Stava con il naso
incollato al vetro della grande finestra, al trentaduesimo piano dell’imponente
e lussuoso palazzo. La spessa cappa di smog si diradò per un attimo e lui
riuscì a scorgere, in basso, l’ampio viale brulicante di automobili e di
persone, queste ultime affaccendate e frenetiche come tante formiche. Nell’ufficio
non penetrava alcun rumore, neppure smorzato, e l’atmosfera era di quiete
assoluta.
L’uomo si sedette alla
sontuosa scrivania, ne osservò compiaciuto il piano del tutto sgombro di carte.
Sospirò, poi accese un sigaro. Ne aspirò soddisfatto alcune boccate e inondò
l’ambiente di fumo. Proprio in quel momento squillò l’interfono. Premette un
tasto.
“Sì? Dimmi Melody…”
“Ingegnere, ma io mi
chiamo Franca…”
“Preferisco chiamarti
Melody. Allora?”
“Come vuole lei,
ingegnere. C’è il dottor Boschi, vorrebbe parlare con lei.”
“Riccardo? Il mio amico
Riccardo? E c’è bisogno di farsi annunciare? Accompagnalo subito da me!”
“D’accordo, ingegnere.”
Dopo qualche istante il
dottor Boschi, scortato da una vistosa ragazza, fece il suo ingresso
nell’ufficio dell’ingegner Rusconi. Il nuovo venuto, un ometto stempiato
infagottato in un abito grigio, appariva un po’ timoroso. Si guardò intorno,
circospetto, poi si accomodò su una comoda poltrona, tenendo le mani raccolte
in grembo. Era il responsabile della contabilità di tutte le aziende
dell’ingegnere ma, al cospetto del potente principale, si sentiva sempre come
uno scolaretto al suo primo giorno di scuola.
Rusconi lo squadrò a
lungo, poi annuì.
“Un sigaro?” domandò.
“No, grazie. Sai che
non fumo…”
“Davvero? Me n’ero
scordato. Qualcosa da bere? Melody, vai a preparare due caffè!”
“Certo ingegnere. Però
il mio nome…”
“Ancora? Abbiamo già
affrontato la questione, no? Sbrigati!”
La ragazza chinò il
capo e uscì, ancheggiando suo malgrado.
“Bella ragazza” disse
il dottor Boschi, per rompere il ghiaccio. “E deve essere pure brava” aggiunse.
Rusconi scoppiò a
ridere.
“Brava? Non sa fare
nulla!”
“Ma allora…”
“L’ho assunta perché è
ornamentale.”
“Ah!”
Poi l’ingegnere assunse
un’espressione seria.
“Novità?” domandò in
modo brusco.
Boschi, prima di
rispondere, inghiottì un po’ di saliva.
“C’è stata l’ispezione
degli uomini del fisco.”
“Bene. Com’è andata?”
“Hanno scoperto quella
parte di contabilità in nero. Solo quella, ovviamente.”
“Ottimo, proprio ciò
che volevo.”
Il dottor Boschi
approvò senza capire.
“Se non fossimo stati
avvertiti sarebbe stato un vero guaio” disse.
“Prima o dopo doveva
capitare. Adesso per un po’ ci lasceranno in pace.”
“Posso fare una domanda
un po’ delicata?”
“Riccardo! Non lo devi
neppure chiedere. Tra di noi non ci sono segreti!”
“Non era facile
scoprire quelle operazioni illegali, e loro sapevano esattamente che cosa
cercare. Chi è stato a fornire quei particolari?”
L’ingegner Rusconi
ammiccò, sornione. Poi soffiò una enorme nube di fumo puzzolente in direzione
del contabile, che non riuscì a trattenere un accesso di tosse.
“Semplice! Lo stesso
che li ha mandati, vale a dire io!”
“Tu?”
