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giovedì 7 febbraio 2013

LA LETTERA



Uscì dal bar che era quasi mezzogiorno. Si fermò sul bordo della strada, accecato dalla luce del sole. Abbassò lo sguardo. Non c’erano dubbi: vedeva tutto doppio. Sogghignò tra sé, divertito. Sempre stando immobile, respirò profondamente, più volte. Poi si incamminò verso casa. Dopo pochi passi, dovette ricacciare in gola un rigurgito di vino acido, ma non si scompose più di tanto. Poco per volta riacquistò il controllo del proprio corpo e continuò a camminare, seppure in maniera scomposta, sbandando e inciampando spesso. Faticava e sudava ma, nello stesso tempo, provava una sensazione di grande leggerezza. I sensi erano attutiti: percepiva in modo smorzato, come provenissero da molto lontano, i rumori del traffico; la vista continuava a essere annebbiata, confusa. Tuttavia non sbagliò direzione, una sorta di pilota automatico lo guidava lungo la strada del ritorno. Ben presto intravide, ancora in lontananza, il profilo della propria abitazione. Una costruzione misera, dall’intonaco sbiadito, schiacciata fra altri due edifici. Si accorse che, davanti a lui, camminava una persona. Con una certa difficoltà la mise a fuoco. Vide che indossava un berretto con la visiera e un giubbotto con appariscenti bande gialle. Si concentrò e alla fine lo riconobbe. Era il postino. Ne fu sicuro soltanto quando scorse la borsa, gonfia, che l’uomo teneva appoggiata sul fianco. Cercò di accelerare il passo per salutarlo – non mancava mai di farlo quando lo incontrava – ma fu assalito da un violento conato di vomito. Ebbe appena il tempo di guardarsi attorno e di individuare un piccolo cespuglio, che il suo stomaco si rivoltò. Si inginocchiò a terra e trascorse i successivi due minuti in preda a spasmi terribili, la bocca trasformata in una fontana. Passò un’anziana signora di ritorno dalla spesa che lo osservò con commiserazione, ma non disse nulla. Allora si rialzò in piedi, si passò una mano sulle labbra ancora lorde di vomito e tentò di rimettere in moto le gambe. Con immane sforzo, ci riuscì. Adesso si sentiva veramente male; era scosso da brividi freddi e una lama gelida gli tormentava la nuca. Il cuore batteva all’impazzata, fuori controllo. Appoggiandosi a una cancellata si trascinò comunque in avanti fino a quando iniziò a stare meglio. Si rese conto, con sorpresa, che l’ubriacatura non gli era affatto passata. Il suo stomaco era riuscito a carpire e a trattenere le sostanze euforizzanti prima di rilasciare - in quel modo così impetuoso – la materia inutile. A quel folle pensiero, si rallegrò. Ricominciò ad avanzare, in maniera penosa, quando il suo sguardo cadde su qualcosa che era a terra, sul bordo del marciapiede. Si arrestò e, combattendo la residua sensazione di nausea che ancora gli scombussolava lo stomaco, si chinò. Vide che si trattava di una busta, di sicuro sfuggita al portalettere. La raccolse, scorse il nome del destinatario e la infilò nella tasca della giacca. Finalmente giunse a casa. Fuori, vide parcheggiata la vecchia automobile della moglie e non riuscì a trattenere una smorfia di disappunto. Dopo aver frugato a lungo tra i vari interstizi degli abiti che indossava, riuscì a recuperare le chiavi. Lottò a lungo con la toppa – come capita a tutti gli ubriachi, d’altronde – e alla fine i suoi tentativi furono premiati dal successo. Superò lo stretto corridoio appoggiandosi alle pareti ed entrò in cucina.
“Disgraziato! Dove sei andato?” Sua moglie, una vera furia.
“Come mai sei a casa?” domandò l’uomo con voce incerta.
“Sono passata a mangiare qualcosa. Guarda che oggi lavoro fino alle sette!”
“Dove vuoi che sia stato? All’ufficio di collocamento, come sempre. Mi hanno detto di ripassare domani, forse c’è la possibilità di…”
“Bugiardo! Sei stato a bere. Puzzi di vino e di… vomito. Che schifo! E guarda la camicia, è tutta lercia! Sudicio! Uomo da poco!”
“Non ricominciare. È colpa mia se mi hanno licenziato?”
“Certo che è colpa tua! Sei uno scioperato, sei capace solo di trascinarti da un bar all’altro! Perché il tuo amico Bruno sta ancora lavorando e tu no? Forza, spiegamelo!”
“Bruno? Buono quello! È un leccapalle dei capi, sempre pronto a dire di sì e a chinare il capo. Ma io non sono così, ho una mia dignità, non mi faccio mettere i piedi in testa! E poi te lo ricordi il tuo Bruno quella volta a cena, proprio qui da noi? Era ubriaco fradicio, non riusciva neanche più a parlare!”
“Sono passati quasi dieci anni da quella cena!”
“Dici? Davvero è passato così tanto tempo?”
“Guardati! Scommetto che stamattina non ti sei neppure lavato il grugno! E i capelli! Da quanto non ti pettini? Oh Dio! Che pena! Cosa mi tocca sopportare! Che ho fatto di male?”
“Calmati, non fare l’isterica come sempre! Piuttosto, c’è qualcosa da mangiare? Non ho molta fame, però…”
