L’unica possibilità di
ripararsi dal caldo torrido era quella di stare rintanati all’interno dei
freschi locali dell’edicola-osteria di Albino, seduti al solito tavolo
nell’angolo a bere vino. Magnìn e i suoi amici erano convinti che soltanto
quella magica bevanda potesse combattere l’arsura provocata dalla canicola,
così come lo stesso ambrato liquido, nei mesi invernali, riuscisse a donare al
corpo quel languido tepore così dolce da godere in compagnia. Insomma, su tale
argomento le convinzioni erano del tutto unanimi: il vino era adatto a tutte le
stagioni. Punto.
Magnìn, il figlio dello
stagnino, passò la bottiglia a Dolfo il
camionista, il quale la fece scorrere verso Giors. Quest’ultimo ritenne troppo
macchinoso manovrare la boccia per riempire il bicchiere e la portò
direttamente alle labbra ormai violacee. Enorme fu la sua sorpresa, e la
conseguente angoscia, quando dal collo del recipiente stillò una unica goccia
che andò a solleticargli la bramosa lingua. Lanciò un urlo disperato.
“Albino! Un litro!
Presto!”
Il povero Giors aveva
gli occhi fuori dalle orbite, e non riusciva proprio a nascondere l’enorme
preoccupazione. Stava rischiando di morire di sete da un momento all’altro.
Albino, il corpulento
oste, accorse prontamente zampettando sui suoi minuscoli piedi, che parevano
inadatti a sostenerlo ma che invece gli permettevano addirittura di correre.
Quando c’era di mezzo un’emergenza, e
quella di sicuro lo era, non ci si poteva abbandonare a eccessivi indugi.
“Ecco, prendi” disse
Albino con la sua vocetta sottile e sempre gentile porgendo la bottiglia a
Giors il quale, dopo alcune robuste sorsate, riprese colore e si rianimò.
“Non fatemi mai più uno
scherzo del genere!” disse Giors all’indirizzo di Magnìn e Dolfo, che stavano
ancora sogghignando.
“Dolfo, niente lavoro
oggi?” domandò Albino. Un interrogativo del tutto retorico, naturalmente. Tutti
sapevano che il camionista non lavorava quasi mai.
Dolfo assunse
un’espressione afflitta e addolorata.
“Il camion…” sussurrò.
“Come?”
“Il camion… è ammalato”
completò finalmente Dolfo con tono grave.
Un’espressione di somma
dolenza si disegnò sui volti dei compari. Albino si abbassò verso il
camionista.
“È grave?” chiese.
L’altro annuì.
“Il semiasse. Ne avrà
per un po’…”
Tutti annuirono,
compunti.
“Lo hanno ingessato?”
domandò Luigino, che proprio in quel momento aveva fatto il suo ingresso
nell’edicola-osteria e aveva colto le ultime parole scambiate dagli amici.
Dolfo scosse il testone.
“No, però gli hanno
detto di stare immobile a lungo.”
“Te l’avevo detto di
prendere un camion tedesco. Sono più robusti, sono fatti di roba più buona”
sentenziò Luigino che, prima di sedersi, ordinò ad Albino un bicchierino di
liquore alla prugna. Poi frugò nella logora borsa di cuoio ed estrasse una
bottiglia di latte che posò sul tavolo.
Tutti lo guardarono
stupiti.
“Sei andato a lavorare
con questo caldo?” domandarono quasi in coro.
“Ero stufo di stare a
casa, mia madre non mi lascia bere” disse Luigino. La spaventosa severità
dell’anziana genitrice dell’amico era ben conosciuta. E temuta.
“Bravo, hai fatto bene”
disse Giors. “Non ti devi far comandare da tua madre!”
Luigino portò il
cicchetto alle labbra, lo svuotò tutto di un fiato e poi fece schioccare la
lingua.
“Non ho paura di mia
madre, ma della sua scopa” disse.
“Toglimi una curiosità”
aggiunse Giors. “Come fai a scolarti in quel modo il liquore alla prugna?
Quanti gradi sono? Cinquanta?”
“È tutto bruciato,
ormai. Dentro, dico” intervenne Dolfo.
