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giovedì 28 luglio 2011

PARADISO



Sono morto. È così, ne sono sicuro. Non ho mai creduto in una vita oltre la vita, ho sempre pensato che con la fine dell’esistenza tutto terminasse, invece non è vero. Sono morto, eppure continuo a vivere. Certo, le sensazioni sono diverse. Ad esempio, non chiedetemi se sono giovane o vecchio, perché non saprei rispondere. Né in che luogo mi trovo, dal momento che non lo saprei descrivere. È difficile rappresentare il nulla. Esisto, e basta. Cammino, anzi, mi sposto in questo spazio indefinito, ma attorno a me non c’è niente e nessuno. Mi trovo forse in Paradiso? E chi lo sa com’è veramente il Paradiso? Qualcuno di voi l’ha forse visto? In ogni caso mi sento bene, avvolto da una condizione di pace e beatitudine. Me la godo, per adesso, la assaporo, visto che non ho la più pallida idea di ciò che mi aspetta. In fondo, non sarebbe affatto male continuare così. Se davvero si tratta del Paradiso, vi garantisco che non è per niente male.
A un tratto, però, qualcuno mi sbarra la strada, se di strada si può parlare, naturalmente. Vedendolo di fronte a me sorrido, poiché si tratta di una creatura che ben conosco, che non temo, che non mi spaventa. Piuttosto mi sorprendo quando mi rivolge la parola.
“Sono qui per darti il benvenuto” dice, con gentilezza.
“Dove sono?” domando, d’impulso, perché è questa la mia vera curiosità.
“Non lo sai?”
“No, non lo so. So di essere morto, nient’altro.”
“Hai perfettamente ragione, ma tu non devi chiederti dove sei, bensì come ti senti, allora avrai la risposta.”
“Non mi sono mai sentito così bene. Sono forse in Paradiso?”
Lui ride, una risata gutturale, profonda.
“Visto?” dice, hai indovinato.
“E tu chi sei, allora? Il guardiano?” ribatto, curioso.
“No, assolutamente. Qui non c’è bisogno di guardiani.”
“Un aiutante o qualcosa del genere?” azzardo.
Altra risata. Simpatico, il tipo.
“No, io sono io. Sono tutto. Sono l’unico” dice, misterioso.
Sarà perché mi trovo in Paradiso, o chissà per quale altro motivo, comunque la mia mente si apre all’improvviso e allora comprendo tutto.
“Tu sei Dio!” esclamo.
Stavolta lui non ride, per fortuna, ma si limita ad annuire, solenne.
“Lo sapevo che c’era la fregatura!” dico. “Dunque, devo ancora essere giudicato, e tu stai per farlo, esatto?”
“No, ti sbagli. Tu sei già stato giudicato, tutto è già stato deciso. Tu starai qui con noi, per sempre.”
“Con noi?”
“Certo, dopo vedrai tutti gli altri.”
“Sono stato ritenuto idoneo?”
“Avevi dei dubbi, forse? A tuo riguardo, io non ne ho mai avuti. La tua esistenza è stata positiva.”
“Ho commesso degli sbagli…” accenno, titubante.
“Chi non ne commette? Non temere, si tratta di piccole mancanze, tipiche degli esseri della tua specie.”
Non capisco.
“La mia specie, hai detto? Vuoi dire che qui incontrerò creature di tutte le specie?”
Mi guarda, divertito.
“Ti stupisci? Non lo sai che per me tutte le creature sono uguali?”
“Certo, certo” mi affretto a dire. Non vorrei mai che cambiasse idea nei miei confronti.
Dio scuote il capo, paziente.
“Non mi chiedi nulla?” domanda.
“Eh?”
“Il mio aspetto, non ti sorprende?”
Decido di essere sincero. D’altra parte, lo sono stato per tutta la precedente vita.
“Si, mi stupisce molto. Tuttavia, non osavo domandarlo” dico. “Queste sono le tue sembianze normali? Tu sei un…”
“Sì, lo sono” risponde.
Rifletto.
“Ho sempre pensato che gli esseri umani fossero stati creati a tua immagine e somiglianza” dico.
“Esseri umani? Che cosa c’entrano gli esseri umani? Per me voi siete soltanto alcune delle creature che ho plasmato. E tra loro ci sono pure, come hai detto tu, quelle forgiate a mia immagine e somiglianza.”
“Vuoi forse dire che…”
“Conosci forse creature più perfette? Che danno amore senza chiedere nulla in cambio? Così disinteressate, leali, buone e generose?”
Fingo di pensare un attimo, ma in realtà conosco bene la risposta.
“No, non ne conosco altre” dico infine.
“Esatto. Vedi, io utilizzo quelle creature, quelle simili a me, per mettere alla prova le altre, ma in particolare il genere umano. Chi rispetta e ama la diretta emanazione di Dio, cioè quegli esseri, si guadagna il Paradiso. Tu lo hai sempre fatto, nel corso di tutta la tua esistenza, dando prova di grande bontà, e per tale ragione adesso ti trovi qui. In fondo, è semplice, no?”
Non ho parole. Chi l’avrebbe mai detto? Però mi rendo conto che Dio ha ragione. Dopotutto, come potrebbe non averla?
Lo guardo, dall’alto in basso. Sono commosso, e orgoglioso di me stesso. Seppure in modo inconsapevole, ho superato la prova, e d’ora in poi vivrò sempre tra le delizie del Paradiso.
“Rinnovo il benvenuto e ti saluto” dice Dio. “Mi auguro che ti troverai bene in questo luogo di pace eterna.”
Subito dopo mi porge una zampa, che io stringo, ancora scosso e intenerito.
Poi Dio si allontana agitando la coda.