“Certo! Non potevamo
continuare ad apparire sempre virtuosi. Ciò, alla lunga, avrebbe alimentato
troppi sospetti. In una azienda come la mia è normale che ci possa essere
qualche irregolarità. Ci dimostreremo pentiti di fronte alle istituzioni,
onoreremo il nostro debito, e tutto il resto potrà continuare come prima. Era
questo, in realtà, il vero obiettivo.”
“Già, hai ragione.
Tuttavia ci sarà una sanzione da pagare.”
“Naturale. E lo faremo,
da buoni cittadini. Chi sbaglia paga, no?”
“Abbiamo ricevuto una
convocazione dall’Ufficio Centrale del Fisco per discutere la faccenda e
definirla. Che faccio? Dico all’avvocato Sbrogli che se ne occupi lui?”
“No!”
“No?”
“Ci andrò di persona,
in quel cazzo di Ufficio…”
“Tu? Stai parlando sul
serio?” domandò Boschi, piuttosto meravigliato.
L’ingegnere, prima di
rispondere, spense il sigaro.
“Certamente, mio caro
Riccardo. Sai, a volte mi annoio terribilmente, perché non ho mai nulla da
fare. Guarda la mia scrivania, è del tutto vuota! Da anni ormai…”
Proprio allora la
segretaria portò i caffè. Il contabile osservò con vivo interesse il posteriore
della ragazza, fasciato in un abito aderente.
“Posa qui, Melody”
disse brusco Rusconi. “E poi sgomma in fretta che ci stai disturbando. Sciò!”
“Subito, ingegnere…”
disse lei, umiliata.
“Ah! Melody! Chiama
Aurelio e digli di venire a prendermi tra mezz’ora. Questo lo sai fare, vero?”
La ragazza, sempre più
mortificata, annuì e uscì.
“Perché la tratti così
male?” chiese il dottor Boschi al suo principale.
L’altro sbuffò,
infastidito.
“Ha parlato il paladino
delle povere fanciulle indifese! Riccardo, se ti piace così tanto questo
modello di donna, perché non te ne compri una? Con tutti i soldi che ti becchi!
Taccagno! Vergogna!”
Il viso di Boschi
diventò color porpora. L’uomo si rannicchiò nell’enorme poltrona, spaventato.
“Forse è il caso che io
vada…” sussurrò.
“Eh? Come dici? Guarda
che sono io che ti congedo.”
“Certo, certo…”
Boschi si alzò e, quasi
strisciando, raggiunse l’uscita. Rusconi scosse il capo, sconsolato. La maggior
parte dei suoi dipendenti erano dei veri buoni a nulla, uomini senza spina
dorsale, considerò.
Dopo meno di mezz’ora
l’ingegnere stava con il naso incollato al finestrino della lussuosa berlina
blindata. Aurelio, il suo autista, cercava di farsi largo in mezzo a un
traffico infernale di mezzi, di pedoni e di ombre. Il mantello di smog si era
abbassato ed era molto fitto. Anche se era ancora giorno, la vettura procedeva
con tutti i fari accesi, nel faticoso tentativo di aprirsi una strada di luce
attraverso quell’ambiente da incubo, al quale tutti sembravano comunque
assuefatti.
L’ingegner Rusconi
azionò l’interfono dell’automobile.
“Aurelio, è così tutti
i giorni? In queste strade, dico…” domandò all’autista.
“Uh? Da quanto tempo
non esce dal suo quartiere, ingegnere?”
“Non lo so, non ricordo
più. Lo sai, quando occorre mi sposto con l’aereo, o con l’elicottero.”
“Già.”
La macchina procedeva
lentamente. Rusconi si sforzava di mettere a fuoco quelle figure che,
all’improvviso, apparivano di fronte a lui per poi scomparire inghiottite dalla
nebbia spessa e lurida.
“Ehi! Che ci fanno
tutte quelle persone sedute sui marciapiedi?”
“È gente senza lavoro
che chiede l’elemosina, credo.”
