciare perdere, ecco cosa potevi fare.”
“La politica è una brutta bestia, è come una droga ed è difficile smettere. E poi, non credo di aver lavorato male…”
Alberto fece una smorfia, che l’altro notò con disappunto.
“Ho avuto il pieno appoggio dal mio partito…”
“Lo credo!” lo interruppe l’amico.
“…e pure tanti cittadini, tutti quelli che hanno avuto fiducia in me, mi hanno spinto a continuare…”
“Sicuro che fossero quelli che ti stimavano e non gli altri? I tuoi avversari, intendo dire?”
“Alberto, che cosa vorresti insinuare?”
“Be’, il nuovo sistema elettorale si presta a questi giochetti.”
Il sindaco finì di scolarsi la grappa, poi si passò le mani sugli occhi. Appariva sfinito.
“Lo credi davvero?” chiese con un filo di voce.
“Si dice in giro… l’ho sentito qui nel mio locale…”
“Non ci voglio credere.”
Alberto si strinse nelle spalle, poi versò di nuovo da bere, questa volta per entrambi.
“Il primo turno di voto non è andato molto bene” disse il barista.
“Eh? Come dici? Il primo turno?” si riscosse il sindaco. “Hai ragione, speravo di vincere subito, invece non è andata così. Comunque ce la posso ancora fare. Devo farcela!”
“Credi?” disse il barista, con distacco.
“Alberto! Ma ti rendi conto? Sai che vorrebbe dire essere sconfitto?”
“Che cos’è, una domanda retorica?” rispose l’altro. “Sappiamo benissimo quali siano le nuove regole per i ballottaggi. D’altra parte, tu hai accettato di partecipare, di metterti in gioco, e ora ne devi accettare le conseguenze.”
“Ma è troppo crudele!”
“Lo penso anch’io, ma le regole devono essere rispettate.”
“Sai una cosa?” disse il sindaco, pensieroso. “In realtà nessun altro voleva candidarsi, e io sono il sindaco uscente. Non ho potuto tirarmi indietro!”
“Già, capisco. Comunque la tua avversaria non sembra avere timori.”
“Lei è giovane e incosciente…”
“D’accordo, ma se perdesse… Tu, in fondo, la tua vita l’hai vissuta” disse il barista.
Al sindaco scappò un gemito. L’alcol stava cominciando a produrre il suo effetto.
“Alberto, sento che sarò io a perdere” disse, lamentoso.
“Mi dispiace, ma non posso fare nulla per aiutarti.”
“Neppure tuo padre? È pur sempre una persona molto potente…”
“Con mio padre non ho più rapporti da tempo, ma forse a te ciò era sfuggito, dal momento che anche noi due…”
“Ho capito, ho capito” disse il sindaco. “Ti prego, non infierire.”
“Perché il tuo partito ha accettato di approvare una simile legge?” domandò all’improvviso Alberto.
Il sindaco lo guardò negli occhi. Per un attimo Alberto vi scorse l’antica fierezza, ma anche la solita arroganza.
“Perché avevamo sempre vinto. Ed eravamo sicuri di continuare a farlo. Perché chi si opponeva a noi era gente senza cervello, che non aveva capito nulla. Gente misera e indegna. Infine, quale soddisfazione più grande può esserci che vedere il proprio rivale sconfitto, umiliato e alla fine giustiziato? In fondo, non si era detto che questo sistema permetteva una migliore selezione della classe politica? Chi è anche disposto a morire non può che essere profondamente motivato nel suo incarico, no?”
Alberto scrollò le spalle.
“Continuo a pensare che sia un sistema troppo brutale…” disse il barista.
“Alberto! Mi uccideranno!”
“…ma le regole sono regole.”
“Perderò! Non voglio morire!” urlò il sindaco con voce straziata.
Alberto scosse il capo, desolato.
“Dimmi che almeno tu voterai per me! In nome della nostra vecchia amicizia!” Il sindaco, ormai, pareva aver perso la testa. E la dignità.
“Vedi, il tuo programma elettorale non mi convince del tutto…”
“Alberto, ti prego!” implorò l’altro.
“No, credo che non voterò per te. Sai, quei nuovi piani di sviluppo urbanistico non…”
“Ahhhh!”