Luigino confermò con un
cenno del capo, compiaciuto. Poi chiamò l’oste, che in quel momento era
impegnato al banco dei giornali.
“Albino, lo vuoi il
latte per il gatto? Me l’hanno dato in fabbrica.”
Luigino lavorava in una
fabbrica tossica. I proprietari, autentici criminali, distribuivano dosi di latte
agli operai assicurandoli in maniera ingannevole che quella bevanda avrebbe
attenuato, se non eliminato del tutto, gli effetti velenosi delle sostanze
maneggiate senza alcuna precauzione.
Albino si avvicinò al
tavolo e Luigino gli porse la bottiglia di latte.
“Tieni.” L’oste
arrossì.
“Fuffi non prende
latte. Sapete, l’ho abituato a bere vino…” farfugliò imbarazzato.
Magnìn allora afferrò
la bottiglia e la gettò nella spazzatura.
“Non vorrei mai che
qualcuno lo bevesse per sbaglio e si sentisse male” disse il figlio dello
stagnino. E tutti i presenti approvarono, molto preoccupati.
All’improvviso
dall’ingresso si udì un gran trambusto. Un uomo, ansante e trafelato, si
precipitò all’interno del locale e si lasciò cadere su una sedia vuota. Era
tutto sudato.
“Romualdo!” esclamarono
tutti insieme i presenti.
“Presto, da bere.
Subito!” ordinò Magnìn, imperioso. La sua voce aveva la freddezza di quella di
un chirurgo impegnato in una operazione a cuore aperto.
Romualdo fu subito
soccorso e riuscì così a ritrovare un filo di voce.
“Grazie… grazie”
sussurrò riconoscente tra una sorsata e l’altra.
“Sei pazzo?” gli
domandò Giors. “E se ti scopre tua moglie?”
“Le ho detto che sarei
andato a comprare del concime alla cooperativa agricola. E poi a prendere il
giornale.”
“E dov’è il concime?”
chiese Dolfo.
“Eh? Quale concime?”
rispose Romualdo, già in stato confusionale. Il vino stava cominciando a fare
effetto, per sua buona sorte.
Giors mise mano al
portafoglio.
“Albino, vai a prendere
il giornale. E aggiungi anche Stop, altrimenti
Romualdo sarà senza alibi e quella vipera della moglie lo riempirà di botte.”
L’oste si diresse di
corsa verso il locale dell’edicola.
Magnìn si accese con
gesti lenti una sigarette delle sue, senza filtro, poi scrutò a lungo l’amico.
“Perché hai fatto una
cosa del genere?” lo interrogò. “Non potevi bere a casa?”
Dolfo sussultò, come
percorso da una scarica elettrica.
“Come? A casa può
bere?”
Romualdo ritrovò un
briciolo di lucidità e riuscì a rispondere.
“Certo che a casa posso
bere! Mia moglie dice che se bevo il mio vino non mi ubriaco.”
“È vero?”
“Assolutamente no”
rispose Romualdo. “Sono sbronzo dalla mattina alla sera.” Tutti tirarono un sospiro
di sollievo. L’onore del vino di Romualdo era salvo.
Albino infilò nella
cintura dei pantaloni del poveretto il quotidiano e la rivista, poi lo fece
alzare e gli diede una leggera spinta in direzione della porta.
“Vai adesso, sbrigati.
E ricorda di dire a tua moglie che quando sei uscito di casa eri già ciucco. Ti
crederà di sicuro.”
L’altro annuì, ma era poco
convinto, poi in qualche modo fu capace di uscire dal locale.
“Riuscirà a trovare la
strada per tornare a casa?” domandò Giors, un po’ in ansia.
“Sicuro” disse Luigino,
che era già al secondo bicchierino di liquore alla prugna. “Ha una bicicletta
tedesca. Quelle non si perdono mai.”
Al che Dolfo, tignoso,
mise in dubbio che il velocipede dell’amico fosse davvero di origine teutonica.
“Ti dico che è
tedesca!” ribadì con foga Luigino.