“Lo credo! Sei pieno di vino come una botte! Da mangiare, hai detto? Hai detto che vuoi da mangiare? Un momento.”
La donna si diresse verso il frigorifero. Lo aprì, prese una scatoletta di sardine e la buttò sul tavolo. Fece lo stesso con una forchetta.
“Ti va bene anche senza piatto, vero? Tanto sei una bestia!” aggiunse.
L’uomo non rispose. Si sedette e aprì la scatoletta. Cominciò a mangiare in maniera svogliata. Lo stomaco non aveva esaurito del tutto la sua ribellione, tuttavia riuscì a ingoiare qualche boccone.
“Non c’è da bere?” domandò, un po’ titubante.
“Il rubinetto è di là!” rispose la donna, rabbiosa.
“Ascolta, Giardini non è il primario dell’ospedale? Quello che abita in quel bel palazzo in via Vespucci?”
La moglie lo osservò a lungo.
“Che c’entra Giardini?”
“Così, se ne parlava al bar e…”
“Al bar? Visto che ci sei andato? Falso! Ipocrita!”
“Non ho detto che se ne parlava oggi! Accidenti! Con te non si può dire nulla. Lo conosci o no?”
“Certo che lo conosco! È quel bell’uomo, serio e distinto. E dicono che come medico sia molto bravo. A volte lo incontro con la moglie – una signora ancora giovane, molto graziosa - e i figli, davvero una bella famiglia felice.”
“Facile essere felici quando si è pieni di soldi!”
“Guarda che quello lavora sodo! Non è un perdigiorno come te! E non se ne va in giro puzzolente e vestito come uno straccione.”
“Si direbbe che ti piace.”
“Puoi ben dirlo! Quello è un vero uomo!”
“E tu pensi che lui si accorga di te? Vai, vai di là che c’è lo specchio! Usalo, per favore!”
“Ma come ti permetti?” La donna aveva gli occhi lucidi.
Lui, spietato, prese a fissarla in volto con i suoi occhi rossi e cisposi.
“Che cosa guardi?”
“Le rughe. Sei piena di rughe.” E non riuscì a non notare i suoi capelli stopposi, tinti in malo modo.
“Mi dicono tutti che mi donano. Sono rughe di espressione.”
“Ma smettila! Sembra sia appena passato l’aratro!”
“E tu? Guardati! Fai veramente schifo! Fai vomitare! Le donne ti scansano tanto fai ribrezzo!”
L’uomo riuscì a mantenere la calma. Sorrise in maniera canzonatoria.
“Questo lo dici tu, ma ne sei veramente sicura?”
“Cosa intendi dire?”
“Non dico che ci sia la fila, però…”
La donna iniziò a ridere in modo sguaiato.
“Mi fai pena! Non troveresti un’altra donna neanche a pagarla! Sei ripugnante! Un mezzo uomo!”
Le lacrime della donna si erano trasformate in collera. Afferrò un soprammobile, una piccola tartaruga di pietra, e la scagliò con violenza contro il marito. Lo mancò. Poi afferrò la borsetta e uscì sbattendo la porta.
“Vorresti dire che non potrei avere un’amante?” gridò l’uomo, ma ormai la moglie non poteva più sentirlo.
Allora sbatté un pugno sul tavolo, si alzò e si avvicinò alla credenza, da dove prelevò un bottiglione di vino. Cercò invano un bicchiere pulito ma non lo trovò. Erano tutti nel lavello, sporchi, assieme a una montagna di piatti, pentole e stoviglie. Irritato, bevve a canna tre lunghe sorsate. Poi si sfilò la giacca – stava sudando – e la gettò sul divano. Fu allora che rivide la lettera. La prese e rilesse l’indirizzo: Professor Emilio Giardini, via Vespucci 56. Sarebbe stato suo dovere consegnarla, ma non aveva alcuna voglia di uscire, non in quel momento. Fu invece assalito da una morbosa curiosità. Soppesò a lungo la busta e notò che non era indicato il mittente. Decise di aprirla. Naturalmente, dopo averla letta, l’avrebbe richiusa e, il giorno dopo, recapitata al legittimo destinatario. Uscì dalla casa ed entrò nel garage. Quel posto era solo suo. La moglie non vi metteva piede ormai da anni, si rifiutava. Ciò era dovuto al disordine e alla confusione che regnavano in quel piccolo edificio. Ed era anche il motivo per cui non era mai stato possibile ricoverarvi l’automobile. Il garage era pieno zeppo di cianfrusaglie di ogni tipo. Pezzi di legno, lamiere contorte, stracci, vecchi copertoni, resti di mobili. Il banco da lavoro era del tutto ricoperto da uno strato di utensili, alcuni dei quali arrugginiti e inservibili. In un angolo c’era un divanetto con il cuscino lurido e strappato in più punti, utilizzato per la pennichella pomeridiana e per smaltire le sbronze. Sotto il divano, ben nascosta, c’era la sua collezione di riviste pornografiche. Vecchie annate, che da qualche tempo non sfogliava, dono del suo amico Gino il porco. Si guardò attorno, si rammaricò di non aver portato con sé il bottiglione del vino, poi prese una bacinella di plastica e la riempì d’acqua. Vi immerse in parte la lettera. Con sua grande sorpresa, dopo pochi istanti i lembi di chiusura erano già scollati. Una pessima colla, valutò. Estrasse con delicatezza dalla busta un foglio ripiegato, lo distese, accese una lampada e cominciò a leggere. All’inizio con una certa fatica, perché la calligrafia - minuta e di sicuro femminile – non era facile da decifrare, poi in maniera più spedita.


