…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si
ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre
impazzita contro di me…
(Fine)
…poi vedo in cielo una palla di fuoco che si
ingrandisce sempre di più, fino a diventare enorme, smisurata, e che corre
impazzita contro di me…
(Fine)
Il risveglio fu brusco. Abraham attese che il cuore in tumulto smettesse di martellargli il petto, poi scostò la coperta e si alzò. Nella stanza faceva freddo, e rabbrividì. Niente doccia, decise. Andò in bagno, si sciacquò il viso e si rasò con cura. Quindi si vestì. Mentre ispezionava la borsa per verificare che tutti i documenti fossero al loro posto squillò il telefono. Con un po’ di apprensione raggiunse l’apparecchio, posto nel piccolo ingresso dell’appartamento, e sollevò la cornetta. Ascoltò a lungo, senza mai parlare. “D’accordo, ho capito. È tutto chiaro” disse infine, prima di riattaccare. Poi si sedette. Dopo alcuni minuti tornò nella stanza da letto, si tolse l’abito e indossò dei jeans e una maglietta. Quel giorno non sarebbe andato al lavoro, e neppure in quelli successivi. Si spostò in cucina, scaldò del latte al quale aggiunse una manciata di corn-flakes. Travasò il tutto in una tazza e mangiò camminando. Fumò due sigarette, una dietro l’altra, quindi consultò l’orologio e decise che poteva chiamare in ufficio. Il suo collega Amos di sicuro era già sistemato dietro la scrivania. Era sempre il primo ad arrivare. E infatti rispose subito, già dopo il primo squillo. Abraham gli fornì una succinta spiegazione, poi lo pregò di occuparsi di una pratica che stava seguendo e alla quale teneva molto. “Non ti preoccupare, ci penso io” lo rassicurò il collega e amico. “Grazie, Amos.” “Comunque me lo sentivo” aggiunse l’altro. “Eh? Che cosa?” domandò Abraham. “Che ti avrebbero chiamato. Non possono proprio fare a meno di te.” “Non dire sciocchezze. Poteva accadere oppure no. Be’… è capitato.” Amos sogghignò. “Già! Il fatto è che a te capita sempre!” esclamò, divertito. “Guarda che prima o poi potrebbe toccare anche a te.” “Figurati! Con il mio piede! E poi, se proprio così fosse, vorrebbe dire che il nostro paese si troverebbe in una condizione di grave pericolo. Che sarebbe la sua fine, insomma.” “Quante stronzate dici! Ti saluto, mio caro.” “D’accordo. Mi raccomando, appena puoi fatti sentire.” “Va bene, prima o poi lo farò.” Abraham pose così termine alla conversazione. Si sentiva nervoso, eccitato, non riusciva a stare fermo. Fumò con ingordigia altre due sigarette. Dal momento che disponeva di un intero giorno libero decise di fare una passeggiata, per calmare un po’ i nervi, per tentare di rilassarsi. Il camminare a lungo, senza una meta precisa, tra le strade trafficate della sua città, rappresentava per lui sempre un ottimo sistema per allentare la tensione. E in quel momento ne sentiva proprio la necessità. Prima di uscire, tuttavia, ritornò nella stanza da letto e aprì l’armadio. Il suo sguardo si fissò sulla divisa militare. Era lavata e stirata, in perfetto ordine. L’aveva indossata per l’ultima volta soltanto qualche mese prima, quando aveva preso parte a un’esercitazione, una delle tante. In basso c’era il grosso zaino, fabbricato con robusto tessuto mimetico. Controllò con cura anche quello. Tutto a posto. Soddisfatto, richiuse l’armadio e si diresse verso il ripostiglio. In un angolo scorse la sagoma minacciosa ma a suo modo rassicurante del fucile d’assalto M4 dal quale proveniva un pungente odore di olio lubrificante, e le cui esalazioni avevano del tutto impregnato il minuscolo ambiente. Rassicurato, Abraham afferrò un pesante giubbotto e le chiavi di casa e finalmente si apprestò a lasciare l’appartamento. Proprio allora squillò di nuovo il telefono. Sbuffando, il ragazzo tornò sui suoi passi e si avvicinò all’apparecchio. Prima di rispondere guardò il display. Era sua madre. Quella donna apprensiva, come tutte le madri ebree d’altronde, trascorreva l’intera giornata di fronte al televisore a sorbirsi un notiziario dopo l’altro. Di sicuro era molto preoccupata, e il suo istinto le aveva suggerito di fare quella chiamata al figlio. Lui però non sollevò il microfono. L’avrebbe cercata l’indomani, decise, appena fosse giunto in caserma. Abraham chiuse l’uscio dietro di sé e si precipitò giù per le scale, di corsa, senza degnare di una sola occhiata le pareti che scorrevano veloci ai suoi lati, come invece faceva ogni giorno. Il ricordo del brutto sogno era ancora troppo vivido nella sua mente, e non era proprio il caso di richiamarlo. Uscì in strada e iniziò a camminare, con le mani in tasca, fischiettando il ritornello di un motivetto arabo che le radio trasmettevano in continuazione. Stava percorrendo Ben Yehuda Street, con il mare alla sua sinistra, quando udì le sirene. Si bloccò. Intorno a lui la gente iniziò a correre. Qualcuno gridava, altri si scambiavano sguardi carichi di angoscia e di incredulità. Il suono lancinante dell’allarme penetrava i timpani, accresceva la paura delle persone.
