Alfredo si alza e
infila la giacca.
“Te ne vai?”
“Sì, devo proprio
andare. Devo ancora sistemare alcune cose. Sai, il lavoro.”
“Lavoro! A quest’ora?” È
quasi mezzanotte.
“È l’ora ideale per
trattare alcune particolari faccende” risponde ammiccando.
Scuoto il capo. Io e
Alfredo ci conosciamo da più di trent’anni, dai tempi dell’asilo. Se non per
qualche breve periodo, non ci siamo mai persi di vista. Le nostre vite,
tuttavia, sono alquanto diverse. Io faccio l’avvocato o, per meglio dire, lo
schiavo in un grande studio legale. Lui invece ha lasciato presto la scuola e
non ha mai avuto un lavoro fisso. Preferisce cambiare, dice, per avere sempre
nuove motivazioni. In realtà vive alla giornata anche se i soldi non gli
mancano mai. Il suo lavoro, spesso, consiste in traffici più o meno leciti, dei
quali preferisco non conoscere nulla.
“Salutami Clara, quando
tornerà” dice Alfredo mentre, di fronte allo specchio dell’ingresso, si sistema
i capelli.
Eccolo, il perfido
Alfredo! Clara è mia moglie e stasera è uscita con le amiche. Qualche ora fa,
dandomi un bacio frettoloso, mi ha detto che sarebbe rincasata tardi. Fino a
qualche istante fa ero tranquillo, adesso la velata insinuazione del mio amico
ha scatenato la mia gelosia. In ogni caso cerco di non fare trapelare il mio
stato d’animo mentre lo accompagno alla porta.
Lui all’improvviso si
volta e inizia a frugare nella tasca interna della giacca. Estrae una bustina
trasparente che contiene una minuscola pasticca arancione dalla forma a rombo.
Me la porge.
“Dimenticavo, questa è
per te” dice.
Alzo le braccia e
indietreggio.
“No, ti ringrazio ma
non la voglio. Ho chiuso con queste cose.”
Alfredo scoppia a
ridere.
“Scemo, non è ciò che
pensi tu. Mai sentito parlare di memory?”
Scuoto la testa, sospettoso.
“Non si tratta di una
droga.”
“E allora che cosa
sarebbe?” domando.
“È una sostanza nuova,
piuttosto sorprendente, che tuttavia i veri tossici considerano pura merda
perché non dà un vero e proprio sballo. Si rimane del tutto coscienti e
permette…”
“Migliora la memoria?”
lo interrompo.
“No, il suo nome è
ingannevole.” Alfredo torna in salotto e si siede sul divano. Lo seguo.
“Questa pasticca
consente di richiamare in maniera nitida ricordi che pensavamo scomparsi”
inizia a spiegare il mio amico.
“Vale a dire?” domando,
curioso.
“Innanzitutto dobbiamo
fare una distinzione tra ciò che è memoria e ciò che è ricordo. La memoria è
una specie di ricordo collettivo, condiviso, e può riguardare fatti ed
esperienze che non abbiamo vissuto. Ad esempio tu hai memoria dei campi di
sterminio nazisti senza essere stato un deportato. Esatto?”
“Sì” rispondo, ormai del
tutto imbambolato dalla capacità affabulatoria di Alfredo. Pensare che l’avvocato
sono io!
“Il ricordo invece
concerne sempre vicende che abbiamo vissuto in prima persona. Il cervello umano
immagazzina tutti gli eventi che ci hanno riguardato fin dalla nascita e li
sistema in tanti piccoli cassetti. Tutto. Mi segui?”
“Certo.”
“Non sappiamo perché ma
la maggior parte di questi cassetti, con il tempo, rimangono sigillati o, in
alcuni casi, appena socchiusi. Sono inaccessibili, capisci? Oppure riusciamo a
intravedere al loro interno soltanto qualcosa senza distinguere bene ciò che
contengono.”
“Ho capito”.