Magnìn bloccò la
discussione sul nascere sferrando un violento pugno sul tavolo. I bicchieri
sobbalzarono, Giors corse ad abbracciare la bottiglia del vino per impedire che
si rovesciasse. Se la strinse al petto con appassionata tenerezza. Albino,
vedendo ciò, per un attimo fu colto dalla commozione. L’oste era grande e
grosso ma molto sentimentale.
“Adesso vado a
lavorare” disse Magnìn.
“Con questo caldo?”
domandò Dolfo, atterrito. Per la cronaca lui non lavorava neppure quando il
clima era fresco.
“Ho finito i soldi”
dichiarò il figlio dello stagnino. “E dunque mi tocca.”
“Che lavoro devi fare?”
chiese Giors. La domanda era del tutto pertinente, dal momento che Magnìn,
quando ne aveva necessità, accettava qualsiasi lavoro. Ed era in grado di
svolgerli tutti nel migliore dei modi. O quasi.
“Ho bisogno di un
aiutante” aggiunse Magnìn, rivolto ai presenti. Tutti si nascosero dietro al
bicchiere.
Magnìn scosse il capo,
sconsolato, leccò con cura una sigaretta e poi la infilò tra le labbra. Azionò
la macchinetta a benzina e rifletté un attimo.
“Allora chiamatemi
Gelu” disse infine, ormai avvolto in una nube di fumo azzurro. Albino scattò. I
comandi di Magnìn erano legge.
Gelu era fuori e,
nonostante il gran caldo, se ne stava seduto tutto solo sotto il sole rovente.
In verità a fargli compagnia c’era una bottiglia da un litro, ormai quasi del
tutto prosciugata. L’uomo era alto e secco, con la pelle scura e con arti
smisuratamente lunghi. Portava sempre, sia in estate che durante l’inverno, un
cappello di paglia calato sugli occhi. E fumava soltanto le sue sigarette,
quelle che si fabbricava personalmente utilizzando un tabacco molto forte. Gelu
non aveva un lavoro stabile. Spesso aiutava l’uno o l’altro del paese, facendo
l’agricoltore, il boscaiolo oppure il manovale nell’edilizia. Quel poco che
guadagnava gli bastava per vivere perché le sue esigenze erano veramente
minime. Non si era mai sposato e non aveva figli, mangiato lui mangiato tutti.
La sua passione era la raccolta dei funghi. Era un autentico specialista,
conosceva tutti i luoghi migliori e non li rivelava mai a nessuno. Si sarebbe
di sicuro portato quei suoi segreti nella tomba. Durante la stagione adatta non
si recava a funghi con un cestino o una piccola sporta, come facevano tutti gli
altri raccoglitori. No, lui ci andava con un carretto, che quasi sempre
riusciva a riempire. Poi lo attaccava alla sua vecchia bicicletta e portava
quei bellissimi funghi ad amici e conoscenti e non accettava mai denaro in cambio
di quel ricco e saporito dono. Al più accettava qualche bicchiere di vino, per
smorzare quella sete che sempre lo affliggeva.
“Gelu! Ti vuole
Magnìn!” gridò Albino dalla soglia della sua edicola-osteria.
L’altro annuì con un
cenno impercettibile del capo, perché era un tipo di poche parole, scolò
l’ultimo bicchiere e poi si alzò, dopo essersi spolverato i suoi soliti
pantaloni blu da lavoro. Si presentò al cospetto di Magnìn.
“Si può sapere che
lavoro devi fare?” chiese per l’ennesima volta Dolfo, rivolto al figlio dello
stagnino. Il camionista era più curioso di una gazza. L’altro ancora una volta
non rispose ma parlò direttamente a Gelu.
“Ti va di darmi una
mano a pulire un camino?”
“Pronti” rispose l’uomo
dalle lunghe braccia con la sua voce bassa e nasale.
“Bene, andiamo a
prendere la moto”. I due uscirono, entrambi un po’ traballanti.
Gelu si accomodò sul
sellino posteriore ma le sue gambe erano talmente lunghe che toccavano terra.
