“Se
trovo chi ha inventato il lavoro lo ammazzo di botte!”
Povero
vecchio Giacomo. Tutti i giorni, durante la pausa dal lavoro, faceva il suo
rumoroso ingresso da Gino scandendo bene quelle parole che da sempre accompagnavano
la sua presenza.
“Se lo
ammazzi ci fai un gran favore” era l’immancabile risposta di qualche altro
avventore.
Giacomo
lavorava in una piccola fabbrica che produceva coloranti all’anilina. Sostanze
tossiche, puro veleno. Le sue mani grosse e nodose erano macchiate di rosso
perché lui diceva che era impossibile svolgere la sua mansione indossando i
guanti protettivi. E così facevano tutti gli altri. Per non parlare di ciò che
quei poveri lavoratori respiravano tutto il giorno. Eppure Giacomo era sempre
scherzoso, elargiva battute a getto continuo, aveva una buona parola per tutti.
Si rendeva ben conto della nocività dell’ambiente in cui svolgeva la sua
attività lavorativa ma, allo stesso tempo, era consapevole di non avere
alternative.
“Devo
pur mangiare” diceva. “E poi il lavoro mi prenderà il corpo, ma non l’anima”
aggiungeva con un tono più amaro. Il colore del suo viso era giallo smorto,
profonde rughe incidevano quella pelle fiacca.
Anche
se ero ancora un ragazzo avevo preso l’abitudine di fare tutti i giorni un
salto da Gino, tornando a casa da scuola. Ordinavo un’aranciata, oppure un
ghiacciolo nella stagione calda, e poi trascorrevo un po’ di tempo stando ad
ascoltare quegli uomini che, invece di andare a casa a pranzare, preferivano
passare in piola per scambiare due parole con i loro compagni di sventura.
“Ti va
un bicchiere di latte?” domandava ogni volta Gino a Giacomo, prendendolo in
giro. Il medico della fabbrica in cui lavorava Giacomo consigliava agli operai
di bere molto latte. In tal modo non avrebbero avuto problemi, diceva. La
magica bevanda bianca avrebbe contrastato tutta la nocività delle sostanze
tossiche maneggiate e inalate. Tutte balle, naturalmente.
Tra
l’altro nella sua piola Gino non lo teneva neppure, il latte. Chi l’avrebbe mai
ordinato? Termini assurdi come caffè macchiato e cappuccino erano quasi
sconosciuti e in ogni caso in quel posto sarebbero stati banditi.
Allora,
attenendosi scrupolosamente al copione, Giacomo staccava una gran bestemmia e,
con voce stentorea, comandava un grigioverde, vale a dire grappa e menta.
“Questo
brucia tutto, il buono e il brutto” diceva ingollando la prima sorsata di
mistura. Tutti ridevano.
A un
certo punto, ritenendomi ormai sufficientemente cresciuto, lasciai perdere
bibite e dolciumi e iniziai anch’io a consumare qualcosa di più dignitoso, un
buon bicchiere di vino bianco frizzante, per esempio. Da quel momento tutti i
clienti di Gino presero a osservarmi con maggiore interesse, a coinvolgermi nei
loro discorsi. Non potevo ancora essere considerato uno di loro, poiché per mia
fortuna non lavoravo, tuttavia avevo ormai conquistato la loro benevolenza.
Di
quel periodo mi ricordo soprattutto i camionisti: Dolfo, Sandro e tutti gli
altri. Erano gli unici che mangiassero qualcosa. Pane e salame, pane e
mortadella, enormi panini con acciughe in salsa verde. E almeno mezzo litro di
vino a testa. Rammento i loro discorsi coloriti, i loro interminabili racconti dove
le protagoniste indiscusse erano sempre le donne. Così come di enormi manifesti
raffiguranti donne nude erano tappezzate le cabine dei loro camion. Ascoltavo spacconate,
enormi fanfaronate, comunque necessarie per alleviare almeno un po’ la fatica
del loro duro lavoro. Ricordo soprattutto le loro impressionanti pance, quegli
addomi e ventri lievitati a dismisura, forse a causa dell’attività sedentaria, prominenze
che loro ostentavano con fierezza.
E poi
c’erano i contadini. Arrivavano parcheggiando il trattore a pochi metri dalla
porta d’ingresso della piola. Con un gran baccano e sbuffi di fumo nero e
puzzolente. I loro stivali di gomma erano sempre incrostati di terra e di
letame secco. In qualsiasi stagione dell’anno indossavano il solito cappello di
paglia oppure, i più giovani, un berretto dal colore sgargiante con in evidenza
la scritta pubblicitaria di qualche marca di mangime. I contadini erano molto
parsimoniosi. Ordinavano al più un bicchiere di vino rosso, che facevano durare
a lungo. Non perché non fossero grandi bevitori. Altroché se lo erano, ma
preferivano bere a casa, oppure quando erano impegnati nel lavoro nei campi. E
poi, oltre che un po’ spilorci, erano diffidenti riguardo qualsiasi vino che
non fosse stato prodotto da loro stessi. In verità trovavo i loro discorsi un
po’ noiosi. Quando parlavano di Bianca, Nerina e Alpina sapevo che non citavano
nomi di donne affascinanti o prosperose, ma semplicemente discorrevano delle
loro amate mucche. Inoltre i campagnoli erano sempre così lamentosi! Pioveva
poco, pioveva troppo, il raccolto non era andato bene, era morto un vitello,
sai che danno, il prezzo della nafta era aumentato, quello del grano era
calato, e così via. Un pianto unico.