   

sabato 23 luglio 2011

IL DONO



Mario mi invita a fare un giro sulla sua vecchia macchina. Mi piace andare in macchina, allora accolgo con gioia il suo invito e salto sul sedile anteriore e mi siedo. Partiamo, e lui non dice una sola parola. È teso, concentrato sulla guida. Fa molto caldo, per fortuna i finestrini sono abbassati e all’interno dell’abitacolo penetra un po’ d’aria fresca. Percorriamo una strada che non conosco. Dopo un po’ imbocchiamo una via grande, a più carreggiate, che prima d’ora non avevo mai visto. Ci sono tante altre auto, molti camion, e Mario guida veloce. All’inizio ho paura, il vento mi sferza il naso, ma poi mi rilasso. Dopo più di mezz’ora l’autovettura rallenta e poi si arresta in un ampio spiazzo. Intorno a noi c’è molta confusione, anche se da un piccolo edificio che sembra molto affollato proviene un buon odore di cibo, misto però a vapori di benzina. Per me è tutto nuovo, non sono mai stato prima in questo posto. Mario scende lasciando la portiera aperta e, quando vedo che si accende una sigaretta, esco anch’io. So di avere almeno cinque minuti di tempo, conosco molto bene le sue abitudini, e allora inizio a gironzolare un po’. Mi domando ancora una volta dove siamo diretti, ma poi non ci penso più e mi concentro su ciò che mi circonda. L’ambiente è interessante, tuttavia ho molto caldo, e soprattutto tanta sete, quindi dopo un paio di minuti decido di tornare verso l’auto. La macchina, però, non c’è più. Disorientato, attonito, spaventato, guardo verso la strada trafficata, e intravedo la sua, la nostra, autovettura che si sta allontanando. Vorrei correre, come so fare molto bene, e inseguirla, farmi sentire, ma non ci riesco. I miei muscoli sono come di pietra, una sensazione di freddo invade il mio corpo. Non mi muovo, disperato. Poi una mano mi tocca e mi fa sussultare. Una ragazza, dai lunghi capelli neri, che ha assistito a tutta la scena, mi incita a salire sulla sua auto. Subito oppongo resistenza, cerco di stare incollato a terra, mi rifiuto con tutte le mie forze. Poi cedo all’improvviso, rassegnato. Sono confuso, privo di energia e di volontà. Cedo. Non mi è mai accaduta prima d’ora una cosa del genere, non sono mai stato solo, e non so come affrontare una tale tremenda situazione. La ragazza si avvia nella stessa direzione di Mario. All’interno della macchina c’è un odore nuovo per me, diverso dal solito, dolce ma gradevole. Non so che cosa fare, non so come comportarmi, non riesco a controllare il tremito di paura che mi sta assalendo. Chiudo gli occhi, e li riapro soltanto quando ci fermiamo. Con mia grande meraviglia, vedo che siamo nel cortile di casa mia. In fondo c’è Mario, che sta trafficando con la porta del garage. La ragazza scende, con piglio deciso, e va verso di lui. Sembra molto arrabbiata, lo capisco dall’odore del suo sudore. Il mio sesto mi dice che non devo uscire, anche perché vedo negli occhi di Mario una luce strana, insolita, che mi fa paura. Mentre discute in maniera animata con la ragazza, i suoi lineamenti sono stravolti, accompagna le sue parole con gesti vivaci, ma a me non sfugge il pallore del suo volto. Riesco a carpire alcuni frammenti di conversazione. La ragazza lo accusa di qualcosa, ne sono certo. Immobile, punta il dito indice contro di lui e pronuncia parole come bastardo, vergognati, delinquente. Non so quale sia esattamente il loro significato, ma di sicuro sono termini brutti. Lui scuote il capo, in un atteggiamento difensivo che non riconosco e continua a ripetere: “Si sbaglia, non è mio. Non è mio! Sene vada!” Non sembra più lui, è come se si fosse trasformato in un’altra persona. Non l’avevo mai visto così. Oppure, rifletto, qualcosa mi ha sempre impedito di vederlo? Il mio amore per lui, ad esempio? In ogni caso, io non scendo.
Le mie amare considerazioni sono interrotte di colpo. La ragazza sta tornando. Prima di salire in macchina, si volta ancora una volta in direzione di Mario.
“Grazie per il dono!” grida. Lui abbassa il capo.
Lei, ancora furiosa, mette in moto e riparte sgommando. Dopo un po’ si volta verso di me. Non sembra più adirata. Sorride, stacca una mano dal volante e comincia ad accarezzarmi. Io la guardo. Comprendo che per me sta per cambiare tutto e che dovrò abituarmi a tante cose nuove. Soltanto una cosa rimarrà uguale: continuerò a dispensare amore, affetto, attaccamento e riconoscenza. Non posso farne a meno.
Adesso non ho più paura.
Appoggio il muso sulla sua coscia e memorizzo bene il suo odore.