Non sapeva proprio dove metterle. Un vero problema che tuttavia non angustiò
Magnìn più di tanto. Disse all’amico di sistemare quelle appendici infinite
sulle sue spalle, mise in moto scalciando come un forsennato e partì come una
furia facendo impennare la sua Itom Sirio di colore rosso fiammante. Gelu, in
effetti, stava un po’ scomodo ma non si lamentò. Non lo faceva mai, accettava
qualsiasi cosa con pazienza e rassegnazione.
Il centauro e il suo aggrovigliato
passeggero giunsero a destinazione in un attimo. Magnìn, come sempre, aveva
tirato il collo alla sua moto che però aveva risposto alla grande. I due
smontarono e il figlio dello stagnino suonò il campanello di una graziosa
villetta.
Li accolse una donna
ancora giovane, vestita con un leggero abito di cotonina.
“Camino” si limitò a
pronunciare Magnìn. Quando si trovava di fronte una donna era sempre in
difficoltà. E ancora di più se la femmina era piacente, come in questo caso. Si
sa, le donne portano soltanto guai, e più se ne sta alla larga più si vive
tranquilli. Magnìn aderiva in pieno a tale filosofia, e costituiva la ragione
principale per la quale non si era mai sposato.
“Come?” domandò la
signora aprendo il cancello.
“Pulire. Camino”
bofonchiò Magnìn. Gelu, da parte sua, si era calato ancora di più il cappello
sul viso, tanto che di lui si intravedeva solo la punta del naso pronunciato e
la sottile striscia delle labbra. Quell’uomo lì era molto timido.
“Ah! Prego, entrate” li
invitò la donna. I due ubbidirono. Magnìn, dopo l’iniziale esitazione, ritrovò
a poco a poco l’abituale baldanza.
“C’è dell’acqua?”
domandò alla donna con un sorriso furbo.
“Acqua?”
“Intendo dire acqua
corrente. Tipo un fosso o qualcosa del genere.”
“C’è un piccolo canale
che scorre sul retro della casa…”
“Perfetto” disse
Magnìn. Poi tornò verso la moto. Frugò in una delle capienti sacche laterali ed
estrasse un bottiglione di vino da due litri. Di corsa si diresse verso il
luogo che gli era stato indicato e mise a mollo la bottiglia assicurandola a un
pezzo di spago. In tal modo sarebbe stata al fresco. Poi tornò da Gelu, che nel
frattempo era rimasto immobile di fronte alla cliente. Sembrava una statua.
“Cominciamo” disse
Magnìn all’aiutante.
“Ma… e gli attrezzi?”
obiettò la giovane signora.
“Quali attrezzi?”
“Non so… la scala, e il
resto. Oppure intendete salire sul tetto passando dall’interno?”
“Noi non entriamo mai
in casa. Non vogliamo sporcare” disse Magnìn, quasi offeso. Gelu annuì.
“E come farete a
salire?”
“Non c’è problema”
rassicurò la donna il figlio dello stagnino. Aveva adocchiato un grosso tiglio
in prossimità di un angolo dell’edificio. Lo indicò all’amico.
“Forza Gelu, inizia ad
andare su.”
L’altro non se lo fece
ripetere. Abbracciò il tronco e in un attimo fu quasi in cima all’albero. Fece
un piccolo balzo e fu sul tetto. Peggio di una scimmia. Magnìn ebbe qualche
difficoltà in più. Il fusto era molto largo e lui non disponeva di lunghe leve
come quelle dell’amico. Si bloccò ed estrasse una sigaretta da un pacchetto
sgualcito. Lisciò bene la cicca con le dita nodose, l’accese e poi, fumando
come una ciminiera, riuscì finalmente ad arrampicarsi. I due spazzacamini
improvvisati si ritrovarono così sul tetto. Le tegole erano roventi ma,
nonostante ciò, Gulu si era sfilato gli scarponi e camminava a piedi nudi.
Piedi le cui piante erano più spesse del cuoio. La donna li guardava dal basso
non nascondendo una certa apprensione. Dopo poco più di cinque minuti Magnìn e
il suo strano aiutante ridiscesero.
“Avete dimenticato
qualcosa? C’è qualche problema?” domandò loro la signora.