La piola
di Gino era pure frequentata da altri lavoratori che non si può dire si ammazzassero
di fatica. C’era il messo comunale, per esempio. Strizzato nella sua elegante
divisa blu scuro con i bottoni dorati, si sedeva tutto solo a un tavolo
nell’angolo e passava ore a sfogliare i quotidiani sportivi, bevendo e non
parlando con nessuno. Forse non aveva niente da dire, oppure si rendeva conto
di non avere nulla da condividere con quegli omoni dai vestiti e dalla pelle
inzaccherata che concionavano di grandi imprese muscolari o che stavano
imprigionati tutto il giorno in una fabbrica. A volte passava in piola anche il
maestro elementare. Era sempre tutto lustro, vestito elegante, i baffetti ben
spuntati, mai un capello fuori posto. Lui arrivava dal sud, non comprendeva
nulla di tutto quel berciare a squarciagola in dialetto stretto. Nessuno lo
coinvolgeva, quasi fosse invisibile. Il maestro si limitava così a sorseggiare
in tutta fretta il suo caffè e poi scappava a casa. Semplicemente, non era
considerato dagli altri un vero lavoratore.
Il
becchino, Giovanni, era invece il più allegro di tutti. Anche lui disdegnava a
parole il buon vinello di Gino. Tra un bicchiere e l’altro esaltava il suo, di
vino, un terribile intruglio imbevibile corretto con il sale. In ogni caso, da
dove derivasse tutta la sua contentezza era un mistero per tutti dal momento
che il suo era un lavoro tutt’altro che divertente.
Bei
tempi, quelli! Ormai da allora sono trascorsi molti anni. La piola di Gino non
c’è più. Al suo posto c’è il Bar Devil,
(che cazzo vuol dire Devil?), un
locale tutto luccicante con tavolini e sedie di acciaio. A volte ci passo a
sorseggiare una grappa ma subito scappo perché non mi sento molto a mio agio. È
frequentato soprattutto da giovani, ragazzi e ragazze, tutti tatuati e con gli
anelli al naso ma soprattutto tutti disoccupati. E quei poveretti si lamentano
pure della loro condizione, perché vorrebbero lavorare.
“Mi
sbatto di qua e di là ma non riesco a trovare niente. Il lavoro non c’è!”
dicono rassegnati, alzando le spalle, mentre tutti gli altri annuiscono
solidali. Che ingenui, non sanno apprezzare la loro enorme fortuna! I soldi per
bere qualcosa comunque li hanno, quindi perché andare a complicarsi e a
rovinarsi l’esistenza? Beata gioventù.
Io
invece lavoro da più di trent’anni e non ne posso più. La mia schiena è a pezzi
e la mia testa non sta meglio. Il lavoro è un diritto. Il lavoro nobilita
l’uomo. Il lavoro rende liberi (i crucchi nazisti, pur nel loro beffardo e
crudele dileggio, l’avevano vista giusta!). In realtà il lavoro abbrutisce, il
lavoro rende schiavi.
Ancora
una volta ripenso alle parole del povero Giacomo: “Se trovo chi ha inventato il
lavoro lo ammazzo di botte!”
Giacomo,
che è morto tra atroci sofferenze ancora prima di arrivare alla pensione,
avvelenato da quelle sostanze che avevano per anni penetrato il suo corpo e che
alla fine gli avevano rubato non solo il corpo ma pure l’anima.
Chi ha
inventato il lavoro purtroppo non è ancora stato individuato. L’ho cercato
anch’io, a lungo, ma non l’ho trovato. Forse quello sciagurato è addirittura
morto. In ogni caso il suo malvagio seme si è perpetuato, sarebbero troppi
ormai quelli da punire e io non ho la forza e neppure il tempo per poterlo fare.
Mi dovrò limitare a mettere in atto un gesto simbolico. Il medico, quello della
fabbrica di Giacomo, è ancora vivo. Ha più di novant’anni. È riuscito a
conservarsi, il vecchio bastardo! Ogni tanto lo vedo che arranca per il paese
con il suo bastone, con lo sguardo appannato ma sempre sprezzante. So dove
abita, lo sanno tutti, la sua è la casa più bella del paese. Le mie mani sono
rovinate, devastate dalla fatica, ma sono ancora in grado di ammazzare di botte
quella vecchia carcassa fragile e rinsecchita.
Finisco
di bere e poi vado da lui, a lavorare.
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