AVVERTENZA
Vicende di questo genere non hanno quasi mai un lieto fine. Il loro epilogo è spesso tragico.
Condanna assoluta nei confronti di qualsiasi crudeltà commessa su animali.
Riprovazione estrema verso chi le compie.

sabato 16 luglio 2011

LA DURA LEGGE DEL MERCATO



La maxi-manovra economica (quella che non era necessaria) è stata appena approvata. Si parla di 70, 80 o 90 miliardi di euro spalmati nei prossimi tre anni, in realtà l’effettivo impatto quantitativo nessuno è ancora riuscito a determinarlo con certezza. Quel che invece è sicuro è che l’insieme delle misure – approvate in tutta fretta dal Parlamento in nome di una pelosa coesione nazionale, ma in sostanza dettate dall’estrema emergenza – colpiranno in maniera devastante soprattutto i ceti medi, rendendoli più deboli, e i ceti meno abbienti, rimpolpando in misura consistente la fascia dei nuovi poveri. Avremo così la reintroduzione di pesanti ticket sanitari, la rimodulazione dell’IVA, la rettifica verso il basso di tutte le detrazioni, quelle per lavoro dipendente, per i figli a carico e per gli studi degli stessi e per le loro attività sportive, quelle sui mutui. Diminuiranno le deduzioni per le opere di ristrutturazione e sugli interventi per il risparmio energetico. Tutto ciò provocherà un inevitabile aumento dell’IRPEF, che si abbatterà come un macigno sulle famiglie. La prima immediata conseguenza sarà un’ulteriore riduzione dei consumi, già in fase di contrazione da anni, con l’effetto di rallentare ancor più  - o addirittura di bloccare del tutto – la crescita. Meno consumi, bassa o nulla crescita, nessun investimento.
Naturalmente i costi della politica rimarranno invece gli stessi. E gli sprechi, quelli veri, rimarranno immutati. La casta prosegue l’opera di autoprotezione.
Tutto questo è stato fatto per fronteggiare la speculazione che, come aveva già fatto con paesi come Irlanda, Spagna, Portogallo e soprattutto Grecia, stava minacciando il nostro Paese.
Che cosa si intende esattamente per speculazione? Al di là di fantasiose e irreali raffigurazioni – ciniche e oscure persone in bombetta che manovrano e decidono il destino del mondo – la speculazione non è altro che una delle possibili, automatiche, incontrollabili azioni di quell’entità definita come mercato. Nessuno, quindi, stabilisce a priori l’obiettivo da colpire, la nazione da aggredire, bensì è lo stesso intero mercato che, intuendo attraverso complessi meccanismi di carattere economico-finanaziario e non solo, le difficoltà di questo o quel paese, vi si avventa con il proposito di nutrirsene. Una semplice legge di natura, dalla quale ci si può proteggere attraverso l’istituzione e il consolidamento di una serie di regole condivise (attualmente assai labili) e perseguendo la maggiore stabilità politica possibile, associata alla credibilità e alla autorevolezza della classe di governo.
Riguardo a quest’ultimo aspetto, è opportuno ricordare che il nostro paese era rappresentato, dai politici con responsabilità di governo, non più di alcune settimane fa, come una spensierata barca da diporto veleggiante in un mare calmo e tranquillo. Adesso, all’improvviso, è diventato il Titanic sull’orlo del naufragio. Nel mezzo, tra l’una e l’altra immagine, nessuna spiegazione, e specialmente nessuna ammissione di responsabilità ma soltanto un rassicurante (di nuovo?) “l’Italia è salva!” Può essere, ma per quanto tempo? Sei mesi? Un anno? Due?
È difficile rispondere a questa domanda, soprattutto nel momento in cui al cupo pessimismo degli ultimi tempi pare subentrare un altrettanto fosco senso di rassegnazione.
Sì, forse abbiamo finalmente aperto gli occhi, ma è comunque troppo tardi.
Buon disastro a tutti.