(Continua)
Entrai nel cortile e parcheggiai l'auto. Il terreno era ricoperto di foglie secche, che nessuno aveva raccolto. Erbacce erano spuntate ovunque, e prosperavano rigogliose. C'era aria di abbandono, e il cielo grigio rendeva tutto ancora più malinconico.
Scendemmo dalla macchina.
"Ti sei ricordato le chiavi?"
domandò mia sorella Anna.
"Certo" risposi, e gliele
mostrai. Le avevo appena estratte dalla tasca.
Erano trascorsi più di due anni da
quando nostra madre era venuta a mancare. Nostra madre, che da tanto tempo
viveva da sola in quella grande casa. Da allora né io né mia sorella avevamo
avuto il coraggio di prendere qualsiasi decisione riguardo la sua abitazione.
Non avevamo toccato praticamente nulla. Negli ultimi tempi era maturata in noi
la consapevolezza che la risoluzione migliore fosse quella di vendere
l'edificio. Nessuno di noi due aveva intenzione di trasferirsi e di abitarci e,
in segno di rispetto nei confronti di nostra madre, che quella casetta aveva
sempre curato con dedizione e amore, non volevamo che il nido dove eravamo nati
e avevamo vissuto per tanti anni cadesse in rovina.
Anna mi tolse le chiavi dalla mano e si
diresse verso la porta di ingresso.
"Marco!"
"Eh?"
"Non era chiusa!"
La raggiunsi.
"In che senso non era chiusa?"
domandai.
"Non erano stati dati i giri di
chiave".
Sollevai le spalle.
"L'altra volta ce ne saremo
dimenticati". L'ultima visita risaliva a un paio di mesi dopo il decesso
di nostra madre. Eravamo ancora molto turbati, possibile che fossimo stati
disattenti.
Varcammo la soglia e subito notai
un'altra distrazione. Avevamo lasciato il contatore inserito. Mia sorella non
ci fece caso nulla, accesi le luci e ci inoltrammo in soggiorno.
"Che strano odore" disse Anna,
annusando l'aria.
"È odore di chiuso" risposi,
anche se mia sorella aveva ragione. Si percepiva una puzza strana, difficile da
definire.
Spalancai un paio di finestre.
"Ecco fatto" dissi. "Tra
un po' andrà meglio".
Vidi mia sorella dirigersi in cucina.
"Marco!"
"Che cosa c'è?"
"Vieni, per favore".
Sospirai, poi la raggiunsi.
"Guarda, il frigorifero è chiuso.
Non lo avevamo lasciato aperto?"
"Non ricordo" dissi, mentre
Anna apriva lo sportello del frigo.
"C'è qualcosa dentro. Non lo
avevamo svuotato?"
Iniziavo a spazientirmi.
"Anna, non ti ricordi in che
condizioni eravamo l'ultima volta che siamo stati qui? Eravamo distrutti dal
dolore, poco lucidi, quindi non ricordo cosa abbiamo o cosa non abbiamo fatto.
Cerca di rilassarti, per favore".
"Ma questa è una cosa strana".
Anna stava indicando il contenuto del frigorifero. Un piccolo cubo, di colore
grigio, circa cinque centimetri di lato.
"Sarà una confezione di qualcosa
andato a male. Sembra ricoperta di muffa. Lascia stare e chiudi. Prima di
andare via la butteremo".
Ma mia sorella si era già allontanata.
Si trovava vicino al divano, dove raccolse dai cuscini un pezzo di stoffa,
forse un plaid. Ero certo che quella coperta, se davvero si trattava di una
coperta, non fosse appartenuta a nostra madre. Anna la teneva tra le mani e la
guardava, affascinata. La stoffa cambiava continuamente colore, assumendo a
volte tonalità che, lo posso giurare, non avevo mai visto. Distolsi lo sguardo,
proprio mentre mia sorella, pensando di non essere vista, nascondeva il
presunto plaid sotto i cuscini del divano.
"Anna, vado a dare un'occhiata di sopra.
Vieni anche tu?"
"No" rispose lei. "Non me
la sento ancora di rivedere la stanza dove è morta mamma". Era molto
pallida, sembrava spaventata.
"Farò in fretta" dissi, poi mi
avventai sulla scala interna.
Al piano superiore c'erano due camere e
un minuscolo bagno. Entrai nella prima stanza, che mia madre usava come
ripostiglio. Era piena zeppa di oggetti e di scatoloni, ma sembrava tutto in
ordine. Anche la camera da letto, in un primo momento, appariva a posto, finché
non notai, ai piedi del letto, una strana valigia. Più che altro si trattava di
un borsone. Aveva un aspetto metallico, ma quando lo toccai era molto morbido.
Sembrava pieno. Armeggiai un po' sulla strana chiusura e finalmente riuscii ad
aprilo. Guardando il suo interno, si aveva l'impressione che le dimensioni
fossero smisurate. Come se contenesse un intero ambiente. Vidi oggetti con
fogge sconosciute, tessuti che potevano essere vestiti, anche se non ne ero
certo, cose di grande mole che sembravano essere mobili.
