Cammino tra gli
spaziosi ambienti del Museo del Carnevale stringendo la manina di mio figlio.
Abbiamo quasi terminato la visita, non rimane che un’ultima sala, la più
piccola. Cerco di evitarla, invano.
“Voglio vedere
Giacomino!” strilla mio figlio. Mi abbasso e lo guardo negli occhi.
“Sei sicuro? Non avrai
paura?”
Lui scuote il capo.
“Lo voglio vedere”
ribadisce. È un ragazzino coraggioso.
“Va bene, andiamo.”
Il locale è in
penombra. Addossata a una parete c’è un’alta teca di cristalla collocata in
verticale. Al suo interno c’è Giacomino. Sembra che dorma, invece è morto.
Meglio, è disattivato per sempre.
Sento le unghiette di
mio figlio premere sul palmo della mia mano. Osserva spaventato quell’essere
enorme che incombe su di noi. Si stringe a me mentre prosegue a guardare,
attento. Per lui si tratta della prima volta, ma non per me. Anche se è passato
parecchio tempo da quanto sono stato qui l’ultima volta, Giacomino non cessa
mai di stupirmi. Fisso il suo grosso cranio, i ciuffi di capelli, il naso
pronunciato, gli occhi uno diverso dall’altro e, soprattutto, le minuscole
suture che uniscono la pelle del suo viso, quelle sotto la gola, sui suoi
polsi. Rimpiango di non averlo mai visto quando era attivato.
Giacomino è stato
prodotto alcuni anni fa nei laboratori di ingegneria biologica della nostra
città. È alto quasi tre metri. Perché così alto? Per meglio distinguerlo dagli
altri individui, da noi, disse una volta scherzando il professor B., il suo
creatore, intervistato da una televisione locale. Il mostro, il bestione,
Frankenstein, così era chiamato dalla gente. Soltanto in seguito si cominciò a
chiamarlo Giacomino, il nome del contadino che più aveva contribuito alla sua
creazione, donando l’intero suo corpo alla scienza. Il corpo di Giacomino era
perfetto, la sua mente no. Era difficile interagire con lui, impossibile
comprendere i suoi processi mentali. Un successo a metà, insomma. Alla fine fu
disattivato, fino al momento in cui a qualcuno venne l’idea di utilizzarlo per
il Carnevale. Una volta l’anno, il giorno di Martedì Grasso, l’essere
gigantesco dalla mente di bambino veniva riportato in vita e obbligato a girovagare
per la città. La gente lo affrontava, da soli o a gruppi, a mani nude. Per
provare la propria forza, il proprio coraggio, per divertirsi. Dopotutto si
trattava del Carnevale. Tutto ciò aveva comunque anche tremendi effetti
negativi, per cui dopo otto anni si decise di porre fine per sempre a quel rito
stravagante e violento. Si ritornò a festeggiare il Carnevale alla maniera
classica, Giacomino fu disattivato in via definitiva e posto nella sua teca al
Museo del Carnevale. Adesso è morto, morto per sempre, così come sono morti per
sempre quei quattrocentoventotto sciagurati che lo hanno affrontato e hanno
avuto la peggio. I loro nomi sono incisi sulle pareti della sala.
“Possiamo rimanere
ancora un po’?” domanda mio figlio.
“Va bene, ma soltanto
qualche minuto, altrimenti Giacomino si arrabbia” dico sorridendo.
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