venerdì 15 luglio 2011

SPECULATORI



La strana creatura era seduta dietro a una grande scrivania e aveva gli occhi incollati allo schermo del computer, sul quale scorrevano in maniera incessante cifre e grafici. Indossava una marsina nera, un po’ logora sui gomiti, e un alto cappello a cilindro. Il suo volto era irsuto; dai lati del naso, color rosa chiaro, partivano lunghi e impalpabili baffetti. Le labbra, sottili, lasciavano intravedere grossi denti gialli. Visto da lontano, pareva un grosso ratto.
“Bene, bene. Ci siamo” mormorò tra sé, con evidente soddisfazione. Subito dopo azionò un campanello.
Dopo alcuni secondi si materializzò nelle stanza un altro individuo. Rispetto al primo era più basso di statura, e anche più magro, con il volto affilato. Aveva uno sguardo astuto e pure lui indossava un abito scuro e l’immancabile cilindro calcato sul capo, che a stento nascondeva le enormi orecchie.
“Sai bene perché ti ho convocato. Inutile negarlo, il massimo esperto riguardo allo Stato che stiamo attualmente monitorando sei tu. Lo hai seguito con attenzione negli ultimi vent’anni, giorno dopo giorno, e sarai di sicuro in grado di rispondere alle mie domande. Naturalmente ho già esaminato la tua relazione, ampia, precisa ed esaustiva, tuttavia vorrei poter chiarire direttamente con te gli ultimi dubbi che ancora mi assillano.”
L’altro non disse nulla. Si limitò ad annuire e ad abbozzare un rispettoso inchino.
“Partiamo, come sempre, dalla situazione economica e finanziaria.”
“Disastrosa, capo.”
“Come?”
“Ho detto che è senza speranza. Il debito pubblico di questo disgraziato Stato corrisponde al venticinque per cento dell’intero indebitamento europeo. Inoltre, non c’è crescita, il PIL ristagna. Tutto è fermo, il sistema industriale, per prima cosa, ma pure tutte le altre attività, dal commercio agli altri servizi, all’agricoltura.”
“Agricoltura? Mi raccomando, risparmiami la barzelletta sulle quote latte. Ormai è vecchia.”
“D’accordo, capo. In effetti la stavo proprio per raccontare, mi ha fermato appena in tempo. E che dire poi della disoccupazione? Sta aumentando a un ritmo entusiasmante. Cinquantenni che perdono il posto lavoro e che non lo ritroveranno mai più, il trenta per cento dei giovani che non ha mai svolto alcuna attività, il numero dei precari, in tutti i settori, in deciso ed eccitante aumento.”
“Ottimo, ottimo.”
“Interi territori della nazione sono controllati dalla criminalità organizzata, che fattura miliardi  e riesce, tramite infiltrazioni, a condizionare le scelte politiche soprattutto a livello locale.”
“Benissimo. Tuttavia quella manovra finanziaria che è stata approvata ci ha reso un po’ inquieti. Si tratta di una cosa seria?”
“Assolutamente no, capo. Possiamo stare tranquilli.”
“È iniqua al punto giusto?”
“Certamente! Colpisce con precisione chirurgica le fasce più deboli, e le impoverisce sempre di più. Tra poco milioni di cittadini potranno essere considerati indigenti. E la cosa più importante, fondamentale direi, è che si tratta di un intervento perfettamente inutile! Tra breve tempo occorrerà intervenire di nuovo. O forse non sarà più necessario…”
“Sono stati abbattuti i costi della politica? Sai, negli ultimi tempi ne hanno parlato molto e noi ci siamo un po’ preoccupati.”
“Appunto, capo. Quando si parla troppo di qualcosa poi non si fa nulla.”
“Perfetto. Come ben sai, operazioni del genere, cioè la riduzione di sprechi, posseggono un alto valore simbolico. I cittadini, di solito, ne rimangono favorevolmente impressionati.”
“Non c’è pericolo, capo.” Il secondo individuo sogghignò, compiaciuto. “I cittadini di cui lei parla sono completamente narcotizzati, incapaci di reagire. Se mi permette, oserei dire che sono dei veri citrulli.”
“Buon per noi. Passiamo ora a valutare il livello di stabilità e di credibilità politica. Sai quanto sia importante questo aspetto; è ciò che ci spinge, in ultima analisi, ad agire oppure a rinunciare. Allora, che cosa mi puoi riferire a tale riguardo?”
L’altro, a queste parole, appoggiò le mani sul ventre, poi cominciò a sussultare sempre di più, si buttò a terra e iniziò a rotolarsi da una parte all’altra dell’ufficio. Infine non riuscì più a trattenere la fragorosa e liberatoria risata.
“Insomma! Un po’ di contegno!”
“Scusi, capo, ma la sua domanda è troppo divertente! Proprio non riesco a resistere…”
E riprese a sghignazzare ancora più forte, senza alzarsi da terra.
“Il Presidente del Consiglio….”
“No! No, per favore no! Non lo nomini o finirò con il farmela addosso dalle risate!”
“Neppure il ministro dell’Economia…”
“Capo, per favore! La smetta o morirò dal ridere!”
“D’accordo, credo di aver capito. Il quadro è piuttosto chiaro però adesso per favore smettila e riacquista la posizione eretta.”
“Chiedo scusa, capo.”
“Scuse accettate.”
“Che facciamo, allora?”
Il primo individuo rifletté un breve istante. Poi annuì.
“Vado?”
“Sì, puoi scatenare l’orda.”
“Non rimarrà più nulla di quello stupido paese.”
“No, non rimarrà più nulla. Finirà spolpato a dovere.”
“Evviva!”