Attonito, quasi stordito da quanto avevo
appena visto, chiusi in fretta il borsone e mi sedetti sul letto. Impiegai
qualche minuto a riprendermi, e decisi di andarmene al più presto. In quella
casa era accaduto qualcosa, ma non avevo nessuna intenzione di scoprire che cosa.
Mi alzai in piedi e raggiunsi la porta, ma per un istante i miei occhi notarono
qualcosa di anomalo. Tornai indietro e osservai il comò. Sul suo piano c'era un
ritratto di mio padre. Accanto c'era un'altra fotografia, quella dei miei nonni
materni. C'era però anche una terza immagine, un ritratto che non c'era mai
stato prima, che di sicuro non c'era quando mia madre era morta. Per prima cosa
mi soffermai sulla cornice. Sembrava esserci e non esserci. I suoi bordi erano
sfumati, incerti. L'immagine al suo interno, invece, era molto nitida. Era un
volto, non c'era alcun dubbio, ma non si trattava di un volto umano. Non era
molto diverso dal mio, da quello di mia sorella, o di quello di qualsiasi altra
persona, ma il mio cervello mi comunicava con certezza che quel viso era
estraneo, molto più alieno di un muso di un cane o di un gatto, non aveva nulla
da spartire con la nostra specie. Trattenni un grido, poi mi precipitai giù per
la scala.
"Anna, hai finito?" dissi a
mia sorella, cercando di nascondere lo sgomento. "Dobbiamo andare".
Lei mi bloccò, afferrandomi per le
spalle.
"Marco, sai una cosa?" disse,
con un filo di voce. "Ho l'impressione che qui ci sia stato
qualcuno".
"Che dici?"
"Forse un senzatetto, non
so..."
"Ma no, non c'è stato nessuno. Si è
fatto tardi..."
"Ma non dovevamo..." tentò di
dire Anna.
"La prossima volta" la
interruppi, sempre più agitato. "Lo faremo la prossima volta. E poi credo
di avere cambiato idea. Non ho più intenzione di vendere la casa. È meglio
continuare a tenerla. Che ne dici?"
"Sono d'accordo con te" disse
Anna.
Teng-teng-teng.
Fino a un attimo prima Antonio, il
giornalista, stava cantando, insieme al suo amico Giuliano e agli operai delle
Officine Meccaniche Reggiane, tutti raccolti davanti al monumento ai Caduti.
Teng-teng-teng.
I proiettili frantumano le fronde degli alberi, le fanno ricadere dal cielo come coriandoli. Antonio ripone nella custodia la macchina fotografica e guarda Giuliano: nei suoi occhi coglie stupore e smarrimento. La piazza adesso è invasa dal fumo, si sentono grida di terrore e il rumore degli automezzi della polizia che iniziano i loro caroselli. Un'autobotte cerca di disperdere la folla con gli idranti. I due amici scappano e si dirigono verso l'isolato San Rocco, nei pressi del quale c'è un cantiere. Lì si trovano già altri manifestanti che stanno raccogliendo assi di legno e sassi. Altri ancora, poco distanti, stanno scagliando le seggiole prelevate dalle distese dei bar della piazza verso alcuni poliziotti. Giuliano vede che l'autobotte della polizia è circondata dalla folla e non riesce più ad avanzare. Un agente scende dal mezzo e si inginocchia a terra, prende la mira e spara in direzione dei giardini, ad altezza d'uomo. Antonio e Giuliano decidono di cercare un riparo. Fuggono verso la chiesa di San Francesco, verso le Poste. I due amici corrono, trafelati. A un tratto si imbattono nel corpo steso a terra di un manifestante. Il giornalista quasi vi inciampa. Alla fine raggiungono la sede del Gaf, il Gruppo Artigiani Fotografi, ed entrano, assieme ad altri, nell'edificio. Nell'ingresso Antonio scorge un telefono, decide di chiamare a casa, allo scopo di tranquillizzare la madre. “Come? Sei dentro? Ti hanno di nuovo arrestato?” La donna non capisce. Antonio, sempre più agitato, riattacca. Spiegherà più tardi, quando rientrerà a casa. Con Giuliano sale al primo piano. I due si affacciano da un piccolo terrazzo. Nella piazza regna una tremenda confusione. Urla disperate, e gli spari che non si placano. Proprio sotto di loro vedono un capannello di gente attorno al corpo senza vita di quello che sembra un ragazzo. Antonio, ubbidendo a un riflesso condizionato, impugna la macchina fotografica. Ma le sue mani sono scosse da un tremito irrefrenabile, la sua vista è appannata. Fulgenzio Codeluppi, un amico, anche lui sul terrazzo, comprende il dramma e gli strappa l'apparecchio dalle dita. Scatta lui la foto. Poi tutti escono di nuovo fuori. La voce proveniente da un altoparlante invita a lasciare la piazza, ripete senza sosta che la manifestazione è finita. Nessuno sembra badare a quell'appello. Qualcuno incita alle barricate, tutti sono concordi nel non abbandonare la piazza fino a quando la polizia non avrà fatto altrettanto. E cosi è. Più tardi Antonio e Giuliano decidono di recarsi all'ospedale, per avere notizie dei feriti, che devono essere tanti. Davanti al nosocomio la confusione è pazzesca. È quasi impossibile entrare nell'edificio, presidiato dalla polizia in assetto di guerra. I due amici ben presto si perdono di vista. Giuliano raggiunge la sede della Croce Verde, convince gli infermieri a caricarlo su un'ambulanza e in tal modo riesce a entrare. Antonio dapprima prova a persuadere gli agenti di guardia esibendo il suo pseudo-tesserino da giornalista, ma il suo tentativo si rivela vano. Alla fine, tuttavia, riesce a penetrare nell'ospedale in maniera fortunosa, approfittando del gran disordine, attraverso un'uscita secondaria. All'interno, ciò che vedono i due giovani è terrificante: feriti ammucchiati ai morti, corpi lacerati, irriconoscibili, ammassati uno sull'altro. Antonio, con le mani ancora tremanti, fa il segno della croce. Proprio lui, che credente non è mai stato.
