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domenica 20 settembre 2015

MEMORY


Alfredo si alza e infila la giacca.
“Te ne vai?”
“Sì, devo proprio andare. Devo ancora sistemare alcune cose. Sai, il lavoro.”
“Lavoro! A quest’ora?” È quasi mezzanotte.
“È l’ora ideale per trattare alcune particolari faccende” risponde ammiccando.
Scuoto il capo. Io e Alfredo ci conosciamo da più di trent’anni, dai tempi dell’asilo. Se non per qualche breve periodo, non ci siamo mai persi di vista. Le nostre vite, tuttavia, sono alquanto diverse. Io faccio l’avvocato o, per meglio dire, lo schiavo in un grande studio legale. Lui invece ha lasciato presto la scuola e non ha mai avuto un lavoro fisso. Preferisce cambiare, dice, per avere sempre nuove motivazioni. In realtà vive alla giornata anche se i soldi non gli mancano mai. Il suo lavoro, spesso, consiste in traffici più o meno leciti, dei quali preferisco non conoscere nulla.
“Salutami Clara, quando tornerà” dice Alfredo mentre, di fronte allo specchio dell’ingresso, si sistema i capelli.
Eccolo, il perfido Alfredo! Clara è mia moglie e stasera è uscita con le amiche. Qualche ora fa, dandomi un bacio frettoloso, mi ha detto che sarebbe rincasata tardi. Fino a qualche istante fa ero tranquillo, adesso la velata insinuazione del mio amico ha scatenato la mia gelosia. In ogni caso cerco di non fare trapelare il mio stato d’animo mentre lo accompagno alla porta.
Lui all’improvviso si volta e inizia a frugare nella tasca interna della giacca. Estrae una bustina trasparente che contiene una minuscola pasticca arancione dalla forma a rombo. Me la porge.
“Dimenticavo, questa è per te” dice.
Alzo le braccia e indietreggio.
“No, ti ringrazio ma non la voglio. Ho chiuso con queste cose.”
Alfredo scoppia a ridere.
“Scemo, non è ciò che pensi tu. Mai sentito parlare di memory?”
Scuoto la testa, sospettoso.
“Non si tratta di una droga.”
“E allora che cosa sarebbe?” domando.
“È una sostanza nuova, piuttosto sorprendente, che tuttavia i veri tossici considerano pura merda perché non dà un vero e proprio sballo. Si rimane del tutto coscienti e permette…”
“Migliora la memoria?” lo interrompo.
“No, il suo nome è ingannevole.” Alfredo torna in salotto e si siede sul divano. Lo seguo.
“Questa pasticca consente di richiamare in maniera nitida ricordi che pensavamo scomparsi” inizia a spiegare il mio amico.
“Vale a dire?” domando, curioso.
“Innanzitutto dobbiamo fare una distinzione tra ciò che è memoria e ciò che è ricordo. La memoria è una specie di ricordo collettivo, condiviso, e può riguardare fatti ed esperienze che non abbiamo vissuto. Ad esempio tu hai memoria dei campi di sterminio nazisti senza essere stato un deportato. Esatto?”
“Sì” rispondo, ormai del tutto imbambolato dalla capacità affabulatoria di Alfredo. Pensare che l’avvocato sono io!
“Il ricordo invece concerne sempre vicende che abbiamo vissuto in prima persona. Il cervello umano immagazzina tutti gli eventi che ci hanno riguardato fin dalla nascita e li sistema in tanti piccoli cassetti. Tutto. Mi segui?”
“Certo.”
“Non sappiamo perché ma la maggior parte di questi cassetti, con il tempo, rimangono sigillati o, in alcuni casi, appena socchiusi. Sono inaccessibili, capisci? Oppure riusciamo a intravedere al loro interno soltanto qualcosa senza distinguere bene ciò che contengono.”
“Ho capito”.
“Ti ricordi come era vestita tua madre il giorno del tuo decimo compleanno?”
Sorrido.
“No di certo” dico.
“Con memory lo puoi fare.”
“Sul serio?”
“Te lo garantisco. Ho provato queste pasticche e ti assicuro che per un po’ mi sono divertito. Adesso ormai mi sono venute a noia e quindi ho pensato di offrirti l’ultima.”
“Mi assicuri che non è roba tossica?”
“Si.”
“E che non dà dipendenza?”
“Assolutamente sì. Provala.”
Mi voglio fidare di lui, anche se so che non dovrei. Prendo la pasticca, mi verso un bicchiere d’acqua e la inghiotto.”
“Occhio che fa effetto subito” dice Alfredo.
Su questo ha ragione. All’improvviso provo una strana sensazione. Come quando si osserva qualcosa con un binocolo e l’oggetto non appare a fuoco. Come quando si agisce sulla ghiera, ruotandola, e di colpo tutto appare nitido in maniera straordinaria. Cerco di concentrarmi su un ricordo a caso. Una reminiscenza che spesso richiamo alla mente ma che, tutte le volte che lo faccio, mi appare incompleta, difettosa. Il primo giorno di scuola! Mia madre, che indossa un tailleur grigio assurdamente fuori moda, mi lascia la mano. Mi trovo nell’atrio della scuola, circondato da tanti altri bambini. Ho un grembiulino nero che mi arriva alle ginocchia, entrambe sbucciate, un rigido colletto di plastica e un enorme fiocco azzurro. Mi guardo attorno, spaesato e impaurito, fisso la sguardo sulle pareti, dipinte di verde lucido e scrostate. All’improvviso qualcuno, da dietro, mi spintona. Qualcun altro mi spruzza qualcosa di appiccicoso sui capelli e, mentre porto le mani sulla testa, con uno strattone mi slega il fiocco. Proprio in quell’istante suona la campanella e un bidello ci accompagna in aula. Ci sediamo, io in prima fila. Entra la maestra. Ho sempre immaginato, negli anni trascorsi da allora, quella donna arcigna e severa come una vecchia, invece mi accorgo che è giovane. Non avrà neppure trent’anni ed è pure bella, anche se il suo sguardo è molto duro. Mi guarda e io arrossisco per l’imbarazzo.
“Tu!” sbraita, additandomi. “Come ti sei ridotto? Non ti vergogni? Dimmi il tuo nome!”
Apro la bocca ma non riesco a parlare. Tutti i miei compagni mi osservano. I miei visceri non riescono a reggere una simile pressione emotiva e mi lascio andare. Il mio compagno di banco si pizzica il naso con due dita. La maestra si alza, viene da me e mi costringe a fare altrettanto. Davanti a tutta la classe mi solleva il grembiulino e annusa. Il suo grazioso viso dalla pelle scura assume un’espressione disgustata. All’ultimo banco un bambino inizia a ridere sempre più forte. La maestra lo fulmina con lo sguardo. Non c’è dubbio, si tratta proprio di lui, di Alfredo, è lui che mi ha imbrattato i capelli e slegato il fiocco. L’umiliazione che devo subire è per colpa sua e mi assale una gran voglia di prenderlo a calci. Invece mi metto a piangere mentre la maestra mi accompagna al gabinetto strattonandomi.
Ritorno in me, ancora turbato. Davanti mi ritrovo lo sguardo divertito di Alfredo, stravaccato sul mio divano.
“Allora? Tutto bene?” dice, con la solita aria scanzonata. “Divertente, no?”
Mi alzo da seduto e mi avvicino a lui. Comincio a prenderlo a calci, sulle gambe, sul torace, sulla faccia. Lui mi guarda con occhi sbarrati dal terrore ma io non smetto finché non mi accorgo di una chiazza scura che si sta allargando sul cavallo dei suoi pantaloni.

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