mercoledì 13 luglio 2011

VACANZA DA SOGNO



Aveva trascorso giorni interi chino sul computer e poi nelle agenzie di viaggio, e alla fine l’aveva trovata: la grande offerta, l’offerta irripetibile. Certo, si trattava di una proposta un po’ singolare, di sicuro non attraente per tutti, ma per lui era comunque il massimo. Lui badava a una cosa soltanto, il prezzo, che doveva essere assolutamente irrisorio, e quell’offerta soddisfaceva in pieno tale fondamentale requisito. Rimaneva un ultimo importante problema. Le risorse a disposizione avrebbero permesso a una sola persona della sua famiglia di andare in vacanza, e la scelta si presentava ardua. Tuttavia, i suoi familiari erano stati irremovibili: toccava a lui, che per tutto l’anno aveva lavorato duramente, aveva fornito loro i mezzi di sussistenza, si era spremuto quotidianamente. Non c’erano state discussioni: tutti erano stati concordi nel ritenere che il meritato periodo di riposo toccasse proprio a lui. Dopo alcune iniziali ritrosie, aveva accettato, e i suoi cari ne erano stati ben felici. E adesso il giorno della partenza era finalmente arrivato.
Si alzò presto, fuori era ancora buio. Con la sua piccola borsa tra le mani saltò sul primo bus della giornata, poi prese il treno per l’aeroporto. Alle sette era già sul velivolo, pronto, con la cintura allacciata. Due ore di volo, non di più, e già era arrivato nell’isola, quell’isola che da sempre aveva desiderato vedere. Uscito dal terminal, si guardò attorno, spaesato, poi riuscì a individuare la navetta che conduceva verso gli alberghi e, soprattutto, verso le spiagge di sabbia dorata, la sua vera meta. Alle dieci era già in hotel. Sulla sistemazione non aveva badato a spese. L’edificio era sontuoso, posto a pochi passi dal mare. Uno stupendo giardino, con grandi fontane, la piscina, ed enormi palme dappertutto. La camera era spaziosa, arredata con gusto, dotata di tutte le comodità immaginabili. Al suo interno, però, non vi rimase a lungo. Indossò in tutta fretta il costume e raggiunse la spiaggia. Si godette il sole brillante, si rotolò entusiasta sulla rena che si scaldava sempre di più e, alla fine, si gettò in acqua, in quell’acqua trasparente come il cristallo. Nuotò, si immerse, rimase immobile sulla superficie e solo dopo molto tempo uscì dal mare. Si stese al sole ad asciugare, contento come non mai. Tuttavia il tempo passava in fretta, si avvicinava l’ora del pranzo. Raccolse l’asciugamano e, seppure a malincuore, ritornò in albergo. Una rapida doccia e poi si precipitò nella sala da pranzo. Rimase incantato. C’erano lunghi tavoli ricolmi di cibo di tutti i tipi. Rimase un attimo interdetto, poiché non sapeva da dove iniziare. Dopo un po’ si decise e iniziò a riempire piatti su piatti. Fu un’autentica abbuffata. Satollo, intontito per il troppo cibo, salì in stanza. Adesso faceva molto caldo. Si sdraiò sul letto e regolò l’aria condizionata al massimo. Per un attimo pensò all’esausto ventilatore di casa sua, che non faceva altro che spostare l’aria calda. Poi si addormentò. Si svegliò di soprassalto dopo poco più di mezz’ora. Si alzò di scatto, non poteva perdere tempo. Sotto i raggi implacabili del sole tornò in spiaggia. E di nuovo ci furono innumerevoli e fantastici bagni in quell’acqua magica, seguiti da attimi di riposo su quella sabbia incredibilmente fine. Quando guardò l’orologio vide che si era fatto tardi. Tornò di corsa all’hotel e replicò l’incredibile mangiata di mezzogiorno. Poi, affannato, andò a preparare la valigia. Anzi, la piccola borsa. Uscì dall’edificio e si catapultò in strada, dove si concesse una spesa pazza: fermò un taxi e si fece condurre in aeroporto. Ormai aveva i minuti contati. In pratica, riuscì a salire al volo sull’aereo. Stravolto dal caldo e dall’agitazione, si appisolò quasi subito. Si sveglio poco prima dell’atterraggio. Rifece a ritroso il percorso del mattino. Prima il treno, poi l’autobus. Quando arrivò alla sua abitazione era quasi mezzanotte. L’appartamento, che sembrava un forno, era silenzioso. Ormai stanchissimo, crollò sul letto, accanto a sua moglie che stava russando. Il suo ultimo pensiero fu che, nonostante la crisi economica, il giorno dopo, alla ripresa del lavoro, avrebbe potuto raccontare ai colleghi la sua vacanza da sogno, suscitando la loro invidia. 