I fatti narrati nel mio libro del 2012 "Sangue del nostro sangue" sono realmente avvenuti a Reggio Emilia nel 1960 (i sei post corrispondono all'ultimo capitolo del libro). Ricordo che si tratta di un evento accaduto in uno stato democratico. Il governo del tempo era un monocolore DC con appoggio esterno del MSI. Le vittime innocenti furono cinque, mentre ventuno furono i feriti da colpi di arma da fuoco. Tra le forze dell'ordine i contusi furono cinque. Il vicequestore fu assolto con formula piena e nessun altro fu condannato per l'eccidio. (N.d.A.)
Afro ha assistito con
crescente sconcerto all'evolversi degli eventi.
Quando è giunto sulla piazza, dopo la camminata dall'ospedale, tutto era ancora tranquillo. Ha incontrato amici
che non vedeva da tempo, colleghi, e molti compagni partigiani. È bello ritrovarsi
tutti insieme in una simile circostanza, ha pensato in quel momento, e si è
quasi commosso. E tutte quelle persone sono accomunate da un unico desiderio,
vivere con serenità le loro esistenze, in armonia e libertà. Come tutti si è
meravigliato per l'incredibile afflusso di
gente, persone pacifiche che comunque hanno avuto il coraggio di sfidare il
divieto delle autorità di pubblica sicurezza, proprio quelle autorità che negli
ultimi tempi hanno assecondato, troppo accomodanti, le disposizioni sempre più
repressive impartite dai palazzi del potere. Dopo questa giornata invece tutti
dovranno ricredersi, considera Afro, perché Reggio Emilia non si piega, Reggio
Emilia resiste, come già è avvenuto in passato. Quasi subito la situazione è
però degenerata. Afro ha visto i fumogeni lanciati contro la folla, ha visto i
poliziotti effettuare le prime cariche, ha sentito gli spari. Chi si trovava
accanto a lui ha iniziato a indietreggiare, a fuggire spaventato. Quasi senza
rendersene conto, Afro si è venuto a trovare isolato, proprio al centro della
piazza. Il vecchio partigiano tuttavia non ha paura. È sconfortato per ciò che
sta accadendo, lui si immaginava tutt'altro, ma non ha paura.
Di fronte a lui adesso nota una certa concitazione. Ha appena il tempo di
estrarre le mani di tasca e di notare un poliziotto che, con la pistola in
mano, si accovaccia in accurata posizione di tiro. Afro sgrana gli occhi,
incredulo, prima di trovarsi riverso sul selciato, prigioniero di un corpo
martoriato che non sente più suo. Alcune persone lo attorniano, e riescono a
cogliere le sue ultime parole. “Mi hanno voluto ammazzare, mi hanno sparato
addosso come alla caccia…”
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
Ovidio si trova in
piazza Cavour quando si scatena il finimondo. Proprio in quell'istante stava pensando di unirsi ai lavoratori delle
Officine meccaniche Reggiane, ma non ha osato farlo. Lui non è uno di loro,
anche se, in cuor suo, spera di esserlo presto. In un primo momento rimane
sbalordito per la sorpresa. Poi, appena si rende conto di ciò che sta davvero
accadendo, si sposta alla ricerca di un riparo. Le scene alle quali assiste gli
sembrano irreali. Nel trambusto crescente scorge persone che fuggono in preda
al terrore, altre che urlano disperate, in preda all'angoscia. Sente ruggiti di rabbia impotente. Preoccupato,
Ovidio cerca con lo sguardo suo fratello Silvano, che da qualche minuto ha
perso di vista, ma non lo scorge. Allora indietreggia, con cautela, cercando di
raggiungere una zona più tranquilla. La piazza sbanda, impaurita. Lui osserva
gli uomini in divisa insinuarsi tra la gente, assiste alle folli scorribande
delle jeep colme di poliziotti. I mezzi procedono scartando come bestie impazzite
inseguite dai cacciatori. I cacciatori, invece, sono loro. Ovidio vorrebbe
scappare, e allontanarsi in fretta da quel luogo spaventoso; il suo desiderio,
in quel momento, sarebbe quello di essere a casa, circondato dai suoi cari. Tra
i colpi secchi dei moschetti e delle pistole, e le raffiche rabbiose delle
mitragliette, Ovidio riesce a udire, proprio vicino a sé, il suono lancinante
della sirena di un'ambulanza che cerca di
farsi largo nell'immensa confusione. La
vede, e nello stesso istante si rende conto che una staccionata mobile di legno
ne impedisce il passaggio. Il ragazzo, d'istinto, senza per
nulla riflettere, si appresta a rimuovere quell'ingombro.