venerdì 27 maggio 2011

GIOCHI D'ACQUA



Era stesa sul tappeto con la cuffia alle orecchie e una espressione estatica sul viso quando le sembrò di udire un suono insistente. Dapprima lo ignorò poi, con grande disappunto, spense lo stereo, si alzò e si diresse alla porta. In quel breve lasso di tempo si passò le mani sui capelli, cercando di sistemarli senza risultato. Aprì e si trovò davanti la faccia pallida del suo amico Enrico.
“Ciao” disse il ragazzo. “Passavo di qua e ho deciso di fare un salto a salutarti. Spero di non averti disturbato”. Poi sorrise e la sua espressione divenne sofferta ma buffa.
“No, stavo ascoltando un po’ di musica” disse Silvia, a muso duro.
“Ah! Meno male!” esclamò Enrico. Il volto della giovane si incupì ancora di più.
“Su, entra” sibilò.
Il ragazzo si accomodò sul divano, lei tornò ad accucciarsi sul morbido tappeto.
“Che cosa stavi ascoltando?” domandò.
“Liszt”.
“Chi? Lsitz? E chi sarebbe?”
“Ho detto L-i-s-z-t” sillabò Silvia.
“Mai sentito. Scommetto che si tratta di musica classica” disse Enrico dopo aver dato una furtiva occhiata alla custodia del cd che si trovava sul divano proprio accanto a lui.
“Diciamo che hai indovinato” confermò la ragazza a denti stretti.
“Era anziano…” bofonchiò il ragazzo tornando a guardare l’immagine di copertina del cd.
“È stato anche giovane, come tutti” disse Silvia, acida.
“Certo. Sai, non sono mai riuscito a capire questo genere di musica. Ma questo che cosa suonava?”
“Innanzitutto Franz Liszt è stato un grande compositore. Comunque suonava il pianoforte piuttosto bene. Era un virtuoso dello strumento.”
“Eh?”
“Proprio quest’anno ricorre l’anniversario della sua nascita. Duecento anni” aggiunse Silvia.
Alla fine Enrico, con cautela, prese la custodia del disco e l’avvicinò agli occhi miopi.
Les jeux d’eau à la Villa d’Este” lesse.
“Vedo che quel titolo ti ha colpito”.
“Be’, è il meno banale. Di che si tratta?” chiese Enrico, fingendo una curiosità che non provava affatto. Il suo vero interesse in realtà era costituito da Silvia.
“È un pezzo tratto da Années de Pèlerinage” precisò la ragazza.
“Era un pellegrino?” domandò Enrico, che stava cominciando ad annoiarsi.
“Liszt viaggiò a lungo, prima in Svizzera e poi in Italia, anche se i suoi furono soprattutto vagabondaggi. Da quelle esperienze trasse tre quaderni di musica che sono veri gioielli. Riuscì a cogliere lo spirito dei luoghi e delle persone e a rappresentarlo alla perfezione.”
“Ah!” esclamò Enrico con finto stupore. Il tedio ormai lo aveva invaso e allora cercò di cambiare argomento.
“Senti, ti andrebbe di…” iniziò a dire, ma fu interrotto.
“Vorresti ascoltare quel pezzo?” domandò la ragazza.
Enrico non osò dire di no e annuì, poco convinto.
“È molto lungo?” chiese, titubante. Silvia scoppiò a ridere.
“Perché voi ignoranti pensate che la musica classica sia… lunga? Perché vi preoccupate solo di questo aspetto e non del resto? Ne avete forse paura? Comunque il pezzo dura circa due ore.”
Enrico impallidì e Silvia riprese a sghignazzare.
“Non è vero! Sono meno di dieci minuti! Però! Che faccia hai fatto! Sei proprio divertente, sai?”
Enrico assunse un’espressione offesa. Nello stesso tempo pensò che dieci minuti erano un periodo di tempo spaventosamente… lungo per un pezzo pianistico ma non ebbe il coraggio di palesare la sua preoccupazione.
“Silvia, posso chiederti una cosa?” disse invece.
“Spara.”
“Perché mi hai dato dell’ignorante?” La domanda scatenò altre rumorose risate.
“Ti sarai mica offeso?”
“No” rispose Enrico, che invece era ancora alquanto risentito per l’epiteto.
“Meno male. Mi riferivo soltanto alla tua scarsa conoscenza dell’argomento.”
“Ah! Se è così…” disse il ragazzo, poco convinto.
“Forza! Mettiti la cuffia!” lo incitò l’amica.
Enrico eseguì e subito dopo Silvia azionò lo stereo. Per tutta la durata del brano il giovane rimase impassibile. Lei lo osservò con attenzione. La musica finì.
“Allora?” chiese Silvia. “Che ne dici?”
“Bello” rispose Enrico, serio.
“Bello? Ma allora vuol dire che non hai capito nulla!”
Enrico, a quel punto, divenne permaloso.
“D’accordo, non ho capito nulla, ma adesso devo proprio andare” disse.
“Ciao Enrico, a presto. Senti, vuoi che ti presti il cd? Così lo potrai riascoltare.”
Il ragazzo non rispose ma annuì. Mise in tasca il disco e si diresse a grandi passi verso la porta. Non si era mai sentito così umiliato. Eppure, Silvia continuava a piacergli.
Giunto a casa, Enrico si tuffò sul sofisticato impianto hi-fi e sparò a palla i Green Day. Stappò una birra gelata e la bevve in tre sorsi. Dopo un po’ sentì bussare sul soffitto e comprese che forse il volume eccessivo stava disturbando il vicino. Contrariato, spense l’apparecchio. Che senso aveva ascoltare Billie Joe Armstrong e soci a volume basso? In quel momento si rese conto che aveva il cd di Silvia ancora in tasca. Lo tirò fuori, lo guardò, lo soppesò a lungo poi, con cautela, quasi ne avesse timore, lo introdusse nel lettore. Prese il telecomando e si stravaccò sul decrepito divano. Riascoltò con attenzione solo quel pezzo che già aveva sentito dalla sua amica: Jeaux d’eau. Non gli disse assolutamente nulla. Perché a molte persone piaceva quella musica insulsa mentre in lui non suscitava nessuna reazione? Era forse più stupido? Oppure ignorante, come aveva detto Silvia? O tutti fingevano, nascondendosi dietro alla loro ridicola affettazione? Diede una gran manata sul cuscino del divano, sollevando una nube di polvere, poi azionò di nuovo il telecomando. Ascoltò il pezzo cinque, sei, sette volte. Nel frattempo, fuori era diventato buio e lui si era pure scordato di cenare. A quel punto si accanì, arrabbiato e disperato. Al decimo ascolto, finalmente, accadde qualcosa. Enrico cominciò a percepire la differenza tra le diverse note. Non più in maniera indistinta, come in precedenza, ma in modo netto e chiaro. Riusciva ad avvertire il tocco delle dita sui tasti, a distinguere la diversa forza esercitata di volta in volta. Cominciò a provare delle sensazioni fisiche. Una specie di ansia positiva, dei brividi. Notò con sorpresa che i peli sulle sue braccia si rizzavano, guidati da una forza sconosciuta. Si sentì buono, generoso. Si sentì in pace. E poi, di colpo, le vide. Le fontane, disseminate lungo i giardini della vecchia villa. La cascata di note si trasformò in zampilli, in getti, schizzi e spruzzi. Provò una incredibile impressione di fresco. Si rilassò ancora di più e, con suo grande sgomento, ma anche gioia pura, non riuscì a trattenere… una furtiva lacrima.