“Dici? A me sembrano
tanti sfaccendati. Possibile che non riescano a trovare un’occupazione? Ti pare
dignitoso per un essere umano trascorrere la giornata in strada?”
L’autista diede
un’occhiata nello specchietto retrovisore. Intendeva capire se il suo
principale stesse celiando oppure parlando seriamente. Decise per la seconda
ipotesi.
“Pare che lavoro per
tutti non ci sia…” rispose infine.
“Eppure le mie aziende
stanno continuando ad assumere…” obiettò l’ingegnere.
“Già, le vostre…”
“In ogni caso si tratta
di uno spettacolo indecoroso! Quella gente non potrebbe almeno starsene a
casa?” sbottò Rusconi.
“Non credo abbiano una
casa” disse l’autista.
“Com’è possibile non
avere una casa? Tutti hanno una casa!”
“Forse non proprio
tutti…”
L’ingegner Rusconi, con
stizza, spense l’interfono.
Dopo pochi minuti la
vettura si arrestò di fronte all’ingresso principale dell’Ufficio Centrale del
Fisco, un palazzo grigio e fatiscente. In paziente coda, in prossimità di un
ingresso laterale, c’era una moltitudine di persone. L’ingegner Rusconi rivolse
loro uno sguardo distratto, poi entrò nel portone dove trovò ad attenderlo un
impiegato dell’amministrazione del fisco.
“Di qua, ingegnere”
disse l’uomo. “Dov’è la vostra scorta?” aggiunse.
Rusconi si bloccò.
“Non ho bisogno di
nessuna scorta” disse. “Che cosa dovrei temere?”
“All’interno del
palazzo… nulla. Mi scusi, ingegnere. Prego, venga con me.”
“Chi è quella gente in
fila? Fuori, dico…” domandò Rusconi.
“Quelli? Si tratta di contribuenti
comuni che devono regolare pendenze con il fisco” rispose il solerte impiegato.
“Ma li ha visti? Sono
vestiti di stracci!”
L’altro non rispose, si
limitò a stringersi nelle spalle. Poi guidò l’ingegnere attraverso una selva di
corridoi. Ovunque c’era umidità e odore di muffa. Alla fine i due giunsero di
fronte alla porta di un ufficio, priva di maniglia e con il vetro incrinato.
“Prego, il direttore la
sta aspettando…” disse l’impiegato, prima di socchiudere l’uscio e introdurre
il visitatore.
L’interno dell’ufficio
era freddo e buio. Seduto dietro a una minuscola scrivania c’era un uomo intento
a esaminare un fascio di carte sotto la luce gialla di una vecchia lampada da
tavolo. Indossava un pesante giaccone sgualcito in più punti. Sollevò lo sguardo
verso l’ingegner Rusconi.
“Si accomodi” disse in
tono stanco e piatto.
Rusconi emise un lieve
grugnito di disapprovazione prima di sedersi su una scricchiolante sedia di
legno posta di fronte alla scrivania.
“Buongiorno, ingegnere.
Non mi aspettavo venisse proprio lei…”
“È un problema?” disse
Rusconi, aggressivo.
“No, assolutamente. Il
fatto è che - come può ben vedere - le nostre stanze non sono molto
accoglienti. Sarebbe stato nostro desiderio riceverla in un ambiente più…”
“Non perdiamo tempo!”
lo interruppe Rusconi. “Mi rendo conto di quanto questo posto sia schifoso. Mi
chiedo come possiate fare il vostro lavoro in tali condizioni!”
Il direttore approvò.
“Lo Stato è sempre più
povero, tuttavia noi cerchiamo di compiere ugualmente il nostro dovere con i
pochi mezzi a nostra disposizione.”
L’ingegner Rusconi
scosse il capo, incredulo.
“Ma è pazzesco! La
nostra nazione è tra le più ricche al mondo!” sbraitò.