Fa un passo, e una stilettata di ghiaccio gli trafigge l'addome. Freddo, tanto freddo, questa è l'unica sensazione che Ovidio percepisce. Non
dolore, soltanto freddo. Ma il dolore non attende a lungo prima di manifestarsi
in tutta la sua crudeltà. Ovidio barcolla, sta per cadere, e si afferra a una
serranda. Un uomo, pure ferito, si avvicina a lui per aiutarlo. Proprio allora
sopraggiunge il poliziotto e, non ancora appagato, spara di nuovo. Dopo l'infame azione compiuta dall'uomo
in divisa, l'esistenza di Ovidio non
dura più di qualche istante.
Orlando sbuffa, impaziente. L'autobotte procede a passo d'uomo, lento pachiderma ingabbiato tra mura umane. Lui muove l'idrante, indirizza il potente getto d'acqua tra la gente, a casaccio, prima su un lato e poi sull'altro. Salvatore è accanto a lui, e nei suoi occhi si legge la paura. All'improvviso il camion si arresta. Dalla cabina, il poliziotto alla guida fa un cenno d'impotenza. Non è più possibile avanzare, non senza correre il pericolo di schiacciare qualcuno. Salvatore è sempre più agitato. Si guarda attorno nella speranza che qualche collega giunga in loro aiuto. Orlando invece riesce a mantenere la calma. La loro situazione è difficile, è necessario trovare una soluzione per non soccombere all'assedio della folla. Non gli è mai capitato di essersi trovato in un frangente simile, in precedenza, e si rende conto con desolazione che tutto il suo addestramento si rivela inutile. È ormai certo che la sua sopravvivenza, come quella dei suoi giovani colleghi, sia in pericolo, scorge mani che si protendono nella sua direzione, incuranti della lancia che ancora impugna, per ghermirlo. Non riesce a focalizzare i volti di quelle persone, soltanto le loro mani. Allora qualcosa scatta dentro di lui. Con un gesto rapido passa l'idrante nelle mani di Salvatore che, sorpreso, quasi se la lascia sfuggire. Poi balza giù dal cassone dell'autobotte. Intorno a lui, di colpo, si crea il vuoto. Orlando, quasi stupito, avanza nella piazza ad ampi passi, non ha bisogno di farsi largo. Intorno a lui non riesce a percepire nulla di definito. Soltanto rumore, confusione e ombre. Senza pensare, ormai stordito, ubbidendo a un riflesso automatico, estrae la pistola. A un tratto vede, proprio di fronte a lui, finalmente nitida, una figura. Un bersaglio, un semplice e inanimato bersaglio. Nulla di più. Si arresta e appoggia un ginocchio a terra. Prende la mira, almeno crede di farlo, e spara. Un istante prima ha udito un grido, anche se non ne è sicuro. La voce sembrava proprio quella del suo collega Salvatore. “Orlando! No! Non farlo!” Forse si è sbagliato. Com'è possibile distinguere una singola voce in mezzo a tutto quel trambusto?
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
Marino ha visto tutto.
Ha assistito, impietrito e sgomento, alla tragica scena. Ha visto i poliziotti
accelerare il passo, imbracciare le mitragliette e sparare. Infine, ha
osservato quel povero ragazzo abbattersi a terra fulminato. L'uomo sente il proprio corpo ribollire, ma sa che non si
tratta di un sentimento di rabbia, bensì di profondo disgusto. Altre volte gli
è accaduto, nel corso della sua esistenza, sia quando è stato in guerra che
quando era partigiano, di essere diretto testimone di fatti tragici. Ma ora non
è preparato alla barbarie, lui è sceso in piazza per manifestare in maniera
pacifica, e l'intero suo essere si
ribella. Marino non riesce più a trattenere le proprie emozioni, i suoi occhi
si riempiono di lacrime amare. Appena si slancia oltre l'angolo della via, nel generoso tentativo di portare
soccorso al giovane colpito, è falciato a sua volta da una sventagliata di
mitra. La follia prevale, e non c'è posto per la pietà.
Chissà se i suoi carnefici hanno udito risuonare, tra tutta quella confusione,
il suo ultimo disperato grido: “Assassini!”
Il vice-questore sembra impazzito. Si muove a
scatti, gesticola, si rivolge in modo concitato a un suo sottoposto che, senza
risultato, cerca di indurlo alla calma. Avanza di qualche metro sulla piazza,
poi ci ripensa e torna indietro, riaccostandosi ai propri uomini. Il suo volto
è congestionato, quasi trasfigurato, per il caldo, la tensione e, soprattutto,
per la paura. Tutta quella folla, inaspettata, scatena in lui un'ondata di panico. Teme di essere sopraffatto, costretto in
un angolo, ha timore di finire calpestato. Allora, senza consultare nessun
altro, assume su di sé la tremenda decisione. Non si può sottrarre, perché è
lui il responsabile sul campo, il suo ruolo lo obbliga ad affidarsi con tempestività
a una scelta, per quanto sciagurata potrà essa rivelarsi. Osserva per un'ultima volta i visi impauriti dei ragazzi che gli sono più
prossimi, considera come non sia più possibile indugiare oltre, poiché tutti
sono in ansiosa attesa di un suo comando. Si potrebbe ancora decidere di
indietreggiare, di ripiegare verso i margini esterni della piazza e attendere
così l'evolversi della situazione. Alla fine,
comunque, l'alternativa prescelta è
un'altra, ed è quella di avanzare andando incontro
ai dimostranti, di caricarli e di disperderli con l'uso della forza. E Giulio, il vice-questore, con un cenno
della mano scatena l'infernale baraonda.