sabato 21 maggio 2011

MARCHESI, VILLE E CAVALIERI



Mi è capitato di leggere il libro “La marchesa, la villa e il cavaliere” nel quale l’autore, Luca Telese, esuberante giornalista de “Il Fatto Quotidiano” e conduttore televisivo su “La7”, mette in evidenza le connessioni e gli intrecci tra due vicende in apparenza slegate: un sanguinoso episodio di cronaca e l’acquisto di una villa.
Camillo Casati Stampa è un marchese ricco sfondato e nullafacente. Per meriti non suoi ma esclusivamente ereditari vive di rendita e, all’epoca, cioè nel 1970, possiede un patrimonio stimato attorno ai 400 miliardi di lire. La seconda moglie, Anna Fallarino, è una donna di umili origini. E’ bella e procace e da ragazza cerca di fare carriera nel mondo del cinema ma con scarso successo. La piena affermazione la raggiunge invece quando riesce a sposare il marchese. Fin da subito la donna si piega al singolare stile di vita del marito: depravazioni, giochi sessuali di vario tipo che spesso coinvolgono estranei, deliri voyeuristici, e null’altro.
Quando compie quarant’anni Anna Fallarino è ancora una bellissima donna, anche grazie ad alcuni interventi di chirurgia estetica per nulla usuali a quei tempi. Però è stanca di quella vita vuota e votata esclusivamente ai piaceri perversi. Si innamora di un ragazzo di venticinque anni e questo fatto scatena la gelosia del marito, che percepisce di non avere più il controllo esclusivo sulla moglie per ciò che riguarda la sfera affettiva. Il marchese perde la testa e una sera imbraccia il fucile e uccide Anna e il suo amante. Poi si suicida con la stessa arma. Il tragico fatto avviene a Roma, in via Puccini.
Un avvocato romano, Cesare Previti, vigila affinché l’intera eredità passi alla sua assistita, vale a dire la figlia di prime nozze del marchese Casati Stampa, Annamaria. Assolve con grande abilità il suo incarico e i parenti di Anna Fallarino rimangono così del tutto esclusi dalla successione. Tra le varie proprietà di famiglia c’è una signorile abitazione situata ad Arcore, nel milanese, denominata Villa San Martino.
L’avvocato Previti riesce a convincere la sconvolta e frastornata ragazza a vendere quasi tutti i  beni ereditati, tra i quali la famosa villa. Il lussuoso immobile viene così ceduto, a prezzo irrisorio, a una società di Milano, la Edilnord, dietro la quale c’è un rampante imprenditore, l’allora “Dottore” e non ancora “Cavaliere” Silvio Berlusconi. Il perfido ruolo di Cesare Previti nella vicenda appare chiaro. In seguito sarà possibile conoscere ancora meglio questo avvocato privo di scrupoli. Sarà addirittura nominato ministro e dopo ancora subirà varie condanne.
Per non parlare del livello di notorietà raggiunto dall’altro squallido protagonista del raggiro, vale a dire l’attuale Presidente del Consiglio. E’ utile e doveroso aggiungere che, dalle parole di Telese, si evince che già negli Anni Settanta Silvio Berlusconi fosse affetto da tutte le manie e le ossessioni che possiamo riscontrare ancora oggi, oltre che da una assoluta mancanza di etica. Rispetto ad allora c’è una sola differenza: oltre al denaro adesso ha anche il potere, quel potere che gli abbiamo conferito noi.
Siamo stati bravi, vero?

giovedì 19 maggio 2011

RISVEGLI



Qualcuno si è svegliato. Dopo un lungo sonno, tanto lungo che pareva eterno, che ha generato mostri con sembianze diverse ma tutti egualmente spaventosi, una parte del corpo elettorale ha ritrovato un briciolo di consapevolezza, ha recuperato quella dignità che sembrava ormai smarrita per sempre. Un piccolo passo in avanti, s’intende, che tuttavia potrebbe rappresentare la prima traccia di un cammino indirizzato in una nuova e finalmente diversa direzione. C’è stato bisogno di una misura colma e stracolma, è stato necessario raggiungere vette di indignazione tali da far scattare qualcosa, da provocare l’innesco di una reazione che non è ipotizzabile, al momento, comprendere dove possa portare. Può essere, comunque, l’inizio di andamento virtuoso che, per sua natura, potrebbe attivare un meccanismo inarrestabile e al quale sarà impossibile opporre resistenza.
Dinnanzi a tale piccolo ma grande sconquasso, le reazioni sono state scomposte.  Come sempre la realtà dei fatti è stata negata, e ciò ha finito con il rafforzare ancora di più lo scompiglio provocato da quell’insieme di gesti semplici ma di straordinaria efficacia rappresentato dal voto di persone di ritrovata coscienza. Abbiamo avuto una chiara dimostrazione dell’immenso potere del suffragio. I mostri, all’improvviso, si sono sentiti denudati. Specchi di carne e di luce, superfici riflettenti formate da una miriade di iridi sdegnate ed esacerbate  hanno, di colpo, rimandato loro le vere apparenze. Il risveglio dal mondo dell’irrealtà e della falsa narrazione è stato brusco. Sono cadute le maschere. Gli esseri immondi hanno svelato le loro miserie e le loro meschinità.
D’ora in poi sarà più difficile, per quelle creature dell’ombra, coltivare l’arte dell’inganno.