“Non si preoccupi,
tutto a posto” la tranquillizzò Magnìn. Poi, seguito come un’ombra da Gelu, si
diresse verso il fosso. Si passarono più volte il bottiglione, ingollando
enormi sorsate di nettare, che stava iniziando a rinfrescarsi. Quindi, sotto lo
sguardo strabiliato della giovane donna, risalirono sul tetto. Magnìn aveva
approfittato della pausa ristoratrice per andare a recuperare nelle capienti
sacche della moto un rotolo di corda. Se lo portava sempre dietro. Sudati e ansimanti
i due soci ripresero, o meglio cominciarono, il loro lavoro.
“Ascolta, Gelu” disse
il figlio dello stagnino. “Visto che sei magro ti calo nel camino con la fune e
tu cerca di pulire come puoi. Usa le mani, i piedi o cosa preferisci.” Gelu
annuì, serio. Aveva capito che cosa doveva fare. Magnìn legò alla vita
l’aiutante e lo calò lentamente nella canna fumaria. Dentro a quel budello il
caldo era infernale e poi c’era polvere, tanta polvere. Non erano presenti
grosse incrostazioni ma tanta fuliggine nera in sospensione. Gelu, mentre
tentava affannosamente di pulire, ne aspirò una boccata. Era meno pesante del
suo tabacco, considerò. Alla fine giunse alla base del caminetto. Udì la voce
soffocata dell’amico.
“Riesci a resistere
qualche minuto prima che ti tiri su? Mi è venuta una sete incredibile! Gelu
mugugnò qualcosa, che Magnìn scambiò per una approvazione. Allora scese
velocemente dal tetto, si scolò mezzo bottiglione di vino, che ora era
piacevolmente fresco, e poi risalì sulla copertura con una certa fatica.
Cominciava a vedere doppio e triplo. Afferrò il capo della fune, dopo averlo
slegato dal punto dove l’aveva assicurato, e iniziò a tirare con forza. Con
troppa forza. Fece un movimento brusco e inciampò su una tegola sconnessa.
Scivolò giù dal tetto sempre reggendo la corda tra le mani. In basso la donna
lanciò un urlo. Magnìn cadde nel vuoto, al rallentatore. A mano a mano che il
figlio dello stagnino scendeva, dall’altra parte, dentro la canna fumaria, Gelu
iniziava a risalire, facendo in tal modo da contrappeso. Magnìn si posò lentamente
a terra, cadendo in piedi, proprio come i gatti. L’amico si ritrovò invece in
cima al camino. Nel risalire aveva dato suo malgrado un’altra buona ripassata
alle pareti della canna fumaria, che adesso era bella pulita. Un ottimo lavoro,
considerò l’uomo dai lunghi arti. Si slegò la corda e scese a terra a sua
volta. Si piazzò di fianco all’amico, orgoglioso.
“Ecco, abbiamo finito”
stava dicendo Magnìn alla donna, che in volto aveva ancora un’espressione
sconvolta e quasi non riusciva a parlare. Poi, constatando che entrambi i
lavoratori godevano di buona salute, finalmente riuscì a calmarsi. Si rivolse a
Gelu.
“Signore, vuole darsi
una ripulita?”
Gelu la guardò con aria
interrogativa.
“La signora sta dicendo
che sei un po’ sporco” tradusse Magnìn.
“Sono sporco?” chiese
Gelu.
Magnìn lo squadrò bene,
poi scrollò le spalle.
“Soltanto un po’ di
polvere” disse. “Andando in moto andrà via”. Gelu era completamente annerito.
Di lui si intravedeva soltanto il bianco degli occhi.
La donna si apprestò a
pagare i due per il lavoro svolto.
“Mi fate la fattura
oppure…”
“Mica siamo dei maghi”
bofonchiò Gelu. Magnìn lo zittì con uno sguardo torvo e poi scosse il capo. La
donna comprese ed estrasse dal borsellino alcune banconote. Lui prese il denaro
e ne diede subito la metà all’amico che lo ficcò in tasca. I biglietti si
annerirono all’istante, ma per bere qualche volta sarebbero andati bene lo
stesso. Sicuro.