venerdì 8 luglio 2011

MONDO OPACO



“Di là! Di là! Presto!”
“Dove?”
“Seguitemi!” dice l’uomo, con voce stridula.
E poi inizia a correre. Affannato, sudato, ormai boccheggiante, con gli abiti scomposti, si dirige verso una bassa siepe, seguito da alcuni uomini in divisa, armati di tutto punto.
“Dove?” ripete uno di loro, forse il comandante, con tono imperioso.
“Dietro” ansima l’uomo. “Proprio dietro la siepe!” E prosegue la corsa.
“Fermo lì! Non muoverti!” ordina l’agente.
“Eh?” dice l’uomo, arrestandosi.
In un attimo è circondato. Il comandante si avvicina. Indossa un casco con la visiera calata, è impossibile vedere il suo volto.
“Hai guardato l’oggetto? Hai guardato nell’oggetto?” domanda con decisione.
L’uomo impallidisce, comprende l’enormità dell’accusa, sul suo viso si disegna una smorfia angosciosa.
“No! Vi giuro di no! L’ho soltanto intravisto. Ho fatto il mio dovere di cittadino e vi ho subito chiamato. Non c’entro nulla…
La sua voce poco per volta si spegne, si trasforma in un lamento.
Il comandante fa un cenno a uno dei suoi uomini. Scattano rapide un paio di manette. L’uomo inizia a piangere.
“Ti accompagneremo in ufficio per i necessari accertamenti. Se sarà assodato che non hai nulla a che fare con l’oggetto sarai subito rilasciato. In caso contrario…”
Il comandante ha parlato con tono piatto ma le sue parole sono comunque parse minacciose.
L’uomo si accascia gemendo. Due agenti lo sostengono.
“Portatelo via!” intima il comandante. “E poi procedete” aggiunge.
Un agente si avvicina con cautela alla siepe, la aggira. Tra le mani ha una lunga pertica, alla cui estremità sono fissate delle dita meccaniche. Un altro agente lo segue reggendo un piccolo sacco nero aperto. Dopo qualche tentativo andato a vuoto, l’oggetto viene finalmente recuperato e gettato nel contenitore, che è subito immediatamente sigillato. L’uomo che regge il sacco indossa una visiera completamente nera che gli impedisce di vedere. La solleva soltanto quando l’operazione è conclusa.
“Bene” dice il comandante, soddisfatto. “Possiamo andare.”
Una piccola folla ha assistito alla scena. Tra loro, un vecchio e un bambino.
“Nonno, che cosa è successo?” chiede il bambino.
“Sembra che abbiano trovato un oggetto” risponde il vecchio, pensieroso.
“Uno di quelli?”
“Sì, proprio uno di quelli proibiti.”
“Che cosa faranno a quell’uomo? Quello che hanno portato via.”
“Non lo so. Dovrà dimostrare che non ha guardato dentro l’oggetto. Se non ci riuscirà finirà in carcere, per sempre.”
“È terribile!”
“Già. Ma vedrai che se la caverà.”
“Spiegami di nuovo perché gli oggetti sono proibiti” dice il bambino.
Il vecchio sospira.
“Vedi, è accaduto tutto quando io avevo quasi la tua età.  In quel tempo la vanità dominava il mondo.”
“Che cos’è la vanità?”
“L’essere vuoti, frivoli, compiacersi di sé stessi, della propria apparenza. Hai capito?”
“Sì… E allora?”
“Si decise di eliminarla, rimuovendone la fonte principale” dice il vecchio.
“Quale?”
“Gli specchi e tutto ciò che poteva riflettere la nostra immagine.”
“Gli specchi! Nonno, se io guardassi dentro a uno specchio potrei vedere come sono fatto?”
“Sì. Ma ciò sarebbe la tua immediata rovina, anche se la polizia non lo scoprisse.”
“Perché” domanda il bambino.
“Tu non ne hai bisogno. Te lo posso dire io come sei fatto. Hai il viso tondo, le guance paffute, gli occhi chiari e i capelli biondi.”
Il bambino guarda il nonno, perplesso.
“Non è la stessa cosa…”
“È più che sufficiente, credimi.”
“Tu non ti sei mai visto in uno specchio?” chiede il bambino.
Il vecchio si guarda attorno, circospetto, poi abbassa il tono di voce.
“Sì, quando ero molto piccolo. Ma non me ne ricordo quasi più. E poi credo di essere molto cambiato da allora. Ed è bello non sapere come sono diventato.”
“Se vuoi te lo posso dire io…” dice il bambino, titubante.
Il vecchio inaspettatamente scoppia a ridere.
“Tu? E che cosa mi diresti? Che ho perso quasi tutti i capelli e che i pochi rimasti sono bianchi? Che la mia pelle è arida e rugosa? Che il mio naso è rosso e bitorzoluto? E i miei occhi spenti?”
Il bambino lo osserva, stupito. Scuote la testa.
“No, ti direi che sei un bel nonno.”
“Sul serio?” chiede il vecchio.
“Certo!”
“Tu sei il mio vero specchio!”