sabato 14 maggio 2011

LA CABINA




C’è un presidente. Per forza, direte, è un seggio elettorale, e non può non esserci un presidente. D’accordo, avete ragione, comunque c’è. È il direttore di una scuola. Bassotto, grassoccio, con un bel paio di baffi neri e un lungo riporto sul cranio. Fa caldo, è vero, ma non tanto da giustificare le due enormi chiazze di sudore sotto le sue ascelle. Dite ciò che volete, ma quello di presiedere una sezione elettorale è un incarico di grande responsabilità, nonché un dovere civico, tale da giustificare pure fenomeni di esagerata traspirazione. E poi c’è la segretaria. Una signorina con i capelli grigi, seria e austera ma di sicuro di mostruosa efficienza. L’ha portata lui, il presidente. Non si tratta di sua moglie, come potreste pensare, e neppure di sua nonna, come farebbe invece pensare l’età non più verde. Di certo l’ha raccattata a scuola, e forse anche lì fa la segretaria. Poi, tra gli scrutatori, c’è uno che porta la barba e che non sembra molto pulito. È di sinistra? Non scherziamo, non stiamo parlando di adesso, ma di trent’anni fa. Un’altra è una ragazza giovane, avrà poco più di diciotto anni, ed è molto graziosa. Ha i capelli neri, tagliati a caschetto, la pelle ambrata e un corpo esuberante. Indossa una gonna nera, elegante, e una vezzosa camicetta bianca. Chissà dove pensava di andare. Si vede che è un po’ spaesata perché rimane immobile e si muove soltanto quando riceve un ordine. Cioè, quando le viene affidato un compito, intendevo dire. Gli altri scrutatori? E chi se li ricorda?
Tutti ai vostri posti! Che la votazione abbia inizio!
In realtà non succede nulla. Ogni tanto arriva qualcuno a votare. Io e gli altri scrutatori, a parte la ragazza, facciamo a gara nel dichiarare di conoscere gli elettori anche se non è vero, in modo da non dover registrare i loro dati. Il presidente assiste perplesso ma non dice nulla.
A vivacizzare un po’ l’ambiente ci pensa il cavalier Servetti. Con la sua vecchia 1100 blu fa di continuo la spola tra il seggio e le abitazioni delle vecchiette che accompagna a votare. Ne porta una ogni mezz’ora, con incredibile regolarità. In più, insiste per accompagnarle in cabina. Perché una non ci vede tanto, l’altra ha l’artrosi alle mani, un’altra ancora è malferma sulle gambe. Poi c’è quella che ha la pressione alta, quella che soffre di diabete, e ancora quella che è stata appena operata. Insomma, non una è sana, anche se sembrerebbe esattamente il contrario. Il più malmesso pare proprio il cavaliere. È agitato, affannato, sudato, congestionato. Chissà se reggerà fino all’ultima vecchietta. Eppure, non può fare a meno di svolgere quel compito. Il risultato sarà qualche croce in più apposta su un’altra croce circondata da uno scudo. Il presidente non vede di buon occhio tale andirivieni, forse perché è comunista, tuttavia alla fine lascia perdere e finge di non notare tali macchinazioni.
Ci stiamo un po’ annoiando quando, nel primo pomeriggio, arriva un tipo grande e grosso. Ve lo descrivo meglio. Ha una camicia azzurra con le maniche rimboccate e rimango impressionato dai suoi avambracci: sono più grandi delle mie gambe! I pantaloni, ben stirati, sono incredibilmente corti. Forse sono quelli della cresima. Le scarpe, almeno un cinquanta di numero, sono lucidate a specchio. I suoi capelli sono lisciati all’indietro con qualcosa che pare brillantina. Sì, prima ho detto trent’anni fa, non sessanta! Nondimeno, è così. Credetemi. Quando si avvicina a me sento puzza di naftalina. Si può sapere da dove l’hanno tirato fuori? Appena gli porgo la matita il suo volto, prima bianco cera, si imporpora. Stringe convulsamente il legnetto tra quegli enormi badili di carne. Si vede che ha una paura folle di farla cadere. Quando gli consegno la scheda l’afferra con l’altra mano e quasi la sgualcisce. Tutto il suo gigantesco corpo trema. Finora non ha pronunciato una sola parola. Il presidente lo invita ad accomodarsi in cabina. Nei suoi occhi scorgo il panico. Alla fine ad ogni modo si avvia, con passi lunghi e meccanici, ed entra nella cabina di legno.
Tutti noi, noi scrutatori intendo, stiamo ridacchiando. Il presidente no, e nemmeno la segretaria, però mi accorgo che i due compari si scambiano uno sguardo allarmato.
Passano cinque minuti, ne passano dieci, e poi un quarto d’ora, ma l’elettore è sempre in cabina. Sentiamo dei fruscii, dei piccoli colpi, lunghi sospiri, ma quello non ne vuole proprio sapere di uscire. Al seggio frattanto si è creata la coda, dal momento che di cabina ne abbiamo una sola.
Il presidente, finalmente, si spazientisce e invita ad alta voce l’elettore a riemergere. E quello esce, fradicio di sudore e con in mano la scheda aperta. Le matite sono diventate due, ma poi mi rendo conto che si tratta di quella che avevo consegnato, spezzata nell’impeto dell’esercizio del voto. Il presidente, a quella vista, balza in piedi e inizia a gridare come un ossesso.
“Torni dentro! Torni dentro! Deve ripiegare la scheda! La deve riconsegnare chiusa!”
E poi cita addirittura, del tutto a sproposito a mio avviso, alcuni articoli della legge elettorale. D’accordo, il vecchio ragazzo baffuto è preparato, ma perché deve dimostrarlo proprio in questo delicato momento?
L’uomo, anzi il gigante, si affanna ancora di più. Quasi accartoccia la povera scheda poi, incitato anche dagli altri elettori in attesa, sembra capire e ritorna nell’antro per la votazione. Sul pavimento del seggio intravedo due impronte umide. Incredibile! Il sudore ha oltrepassato pure le suole delle scarpe! Poveretto!
I piccoli colpi di prima adesso si trasformano in tonfi sordi, in botti secchi, in rumori strani, di imprecisata natura. L’operazione di ripiegatura della scheda sembra assai complicata. A un tratto la grande e pesante cabina di legno inizia a tremare, poi a ondeggiare in maniera paurosa, a inclinarsi in modo pericoloso. E infine cade, proprio sull’urna, che esplode e spande schede per tutto il locale. Alcuni elettori, curiosi, aprono qualche scheda e commentano i voti espressi. Il presidente sta per svenire. La segretaria, più fredda, si mette a quattro zampe e cerca di raccogliere le schede disperse.
L’uomo in cabina, ora che la cabina non c’è più e non costituisce più per lui un riparo dal mondo, perde del tutto la testa. Prende la scheda, fradicia di sudore e ripiegata in malo modo, e la inserisce nell’unica urna che ha a sua disposizione, la sua smisurata bocca. Poi, a fatica, inghiotte.

venerdì 13 maggio 2011

SPALLATA O SPINTARELLA?