(Ex) Amore mio carissimo,
che dirti? È stato tutto un sogno, un sogno che però si è trasformato in un incubo. Non posso negarlo: con te ho passato momenti meravigliosi. Mai mi ero sentita così felice nella mia vita, mai mi ero sentita così importante, così desiderata da un’altra persona. Tu avevi bisogno di me ed io di te. I nostri bisogni coincidevano e tutto era fantastico. Ho dato tutta me stessa, senza riserve, senza limiti, e finché è durato, è stato tutto bellissimo. Sapevo di avere una rivale, tua moglie. La stronza, come la chiamavi tu. Mi hai sempre detto che non t’importava più nulla di lei, che ti aveva rovinato la vita, che fisicamente non ti attraeva più, dileggiavi le sue rughe, ed io ti ho sempre creduto, anche se dentro di me rimaneva un piccolo dubbio. E adesso, adesso quel dubbio si è dissolto. Del tutto. È vero, eri sincero, ma perché non sei stato del tutto sincero con me? Sincero fino in fondo? Perché non mi hai mai detto che frequentavi anche quella Monica? Quella che hai conosciuto al bar? Sai, l’ho vista. È giovane, ed è bella. Ma anch’io pensavo di essere bella, per te. E anch’io sono giovane. Mi ricordo quando mi dicevi, adorante, che non avevi mai avuto una donna così bella. E i miei capelli? Non ti piacciono più? Hai sempre detto che i miei capelli ti facevano impazzire. Lunghi, folti, setosi. E non stopposi come quelli di tua moglie! Ti ricordi? Perché mi hai fatto questo? Perché sei stato così falso e malvagio con me? Mi hai sempre promesso che, prima o poi, avresti mollato la stronza e che avremmo passato insieme il resto della nostra vita. Invece scopro che sei un ipocrita, come tutti gli altri uomini, e allora ti dico addio. Spassatela pure con la tua Monica, poveraccia lei! Per quanto mi riguarda, non ho più intenzione di vederti e ti dico addio con questa lettera. Perché te la spedisco a casa? Non lo so, forse spero che la veda quella povera stronza di tua moglie…  o forse no. In realtà non m’importa, non m’importa più di nulla.
Fulvia (il tuo bocconcino, ricordi?)


Fu colpito da quelle parole. Le rilesse più volte. Rifletté a lungo, poi sorrise. E prese la sua decisione. Recuperò la busta, si spostò sul piccolo lavandino di pietra, estrasse l’accendino e la bruciò. In quel modo si era precluso ogni possibilità di restituire la lettera. Assalito da una febbrile frenesia, sempre tenendo in mano il prezioso foglio, tornò in casa. Senza pensare, afferrò il bottiglione del vino e ingollò un paio di robuste sorsate. Poi iniziò a frugare nel mobile del soggiorno. Cercò a lungo, fino a quando non trovò una bella busta bianca, intonsa. Si sedette al tavolo e, con grande cura, vergò il proprio indirizzo. Leccò un francobollo, lo appiccicò e uscì a spedirla.

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