lunedì 4 luglio 2011

L'ABITO GRIGIO



Anche se era trascorso tanto tempo, si ricordava ancora bene il vecchio sarto che lo aveva tagliato e cucito. Un ometto smilzo, completamente calvo, con un paio di occhialini tondi sempre calati sul naso e il metro attorno al collo. E tuttora rammentava il suo primo proprietario. Ne era stato colpito fin dalla prima volta che l’aveva visto, quando si era presentato per prendere le misure. Un bel giovane, alto, con le spalle larghe. Subito aveva pensato: “Starò bene, addosso a lui. Non farò una grinza.” E così era stato.
Per poco non aveva partecipato al suo matrimonio. Per un po’ aveva pensato che sarebbe toccato a lui, dal momento che era l’unico vestito di un certo tono posseduto da quell’uomo. Poi, all’ultimo momento, il suo proprietario aveva ordinato un altro vestito. Più da cerimonia, così era stato definito quell’antipatico e spocchioso abito blu gessato dal quale era stato soppiantato in quell’occasione. Ma, per avere la sua vendetta, non aveva dovuto attendere a lungo. Quell’altro era subito finito appeso in fondo all’armadio e non era mai più stato indossato. Lui invece aveva continuato a essere utile per altri sposalizi, anche se non da protagonista, per battesimi e innumerevoli altri festeggiamenti e occasioni mondane di tutti i generi. Amava soprattutto le sale da ballo. Adorava che la sua stoffa liscia fosse accarezzata e stretta tra le dita dalla donna che il suo proprietario aveva sposato, mentre volteggiava aggrappata al suo compagno. Godeva dei suoi apprezzamenti sulle sue qualità, sul fatto che non perdesse facilmente la piega e che fosse semplice da ripulire.
Erano trascorsi anni e, sebbene uscisse dal guardaroba sempre più raramente, si rendeva conto di non essere stato del tutto dimenticato. Nel frattempo, la corporatura del suo proprietario era cambiata. Soffriva quando sentiva tirare in corrispondenza della vita, delle spalle, quando la giacca non veniva abbottonata per evidente impossibilità, ma resisteva, soffrendo in silenzio, felice di essere ancora utile. Poi, all’improvviso, aveva avuto un altro padrone. Il figlio del suo vecchio possessore lo lasciava sempre chiuso nell’armadio, non lo indossava mai. A volte, però, apriva i battenti, illudendolo per un attimo. Invece si avvicinava a lui, prendeva la stoffa tra le dita, la tratteneva a lungo, con lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi lucidi. Poi richiudeva l’anta, ancora colmo di sofferenza.
I periodi trascorsi al buio erano diventati sempre più lunghi finché, a un certo punto, non era stato ricoperto da una fodera di plastica trasparente, soffocante e opprimente. Allora aveva pensato che fosse ormai giunta la fine, e si era quasi rassegnato.