Tra due giorni saremo chiamati alle urne per rinnovare le assemblee cittadine di alcune grandi città come Milano, Torino, Bologna e Napoli, e di molti altri centri medi e piccoli.
Da parte dell’attuale maggioranza di governo c’è stata grande insistenza nel sottolineare la valenza politica nazionale di questa consultazione.
Noi continuiamo a pensare che si tratti comunque di elezioni amministrative e che occorra, pertanto, concentrare l’attenzione degli elettori su esigenze, necessità e problemi locali.
Ma, come ricordato, così non è per chi attualmente regge in modo disastroso le sorti del Paese. Quindi, ci chiediamo, perché non raccogliere la sfida?
Si tratta, senza ombra di dubbio, di una ghiotta occasione per ribadire che ogni limite è stato oltrepassato, e deve essere sfruttata.
L’appello, accorato, è rivolto non a chi, da tempo, denuncia l’insostenibilità dell’attuale situazione, ma soprattutto a chi, seppure con grande ritardo, si è reso conto di essere stato ingannato. Un imbroglio che si perpetua da troppo tempo e che rende quindi difficile e sofferta tale ammissione. Anche di fronte alla palese dimostrazione del raggiro, al manifesto svelamento delle falsità propinate, è comprensibile quanto sia arduo dichiarare, da parte di alcuni elettori, la propria ingenuità, se non la vera e propria dabbenaggine.
Tuttavia, in questi casi, occorre far ricorso all’umiltà, ed avere il coraggio di dire basta, di voltare pagina. Ritrovare la forza e l’orgoglio necessari a riconoscere gli errori di valutazione commessi in passato.
Il voto è il culmine del processo democratico. Si dice, da una parte di opposizione che troppo spesso si abbandona a motti di facile propaganda, che il nostro Paese è sottoposto a un regime di matrice dittatoriale. Nulla di più inesatto. Se è vero che gran parte dell’informazione è controllata da una persona sola, è vero altresì che esistono ancora segmenti di stampa e di televisione assolutamente libere di dare voce a opinioni differenti, non allineate ai servilismi di marchio governativo. E poi esiste la rete che, per sua natura, è di fatto incontrollabile da parte di un unico soggetto. Inoltre, sussiste il pluralismo partitico, fondamento essenziale di ogni sistema politico democratico.
Il nostro avversario non è un dittatore o aspirante tale, bensì un individuo che possiede una visione padronale del processo politico che lo conduce a non tollerare regole, limiti e contrappesi istituzionali, tutti elementi imprescindibili in una moderna democrazia.
L’azione di contrasto più efficace nei suoi confronti deve essere compiuta utilizzando il voto.
Se poi, alla fine, l’esito della consultazione rappresenterà una vera o propria spallata, con ripercussioni non calcolabili, oppure una semplice spintarella, lo vedremo.
Un piccolo urto, una semplice pressione, possono comunque essere sufficienti per precipitare nel baratro chi, da tempo, sosta sul ciglio.
L’alternativa è che nell’abisso frani l’intero Paese.