“È vero” approvò
l’altro. “Nel nostro territorio è concentrata una notevole fetta di ricchezza
planetaria.”
“Quindi?” lo incalzò
Rusconi.
“Lasciamo stare,
ingegnere. Piuttosto, pensiamo a noi. Stavo appunto esaminando la questione
delle sue aziende…”
“Allora? È possibile
concordare subito la sanzione?”
Il direttore lo guardò,
poi fece una smorfia.
“Non è prevista alcuna
sanzione” disse.
Rusconi sorrise.
“Vuol dire che ci
perdonate?” chiese, divertito.
“Non proprio. In casi
del genere le nuove norme appena approvate non prevedono più pene pecuniarie.”
“Quali nuove norme?”
domandò l’ingegnere.
“Mi scusi, ma non ha
parlato con il suo avvocato prima di farci visita?” indagò il direttore,
guardingo.
“Al diavolo l’avvocato!
Sono in grado di occuparmi personalmente di qualsiasi questione che riguardi le
mie aziende senza dover ricorrere a quei succhiasangue! Sono o non sono il più
grande imprenditore di questo Paese?”
“Non lo metto in
dubbio. In ogni caso dovremo applicare la nuova legge, nella sua universalità.”
“Eh?”
“Intendevo dire che la
legge è uguale per tutti” precisò il direttore.
“Ah! Certamente. Vede,
negli ultimi tempi non ho seguito molto le varie vicende politiche. Ovviamente
ho saputo della vittoria di quello strano partito progressista alle ultime
elezioni, ma ormai gli affari pubblici non mi appassionano più…”
“Capisco la sua posizione,
tuttavia finché la politica eserciterà un’influenza nella vita di tutti noi ne
dovremo tenere conto.”
“Sono d’accordo, mi
piace essere considerato un cittadino consapevole e responsabile” disse
Rusconi, che non riusciva più a celare una certa impazienza. Spesso sbirciava
il lussuoso orologio d’oro che portava al polso.
Il direttore fu scosso
da un brivido di freddo. Annuì, poi riprese le carte tra le mani. Le esaminò
per qualche istante, quindi sollevò lo sguardo verso il suo inquieto
interlocutore.
“Non le voglio far
perdere ulteriore tempo, ingegnere. In caso di lievi violazioni del codice
tributario, e mi riferisco a quanto rilevato dagli ispettori nelle sue aziende,
è prevista una punizione alternativa.”
“Venga al sodo,
direttore!”
“D’accordo. Lei, in
qualità di presidente della holding che porta il suo nome, dovrà ospitare per
un anno dieci senzatetto e provvedere a tutte le loro necessità. La legge tra
l’altro prevede che gli ospiti soggiornino nell’abitazione del sanzionato o in
locali immediatamente attigui. Quest’ultimo rappresenta l’aspetto… rieducativo
della norma. Almeno, così ha lasciato intendere il legislatore.”
“Sta scherzando?”
domandò l’ingegner Rusconi, il cui viso era diventato paonazzo.
“Assolutamente no.”
“Mi ritroverò un branco
di puzzolenti straccioni per casa per un intero anno?” strepitò Rusconi.
“Mi perdoni, ingegnere.
Credo che lei disponga di stanze da bagno e che sia in grado di fornire abiti
dignitosi ai suoi futuri ospiti…”
“E se decidessi di non
accettare questa… sanzione?” chiese Rusconi.
Il direttore scosse il
capo.
“L’alternativa è il
carcere. Un anno di reclusione, senza la concessione di alcuna attenuante.”
Rusconi, nonostante il
freddo, stava sudando.
“Qual è lo scopo di
tutto ciò?” domandò, soprattutto a se stesso. “Perché tormentare in questo modo
la parte sana del Paese, l’unica produttiva, la sola che può garantire
prosperità alla nazione?”
“E lo chiede a me?”
disse il direttore. Si accorse di avere le mani ghiacciate.