Trecento e più celerini, sia a piedi sia a bordo delle camionette, invadono l'ampio piazzale e, fin da subito incapaci di rimanere in
formazione unita e compatta, si sparpagliano tra la folla. Immediatamente dopo,
avanzando dal vertice opposto, uno sparuto drappello di carabinieri attua la
medesima manovra. Il vice-questore, che è rimasto indietro per dirigere la scellerata
operazione, rafforza l'ordine precedente con
parole destinate a rimanere scolpite per sempre nella memoria di chi quel
giorno le sente pronunciare. “Sparate verso le persone, altrimenti siamo in
pericolo!” E ancora, per dare più forza alla sferzata di dolore e morte che si
abbatte sulla folla inerme. “Sparate, sparate, sparate. Presto, sparate, non
preoccupatevi, sparate!”
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
Lauro è immobile su un
lato della piazza, con le mani in tasca, i piedi infilati nelle ciabatte di
plastica, quando avverte i primi spari. Sono esplosioni secche, un rumore
simile a quello di vecchi rami che si spezzano. Si guarda intorno, attonito e
smarrito. Incredulo per ciò che sta accadendo, si volta verso la chiesa di San
Francesco, che si trova al suo fianco. Nota, con stupore, che il portale dell'edificio è chiuso, sbarrato. Di fronte a lui, distanti non
più di venti metri, si materializzano le sagome di alcuni poliziotti. Lauro non
riesce a comprendere quali siano le loro intenzioni; li vede soltanto correre,
automi silenziosi che si muovono in mezzo a persone che urlano e scappano, e
dirigersi proprio nella sua direzione. Per un breve istante i tratti del suo
volto si rilassano alla vista di quei ragazzi che, se pure vestiti con una
divisa, non sembrano poi tanto diversi da lui. Subito dopo Lauro compie un
passo in avanti, poi un altro ancora, quando all'improvviso
prova uno strano intorpidimento al petto. Durante la frazione di secondo successiva
percepisce chiaro il crepitio rabbioso della raffica di mitra che ormai gli ha
straziato la carne. L'impatto dei proiettili
lo fa ruotare su se stesso. Appena il tempo di incrociare lo sguardo con quello
di un giovane che lo fissa a occhi sbarrati e che tenta, invano, di
sorreggerlo, e poi crolla sul sagrato della chiesa. Il sangue gli fuoriesce
copioso dalla bocca, e disperde sul lastricato ciò che rimane della sua vita. Marino
ha visto tutto. Ha assistito, impietrito e sgomento, alla tragica scena. Ha
visto i poliziotti accelerare il passo, imbracciare le mitragliette e sparare.
Infine, ha osservato quel povero ragazzo abbattersi a terra fulminato. L'uomo sente il proprio corpo ribollire, ma sa che non si
tratta di un sentimento di rabbia, bensì di profondo disgusto. Altre volte gli
è accaduto, nel corso della sua esistenza, sia quando è stato in guerra che
quando era partigiano, di essere diretto testimone di fatti tragici. Ma ora non
è preparato alla barbarie, lui è sceso in piazza per manifestare in maniera
pacifica, e l'intero suo essere si
ribella. Marino non riesce più a trattenere le proprie emozioni, i suoi occhi
si riempiono di lacrime amare. Appena si slancia oltre l'angolo della via, nel generoso tentativo di portare
soccorso al giovane colpito, è falciato a sua volta da una sventagliata di
mitra. La follia prevale, e non c'è posto per la pietà.
Chissà se i suoi carnefici hanno udito risuonare, tra tutta quella confusione,
il suo ultimo disperato grido: “Assassini!”
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
Su Reggio Emilia, il
pomeriggio del 7 luglio, è calata una cappa di piombo. L'afa è opprimente, il caldo insopportabile. Poco alla volta,
una gran folla è affluita nelle piazze dei teatri, le ha quasi riempite. Si
tratta di almeno ventimila persone: sono operai, pensionati, donne e ragazzi.