CAMPAGNA ELETTORALE



Aldo Fortini si fermò a detergersi il sudore. La giornata era molto calda e, se la sua idea di fare campagna elettorale porta a porta nel proprio quartiere era valida, di sicuro si stava rivelando anche molto faticosa. Approfittò di un inquilino che stava uscendo e con destrezza si infilò su per le scale di uno stabile. Suonò il primo campanello a portata di mano e rimase in attesa. Quasi subito udì dei passi pesanti e la porta si aprì con uno scatto secco.
“Avanti!” disse una voce possente.
Un po’ sorpreso, il candidato entrò. L’ingresso dell’appartamento era in penombra. Fortini scorse, su un piccolo tavolino, un busto in gesso che raffigurava Benito Mussolini. Lo riconobbe dalla mandibola prominente e dal cranio glabro. Rabbrividì.
“Giovanotto!” disse un uomo sulla sessantina, tarchiato, scalzo e stretto in una corta vestaglia nera. Pure lui, come quello del busto, aveva la testa lucida.
“Buongiorno. Scusi se la disturbo, mi chiamo Aldo Fortini e sono candidato alle…”
“Non dica altro! Lei è dei nostri, vero?”
L’uomo si esibì in un vigoroso saluto romano poi, sempre tenendo rigido il braccio, lo appoggiò con forza sulla spalla dello sbalordito Fortini.
“Apprezzo il suo impegno per la nostra causa, anche se viviamo tempi terribili. I nostri ideali si stanno smarrendo e sapere che ci sono giovani come lei, indomiti e valorosi…”
“Mi scusi ma…” cercò di intervenire Fortini.
“Non aggiunga altro! L’espressione fiera e combattiva dipinta sul suo volto è più che sufficiente. Dice tutto. Non c’è bisogno di parole!”
“Vorrei soltanto puntualizzare che…”
“Lo so, lo so, vuole parlarmi degli immigrati. Ma non è necessario perché conosco molto bene il problema. La lebbra si sta estendendo! Quelli ci faranno a pezzi! Ci mangeranno vivi! Ma noi resisteremo!”
“Il fatto è che…”
“Ci pensa? Se avessimo conservato l’Impero adesso non saremmo in questa tragica situazione. Lei sarebbe sdraiato su una spiaggia con le vergogne al sole e io avrei almeno due domestiche etiopi. Sa quanto sono docili quelle donne? Fanno tutto, ma proprio tutto, mi capisce vero?” L’uomo strizzò l’occhio e poi proseguì. Era un fiume in piena.
“E invece mi ritrovo a dover fare tutto da solo! Proprio tutto, compreso quello. Mi capisce vero?”
Fortini annuì. Purtroppo aveva capito.
“Senta, lei adesso se ne va, vero?” domandò l’energumeno.
“Certo, la ringrazio e…”
“Mi porterebbe mica giù la spazzatura?”
“Eh?”
“Quel sacco, proprio dietro di lei.”
Per via della poca luce, Fortini non l’aveva visto. Si voltò. Il sacco era alto quanto lui e pesantissimo. Lo afferrò e cominciò a trascinarlo per le scale. Udì la porta dell’appartamento chiudersi. Giunto in strada, vide che il cassonetto dei rifiuti era stracolmo. Allora abbandonò il mostruoso sacco, dal quale iniziava a fuoriuscire un inquietante e puzzolente liquame scuro.
“Ha visto? I cassonetti sono sempre pieni! Non riusciamo neppure a buttare l’immondizia! Che schifo! Che vergogna!” A parlare era stata una minuscola vecchietta. La sua voce però era piuttosto potente.
“Probabilmente ci sono stati dei…” tentò di dire Fortini.
“Balle! Sa di chi è la colpa di tutto questo? Dei politici! Sono tutti dei mascalzoni!”
L’anziana donna, sempre più infervorata, premette la punta affilata dell’ombrello contro l’addome del povero Fortini con grande forza. Il candidato temette di essere infilzato e non riuscì più a proferire alcun suono.
“Avanti! Lo dica anche lei! Di chi è la colpa?” disse la diabolica vecchia.
“Dei politici! Sono tutti dei gran bastardi! Dei veri stronzi! Sono dei…” ululò Fortini con voce stridula, degna di Farinelli. Paventava da un momento all’altro di vedere le proprie viscere spandersi sul marciapiede. Sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di raccoglierle.
“Giovanotto! Non sia volgare! Guardi che potrei essere sua madre!”
A Fortini, nonostante la tragica situazione, sfuggì una espressione di derisione. La vecchiaccia poteva essere, al massimo, sua bisnonna.
Per fortuna, proprio in quell’istante, arrivò il bus. La strega assestò con gusto un ultimo colpo nel ventre del candidato e balzò sul mezzo, con insospettabile agilità.
Fortini verificò i danni. La giacca e la camicia erano bucate, il resto no, ma le gambe gli tremavano lo stesso. Barcollando, riprese a camminare. Decise di cambiare isolato ma, dopo aver fatto pochi passi, si imbatté in un uomo che lo fermò.
“Le rubo solo un minuto. Sa che domenica si vota, vero?”
Fortini lo guardò, dapprima strabiliato, poi lo riconobbe. Era un suo rivale politico, pure lui impegnato nella corsa elettorale. Il tipo gli mise tra le mani un santino.
“Se voterà per me poi potrà passare a riscuotere la settimana dopo le elezioni.”
A Fortini scappò da ridere.
“Riscuotere che cosa?” domandò, con tono beffardo.
“Dipende. Lei mi sembra parecchio male in arnese e quindi bisognoso di tutto: soldi, lavoro, cibo. E anche abiti, direi. Veda un po’ lei…” disse il rivale fissando la sua giacca bucata.
“Però! E come farà ad essere sicuro che io avrò votato proprio per lei?” chiese Fortini.
“Non si preoccupi, quello non è un problema. Utilizzo un sistema svizzero, sicuro al cento per cento” rispose l’altro, tranquillo.
“Eh? Sistema svizzero? Ma cosa sta dicendo?”
“Senta, non ho tempo da perdere. Che faccio? La segno?”
Fortini, ridiventato di colpo serio, indietreggiò.
“No! Non segni! Non segni!”
L’altro scosse il capo, con espressione di compatimento, e si allontanò.
Fortini, visibilmente scosso, cominciò a correre nella direzione opposta. Senza fermarsi, svoltò l’angolo e piombò addosso a un malcapitato che reggeva due borse per la spesa. Il candidato lo afferrò alla gola e cominciò a scuoterlo con violenza.
“Mi stia bene a sentire!” strillò Fortini. “Mi chiamo Aldo Fortini e sono candidato alle prossime elezioni. Capito?”
“Sì… sì…” replicò l’altro con un filo di voce. Era bianco come un cadavere.
“Le proibisco di votare per me! Sono stato chiaro? Guai se vengo a sapere che mi ha dato il voto, intesi? Lei o chiunque altro! Non lo voglio, il vostro voto!”
“Ma…”
“E quindi sparga la voce, in tutto il quartiere. Guai se qualcuno vota per Fortini! Ha compreso?”
“Ma…” Il tizio stava per soffocare.
Per fortuna, il candidato svenne.



mercoledì 4 maggio 2011

L'INTERVISTA?