“Ti ricordi come era
vestita tua madre il giorno del tuo decimo compleanno?”
Sorrido.
“No di certo” dico.
“Con memory lo puoi
fare.”
“Sul serio?”
“Te lo garantisco. Ho
provato queste pasticche e ti assicuro che per un po’ mi sono divertito. Adesso
ormai mi sono venute a noia e quindi ho pensato di offrirti l’ultima.”
“Mi assicuri che non è
roba tossica?”
“Si.”
“E che non dà
dipendenza?”
“Assolutamente sì.
Provala.”
Mi voglio fidare di lui,
anche se so che non dovrei. Prendo la pasticca, mi verso un bicchiere d’acqua e
la inghiotto.”
“Occhio che fa effetto
subito” dice Alfredo.
Su questo ha ragione.
All’improvviso provo una strana sensazione. Come quando si osserva qualcosa con
un binocolo e l’oggetto non appare a fuoco. Come quando si agisce sulla ghiera,
ruotandola, e di colpo tutto appare nitido in maniera straordinaria. Cerco di
concentrarmi su un ricordo a caso. Una reminiscenza che spesso richiamo alla
mente ma che, tutte le volte che lo faccio, mi appare incompleta, difettosa. Il
primo giorno di scuola! Mia madre, che indossa un tailleur grigio assurdamente
fuori moda, mi lascia la mano. Mi trovo nell’atrio della scuola, circondato da
tanti altri bambini. Ho un grembiulino nero che mi arriva alle ginocchia,
entrambe sbucciate, un rigido colletto di plastica e un enorme fiocco azzurro.
Mi guardo attorno, spaesato e impaurito, fisso la sguardo sulle pareti, dipinte
di verde lucido e scrostate. All’improvviso qualcuno, da dietro, mi spintona. Qualcun
altro mi spruzza qualcosa di appiccicoso sui capelli e, mentre porto le mani
sulla testa, con uno strattone mi slega il fiocco. Proprio in quell’istante
suona la campanella e un bidello ci accompagna in aula. Ci sediamo, io in prima
fila. Entra la maestra. Ho sempre immaginato, negli anni trascorsi da allora,
quella donna arcigna e severa come una vecchia, invece mi accorgo che è
giovane. Non avrà neppure trent’anni ed è pure bella, anche se il suo sguardo è
molto duro. Mi guarda e io arrossisco per l’imbarazzo.
“Tu!” sbraita,
additandomi. “Come ti sei ridotto? Non ti vergogni? Dimmi il tuo nome!”
Apro la bocca ma non
riesco a parlare. Tutti i miei compagni mi osservano. I miei visceri non
riescono a reggere una simile pressione emotiva e mi lascio andare. Il mio
compagno di banco si pizzica il naso con due dita. La maestra si alza, viene da
me e mi costringe a fare altrettanto. Davanti a tutta la classe mi solleva il grembiulino
e annusa. Il suo grazioso viso dalla pelle scura assume un’espressione
disgustata. All’ultimo banco un bambino inizia a ridere sempre più forte. La
maestra lo fulmina con lo sguardo. Non c’è dubbio, si tratta proprio di lui, di
Alfredo, è lui che mi ha imbrattato i capelli e slegato il fiocco. L’umiliazione
che devo subire è per colpa sua e mi assale una gran voglia di prenderlo a
calci. Invece mi metto a piangere mentre la maestra mi accompagna al gabinetto
strattonandomi.
Ritorno in me, ancora
turbato. Davanti mi ritrovo lo sguardo divertito di Alfredo, stravaccato sul
mio divano.
“Allora? Tutto bene?”
dice, con la solita aria scanzonata. “Divertente, no?”
Mi alzo da seduto e mi
avvicino a lui. Comincio a prenderlo a calci, sulle gambe, sul torace, sulla
faccia. Lui mi guarda con occhi sbarrati dal terrore ma io non smetto finché
non mi accorgo di una chiazza scura che si sta allargando sul cavallo dei suoi
pantaloni.
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