Tra questi ultimi, molti indossano jeans e magliette a righe. Gente comune, che
vuole far sentire la propria voce in maniera pacifica, uomini e donne che hanno
a cuore la libertà. Le forze dell'ordine hanno steso un
cordone attorno a loro e vigilano nervose. Il loro compito sarebbe quello di
far rispettare il divieto di manifestare imposto dalle autorità, ma ben presto
si rendono conto di non essere in grado di poter svolgere tale incarico. E la
loro inquietudine aumenta sempre più, perché la gente scesa in piazza è davvero
tanta. Troppa. Un evento del tutto inaspettato, che provoca disorientamento,
che suscita allarme. Una macchina della CGIL percorre lenta la piazza, si fa
strada a fatica tra la folla. Un altoparlante, collocato sul mezzo, invita con
voce metallica la folla ad allontanarsi, a disperdersi, a sgombrare il
piazzale. Senza alcun effetto. A un tratto sopraggiunge un nutrito gruppo di
operai, saranno almeno trecento e sono i lavoratori delle Officine Meccaniche
Reggiane. Sorreggono striscioni e bandiere rosse e si sistemano proprio davanti
al Monumento ai Caduti. Iniziano a intonare canti patriottici e vecchie canzoni
partigiane. Poliziotti e carabinieri serrano le fila, avanzano, tentano di chiudere
l'intero spazio in una morsa. Da qualche parte,
nelle retrovie, si svolgono frenetiche trattative. La richiesta di installare
alcuni altoparlanti all'esterno della Sala
Verdi è respinta. Gli organizzatori, i dirigenti sindacali, sembrano ormai
impotenti di fronte a quella situazione del tutto inattesa. Il notevole
afflusso di gente ha colto di sorpresa anche loro, nessuno aveva previsto una
simile partecipazione. Ci si rende conto del pericolo incombente quando ormai è
troppo tardi. Il gracchiare dell'altoparlante non riesce
più a sovrastare il brusio della piazza, che aumenta sempre più. Pochi riescono
a udire quelle parole, quegli inviti che, poco per volta, si trasformano in
sconfortate e inutili suppliche. I poliziotti premono sulla compatta massa di
manifestanti, ne provocano lo scompiglio. All'improvviso
ha inizio un primo lancio di lacrimogeni, le camionette tentano di insinuarsi
tra la folla, aprono a fatica corridoi nei quali tentano di incunearsi gli
agenti, creando disordine. Poi, all'improvviso, tra le urla
eccitate di chi si fronteggia, un suono cupo squarcia l'aria. Inizia il ballo di morte.
Tratto da: Sopegno E., Sangue del nostro sangue, Torino, ilmiolibro ed., 2012
"Il Santo Padre
non approverebbe" disse il cardinale Amici.
"Il Santo Padre?
Lui ha ben altre cose di cui occuparsi" ribatté il cardinale Keller.
"Questa faccenda la dobbiamo seguire noi".
"Già, l'idea è
nostra..." disse Amici.
"Il Papa ha perso di
vista un aspetto importante della sua missione: aumentare il gregge".
"E soprattutto
impedire che si riduca sempre di più" concluse Amici, con amarezza.
"Una missione che
deve diventare tua, in qualità di presidente della Conferenza Episcopale"
ribadì Keller.
"La mia
giurisdizione è limitata" disse l'altro.
"Da qualche parte
bisogna pur iniziare" borbottò a bassa voce il cardinale tedesco.
"A che ora è stato
fissato l'appuntamento?" chiese Amici.
"Tra meno di
un'ora. Ci conviene chiamare l'autista".
Dopo un tragitto di
poco più di mezz'ora tra le vie affollate della grande città, l'auto con i
contrassegni del Vaticano depositò i due alti prelati presso la sede locale
della Square Marketing Solutions.
Furono ricevuti in un
lussuoso ufficio dal responsabile della filiale, il dottor Gobbi.
"Eminenze..."
li salutò il manager, inchinandosi con deferenza ma evitando di baciare gli
anelli. L'uomo era un po' schizzinoso.
Venne subito al sodo.
"Ho esaminato con
attenzione la vostra richiesta. Avete ragione: ciò che voi fornite non è
nient'altro che un servizio. Di alto livello, intendiamoci, sia a livello
spirituale che materiale. Tuttavia tale servizio, con il trascorrere del tempo,
risulta essere non più appetibile come prima. Deve essere assolutamente
rinnovato. Non lo possiamo però trattare come un prodotto commerciale, perché
stiamo parlando di qualcosa di diverso, di una comunicazione. Affinché
l'innovazione e l'ammodernamento del messaggio risultino realmente efficaci,
occorre che i fedeli vecchi e nuovi percepiscano con chiarezza che la Chiesa
sta cambiando, ma che questo mutamento non sta avvenendo con i soliti tempi
lenti, bensì che è al passo con i tempi, li percorre alla stessa velocità con
la quale si evolve la società moderna, e di conseguenza riconosce e accetta
nell'immediato il processo di secolarizzazione, ne prende atto e dispone gli
opportuni mutamenti nei precetti o nella dottrina".
"Ottimo"
disse il cardinale Keller, sorseggiando lo spritz che gli era stato gentilmente
offerto. "Proprio ciò che volevamo" aggiunse, rivolgendosi al
cardinale Amici.
L'altro approvò,
annuendo con convinzione, anche se era un po' confuso.
"Mi permetto di
offrire un suggerimento" disse il dottor Gobbi.
"La
ascoltiamo" disse Keller.
"A nostro parere
occorre concentrarci su un solo aspetto, un solo tema, in maniera che tutta la
nostra opera di propaganda successiva sia indirizzata in modo più efficace, e
anche per non confondere i fedeli, quelli vecchi da consolidare e quelli nuovi
da attrarre".
"Credo che lei
abbia ragione" intervenne finalmente Amici, che non aveva ancora parlato.
"Ma quale sarà il tema prescelto?"
"Vi vogliamo aiutare
anche in questo, individuando una serie di questioni, di argomenti centrali nel
dibattito della Chiesa degli ultimi decenni. Tuttavia sarete voi a decidere
quale di questi temi sarà quello prescelto, e sul quale poi noi lavoreremo
applicando le nostre strategie".
"Ottimo"
ribadì Keller, finendo di scolare lo spritz.