Incontro Enzo Sopegno, del quale è appena uscita la raccolta di racconti “L’uomo del sonno”. Ho come l’impressione che l’autore non ami, in maniera particolare, parlare delle sue opere. Ne chiedo a lui la conferma.
Sì, in parte è vero, e ciò è dovuto alla mia naturale ritrosia. Ovviamente, se ravviso nell’interlocutore un reale interesse per i miei lavori il discorso cambia e sono in grado di passare dall’apatia assoluta al più grande entusiasmo.
Senti, Carlo Crescitelli, un tuo collega scrittore, commenta in questo modo la tua ultima fatica: “Dopo la finestra aperta da ‘Oltre il ponte’ sui drammi e sui dubbi del nostro recente passato, E. Sopegno ritorna con un lavoro più lirico e rarefatto, i cui bellissimi dialoghi ricordano a tratti le pagine ispirate di (…) per raccontarci la pena del vivere dei suoi personaggi/archetipo e dei tanti e dolenti volti della natura umana. Una prosa bella e impeccabile, con contenuti densi e una filosofia tangibile.” Un giudizio lusinghiero e una legittima curiosità. Perché mi hai imposto di omettere il nome dello scrittore al quale Crescitelli ti paragona?
(Ride) L’amico Carlo è troppo buono e generoso, e io sono troppo in imbarazzo per consentirti di fare una cosa del genere!
D'accordo, facciamo un passo indietro e parliamo un attimo di “Oltre il ponte”, il romanzo che hai pubblicato la scorsa primavera. Come è stato accolto?
Le valutazioni critiche sono state buone. Ho molto apprezzato, tra gli altri, il commento positivo nei miei confronti da parte di Francesca Diano, saggista, scrittrice nonché traduttrice per Guanda dell’autrice indiana Anita Nair, persona di notevole esperienza. Purtroppo, minore è stato il riscontro da parte del pubblico dei lettori. D’altra parte, devo riconoscere come le mie capacità di auto-promozione siano piuttosto limitate. Comunque, continuo a considerare quel romanzo il mio lavoro migliore, che mi ha impegnato, tra ricerche e scrittura, per quasi un anno. E l’argomento trattato mi ha coinvolto completamente: è stato quasi come vivere, per un lungo periodo di tempo, in quell’atmosfera, quella di quel fatidico anno, il 1977, così denso di avvenimenti importanti e tragici. Un’atmosfera che ho vissuto realmente (all’epoca avevo diciassette anni) e che sono stato costretto a richiamare alla memoria.
Il terrorismo…
Sì, però affrontato da un punto di vista diverso, quello di una piccola realtà di provincia, dove qualcuno si è trovato coinvolto, altri ne sono stati appena sfiorati e qualcun altro ancora non si è accorto invece di nulla. Era questo il contrasto che ho voluto evidenziare.
Torniamo al tuo nuovo libro, una raccolta di racconti che tu definisci vagamente surreale…
In realtà si tratta di storie saldamente legate al concreto, al vissuto di tutti i giorni, nelle quali si inserisce un elemento irrazionale che altera il normale andamento delle cose, dei fatti.
È stato molto apprezzato il primo racconto, “Sei nuovo?”. Perché?
In questo caso, l’elemento surreale cui facevo prima riferimento è rappresentato dall’ambientazione e dai personaggi, tutto il resto è tragicamente umano. Onestamente, devo aggiungere che è piaciuto molto il tessuto narrativo, un po' meno la trama...
Nei tuoi racconti è possibile ritrovare qualcosa di autobiografico?
(Ride) Questa è una domanda che di solito mi viene rivolta da chi mi conosce personalmente, e alla quale rispondo sempre ponendo innanzitutto dei paletti. Mi spiego: stiamo parlando di letteratura, e la letteratura è, per definizione, pura finzione.
Non hai risposto…
Intendo dire che di sicuro sono presenti elementi che derivano dalla mia esperienza di vita e dalle mie idee – un autore trasporta sempre nelle sue opere qualcosa di sé – tuttavia tali componenti, per essere efficaci, non devono essere facilmente individuabili. Sono presenti ma modificati, alterati, plasmati e trasformati. La finzione letteraria deve comunque sempre prevalere.
Che cosa hanno in comune i personaggi dei tuoi racconti, considerati da Crescitelli dei veri e propri archetipi?
Sono personaggi che, in parte, rispecchiano la mia visione un po’ pessimistica dell’esistenza. Nel bene e nel male, appaiono sempre e comunque come dei perdenti. Individui che vivono con sofferenza la loro condizione, che si sbattono ma non ottengono nulla, che sono rassegnati, che ordiscono inganni patetici che gli si rivoltano contro oppure che sono semplici vittime della banalità o della noia del vivere.
Quali sono gli immediati progetti futuri?
Un po’ di riposo, innanzitutto. Il tempo per scrivere spesso è ritagliato a fatica tra le altre occupazioni, tra le quali non ultima il lavoro, e quindi portare avanti un progetto letterario nelle sue diverse fasi richiede notevoli sforzi e grande impegno e passione. Comunque, ho una mezza idea di tornare alla forma romanzo…
Qualche anticipazione?
Mmm... anni '80... due fratelli...
Un po' poco...
Preferisco non sbilanciarmi. Alla fine, potrebbe trattarsi di tutt'altra cosa! Sai, a volte capita di essere fulminati, all'improvviso, da una nuova e inaspettata idea e quindi...
Grazie.
Prego.