"Una soluzione
sulla quale concordo" disse il cardinale Amici.
"Perfetto"
disse il dottor Gobbi. "Vi illustro come procederemo. Affiderò alla mia
migliore collaboratrice, la dottoressa Moroni, il compito di evidenziare le
aree tematiche entro le quali ci muoveremo. Tra un paio di mesi al massimo ci
incontreremo di nuovo e in quell'occasione conoscerete le nostre proposte. Voi
dovrete semplicemente sceglierne una".
I due cardinali
approvarono, soddisfatti, poi si congedarono.
Nei termini stabiliti,
furono convocati dal dottor Gobbi. Questa volta il responsabile della filiale
non era solo. Accanto a lui, una bella donna bruna sulla quarantina, la
dottoressa Moroni.
Il cardinale Keller
procedette a un esame accurato delle morbide forme della donna, mentre il
cardinale Amici non vi badò affatto: lui preferiva gli uomini, specialmente se
giovani.
Keller accettò con
entusiasmo un enorme boccale di birra. Il cardinale italiano declinò l'offerta,
chiedendo invece un bicchiere d'acqua.
"La mia
collaboratrice vi illustrerà i temi che sono stati scelti. Mi auguro che almeno
uno tra loro incontri il vostro gradimento" disse Gobbi.
"Buongiorno,
eminenze" esordì con deferenza la dottoressa Moroni. "Sappiamo che la
Chiesa condanna la pratica dei rapporti sessuali prima del matrimonio. Un
divieto che, a mio parere, è divenuto anacronistico. Si potrebbe pensare di annullare
tale proibizione. Questa è la mia prima proposta. La seconda, ben più efficace
e incisiva, riguarda l'ammissione delle donne al sacerdozio. Un qualcosa di
dirompente, che metterebbe la Chiesa al centro del dibattito sociale, e con un
ritorno molto rilevante. Oppure si potrebbe abolire la prescrizione che
riguarda il celibato ecclesiastico, che farebbe seguito ad alcune aperture già
espresse nel recente passato anche dal Santo Padre. Infine, si potrebbe
valutare l'ipotesi di rendere completamente libera la contraccezione e di
rendere il controllo delle nascite esclusiva responsabilità dell'individuo, del
fedele, privandolo così dal condizionamento religioso. Ecco, questi sono gli
argomenti sui quali dovrete riflettere. Quale che sarà la vostra scelta, saremo
in grado di trasformare la questione in un formidabile strumento di propaganda.
Grazie".
I due cardinali si
voltarono l'uno verso l'altro, perplessi.
Poi si scostarono dal
tavolo al quale erano seduti e iniziarono a confabulare.
"Che cosa ne
dici?" domandò Amici.
"Non lo so"
rispose Keller. "La proibizione dei rapporti sessuali prima del matrimonio
non la rispetta nessuno".
"Credo che nessuno
l'abbia mai rispettata" rispose l'altro, sconsolato.
"Non sarebbe per
niente efficace" disse il tedesco, rimpiangendo il boccale di birra,
ancora pieno a metà, rimasto sul tavolo, fuori dalla sua portata.
"E del sacerdozio
femminile non voglio proprio sentire parlare!" disse il cardinale Amici.
"Non essere
misogino" disse Keller. "Io non ho nulla contro le donne, ma quella
del sacerdote è proprio un'occupazione, anzi una missione, che loro non sono in
grado di svolgere. Non è nella loro natura".
"E quale sarebbe
la loro natura?" chiese il cardinale Amici, sinceramente curioso.
"Andiamo
avanti" tagliò corto Keller.
"Della
contraccezione, del controllo delle nascite, ne ho piene le tasche. Non c'è
argomento più noioso" riprese il cardinale tedesco.
"Sono
perfettamente d'accordo. Una pesantezza unica" disse Amici.
"In quanto al
celibato dei preti, sappiamo che non è mai stato un problema, e comunque si
tratta di una questione che riguarda più i sacerdoti che non i fedeli. E poi,
nel tuo caso, sarebbe pure imbarazzante..."
"Che intendi
dire?"
"Lasciamo stare"
liquidò la faccenda Keller. "In ogni caso gli argomenti proposti non mi
soddisfano. Mi sarei aspetto qualcosa di diverso, di più originale. Non saprei
proprio quale scegliere".
"Hai ragione"
disse Amici.
"Scusate"
intervenne il dottor Gobbi. "Leggo sui vostri volti incertezza e indecisione".
"Vero"
confermò Keller. "Nulla di quanto proposto ci sembra sufficientemente
incisivo, nonostante si tratti di suggerimenti interessanti" aggiunse,
cercando di essere diplomatico.
"In verità avevamo
una ulteriore proposta, frutto della fertile mente della dottoressa Moroni, che
tuttavia avevo deciso di non presentare, considerandola poco opportuna"
disse il dottor Gobbi.
"Vale a
dire?" domandò il cardinale Amici.
Intervenne la
dottoressa Moroni.
"Lanciare, da
parte della Chiesa, una dura campagna di odio contro gli immigrati, infierendo
in particolare contro quelli di religione islamica. Un aumento immediato e
consistente di nuovi fedeli sarebbe assicurato".
A queste parole, gli
occhi dei due alti prelati si illuminarono.
"Questo!"
risposero quasi all'unisono. "Scegliamo questo!"