domenica 1 maggio 2011

IL CORTEO



La voce di sua moglie lo sveglia di soprassalto.
“Mario! Non ti alzi?”
Uno sbuffo. Un grugnito.
“Eh?” dice, ancora assonnato.
“È tardi, non vai al corteo?” insiste lei.
“Come dici? Il corteo? Ah, sì! Ora mi alzo, grazie.”
“Ma Fortunato non passa a chiamarti, come gli anni scorsi?”
“No, non passa. Ci troviamo direttamente in piazza. Perché non vieni anche tu?”
Lei sorride.
“No, Mario. Lo sai che ho da fare. Chi lo prepara il pranzo? E poi mi troverei a disagio tra i tuoi compagni di lavoro.”
“Già, hai ragione.”
Si sfila il pigiama, con gesti stanchi. Una rapida sosta in bagno ed è già pronto.
“Ma non ti sei neppure fatto la barba!” dice la donna.
“No, non l’ho fatta, non faccio in tempo.”
“E non mangi nulla? Prendi almeno un po’ di caffè.”
“Sì, un po’ di caffè lo prendo, grazie.”
Lei provvede con sollecitudine a servirlo. I modi gentili del marito riescono ancora a stupirla, anche dopo tanti anni. Ed è contenta di prendersi cura di lui.
Lui sorseggia il caffè. Ringrazia di nuovo.
“Bene, adesso vado” dice, poi si avvicina alla moglie e la bacia sulla guancia.
“Così?”
“Come?”
“Te ne vai così?”
Lui la guarda, smarrito. Non capisce.
“La bandiera! Non la porti la bandiera?”
“Ah! Hai ragione. Dov’è? Non ricordo…”
“Aspetta, lo so io” dice lei. Ritorna dopo qualche istante. Tra le mani ha una vecchia bandiera, di colore rosso, fissata a un’asta di legno.
“L’hai sempre portata.”
“Sì, è vero, l’ho sempre portata. Saranno quasi trent’anni. Eppure me ne stavo dimenticando. Sarà la vecchiaia, mia cara…”
“Ma smettila! Adesso vai, altrimenti farai tardi sul serio.”
“Sì, vado. A dopo.” Ed esce.
Le vie sono affollate. Tanta gente. Giovani, anziani, famiglie intere. Tutti in attesa di unirsi al corteo, che è appena partito.
Mario sta in disparte, la sua bandiera è arrotolata. Si dirige verso i portici e, in parte nascosto dietro una colonna, assiste alla sfilata. Ci sono tutti: le autorità, e di alcuni di loro si potrebbe benissimo fare senza, le organizzazioni sindacali, tra cui la sua, e poi giovani e pensionati, i chiassosi ragazzi dei centri sociali tenuti d’occhio da alcuni poliziotti. E soprattutto ci sono loro, i suoi colleghi di lavoro, che marciano con il pugno alzato dietro lo striscione della fabbrica. Riconosce Aldo, Luigi e Fortunato, amici e compagni da una vita intera.
Sente i canti, gli slogan urlati, e si commuove. Appoggia a terra la bandiera, che è rimasta chiusa, l’abbandona sul selciato, e mesto si dirige verso casa. Ormai non può più rimandare, deve trovare il coraggio di dire a sua moglie ciò che lo tormenta da due giorni. E che lo ha fatto precipitare nella più cupa disperazione. Deve dirle che è stato licenziato.

Il ragazzo cammina con le mani in tasca sotto i portici della piazza. D’un tratto nota qualcosa a terra, proprio vicino ai suoi piedi. Si china e raccoglie quella che sembra una vecchia bandiera rossa. La dispiega, si guarda attorno e poi prova con impaccio a sventolarla. Il drappo, finalmente libero, sembra sorridere. Alcune persone, che si sono appena sfilate dal corteo, assistono alla scena divertite.
“Marco! Marco!” Una voce di donna.
“Marco!” Un’altra. Alla fine il ragazzo riesca a individuarle. Stanno venendo verso di lui e finalmente le riconosce. Sono Anna e Giada, le sue colleghe di lavoro. Anna è davanti. Marco riconosce la sua figura piena, il suo volto simpatico, i suoi capelli biondi. Dietro cammina Giada, con le sue gambe lunghe, il passo elastico, il caschetto di capelli neri. Entrambe hanno quasi il doppio dei suoi anni, tuttavia lui si trova bene con loro, in ufficio, e poi le donne mature gli sono sempre piaciute. Arrivano, e per prima cosa lo baciano, con sincero affetto.
“Eddài! Al corteo! Ecchì l’avrebbe mai detto?” L’entusiasmo di Anna pare incontenibile. Appoggia le mani sulle spalle di Marco, gli scompiglia i capelli.
“E addirittura con la bandiera? Perché non ci hai detto nulla? Potevamo organizzare insieme!” esclama Giada, pure lei eccitata per l’inatteso incontro.
Marco arrossisce, in evidente imbarazzo.
“L’ho trovata per terra e l’ho raccolta” cerca di giustificarsi.
“Cheffài? Ti vergogni? È bello che tu abbia portato la bandiera! È troppo figo!”
“Marco, che ne dici se andiamo a spizzicare qualcosa? Stamattina non ho neppure fatto colazione e adesso provo un certo languorino…” propone Giada.
Il ragazzo mette la mano in tasca e si accorge di non avere con sé il portafoglio. Si imporpora ancora di più. Anna però ha notato il gesto.
“Sìììì! Andiamo! Marco, sei nostro ospite al bar!” strilla la donna.
“Che c’è, ragazzino? Sei triste?” domanda Giada scrutandolo.
Marco la guarda negli occhi, per la prima volta.
“Questa festa è bella, ma mi ha provocato un attacco di malinconia. Sai, il mio contratto di lavoro scade tra un mese e allora sarò di nuovo un disoccupato, non più un lavoratore. E soprattutto non ci vedremo più.”
Anna lo colpisce sul petto con la mano aperta.
“Cazzo! Sei così giovane! Non pensarci, vivi la tua vita adesso, tra un mese si vedrà! E l’adesso per te è una abbondante colazione al bar in nostra compagnia! Che vuoi di più? Forza, muoviamoci!”
Marco annuisce, pensieroso.
“E la bandiera?” chiede.
“La bandiera? Se davvero l’hai trovata regalala a qualcuno” dice Anna. Poi la prende con delicatezza dalle mani di Marco e, con un gran sorriso, la porge a un uomo che sta passando.
“La vuoi?”

Amhed si ritrova tra le mani una bandiera. La esamina un attimo e poi l’appoggia sulla spalla.  Con gesto automatico porge una confezione di fazzoletti di carta a una donna che tiene per mano un bambino.
“Non ho bisogno di niente, grazie.”
“Scusa, perché tanta gente? Cosa è oggi?” domanda il venditore.
“Oggi? Ma è la festa dei lavoratori! Tieni, così ti prendi un caffè!” La donna gli da alcune monete. Lui ringrazia e prosegue il cammino. Esce dai portici e si infila nella via. Quasi senza accorgersi, si ritrova in mezzo al corteo. E vede tanti volti festanti. Nessuno fa caso a lui. Allora alza la bandiera e inizia a sventolarla con forza.  Alcuni operai, in tuta blu, lo notano, gli si stringono attorno e iniziano ad applaudire. Immediatamente, molti altri si uniscono all’applauso. Amhed, in quell’attimo magico, è felice. Non gli capita spesso. E sorride, mettendo in mostra i denti rovinati.