Un bel giorno tuttavia era stato ridestato dal suo apatico torpore. Ad opera di un simpatico ragazzo. Lo aveva sfilato dall’odiosa custodia e lo aveva indossato. Quel giovane era smilzo, e i pantaloni non riuscivano a riempire che una minima porzione delle sue gambe magre e risultavano troppo alti in vita. Per non parlare delle spalle cadenti della giacca. Tuttavia, lui non sembrava curarsi troppo di tali particolari. Chissà, forse la moda era cambiata. Assieme al suo nuovo padrone aveva partecipato a innumerevoli feste, nelle quali tutti i partecipanti erano giovanissimi, dove si ballava in maniera strana e la musica, incomprensibile, era sempre assordante. Però, come si era divertito! Quella nuova giovinezza l’aveva reso felice.
Naturalmente, tutto ciò non era durato a lungo. Ma non se l’era presa più di tanto. In fondo, se lo aspettava. Dopo, di nuovo nelle tenebre dell’armadio per tanto tempo, aveva avuto modo di ripensare alla sua vita, ai tanti momenti esaltanti. Sapeva che per lui si stava avvicinando la fine, ma era in pace con se stesso. Quanti abiti avevano servito, sebbene in modo diverso, ben tre padroni?
Alla fine era stato prelevato da mani poco attente, svagate e, con pochi gesti bruschi, gettato in quello che sembrava un cassonetto dei rifiuti. Ma non lo era. Quasi subito altre mani, più amorevoli, si erano prese cura di lui. Era stato lavato e stirato e di nuovo appeso, in bella vista. Poi era stato adottato.
E adesso è addosso al vecchio Oreste, il senzatetto.
Con qualche macchia, liso sui gomiti, la stoffa ormai lucida in più punti, fa comunque ancora la sua bella figura. Oreste lo sfoggia con orgoglio, si pavoneggia. In tutta la sua vita non ha mai posseduto un abito così elegante.  

domenica 3 luglio 2011

FATE LA CARITA'



Lo vedo tutti i giorni al semaforo. È poco più di un ragazzo - o almeno così pare -  ha un viso affilato, la pelle scura, degli incredibili baffetti appena accennati. Adesso che è estate indossa sempre una canottiera chiara, piuttosto sporca, e dei pantaloncini sportivi che mettono in risalto le sue gambe sottili, quasi rachitiche, e che a stento lo sostengono. Brutte, molto brutte da vedere, vi assicuro. No, non si tratta di un lavavetri, non potrebbe mai esserlo. Com’è possibile detergere un parabrezza in poco tempo con una sola mano? In aggiunta pure deforme e rigida, tra l’altro. Il ragazzo  è privo dell’intero braccio sinistro, o quasi. Dalla sua gracile spalla spunta soltanto un corto e impressionante moncherino che lui naturalmente esibisce come meglio non potrebbe per impietosire gli automobilisti.
Tutti i giorni lo vedo allo stesso posto, caracollante tra le auto, che tende la mano chiedendo l’elemosina. Non sempre i conducenti sono benevoli, per fortuna. Le donne si impietosiscono più facilmente, gli uomini, quasi tutti, fingono indifferenza, tirano dritto senza distogliere lo sguardo dalla strada. Un atteggiamento virile che incontra la mia approvazione. Io infatti appartengo alla categoria di chi non si lascia commuovere. D’accordo, potrei porgere allo sventurato qualche spicciolo, non di più, ma in tal modo metterei semplicemente a tacere la mia coscienza senza risolvere neppure il più piccolo dei suoi problemi. No, meglio non dare nulla, meglio non suscitare illusioni in quel disgraziato. Se così fosse, costui potrebbe addirittura pensare che le persone siano buone, siano generose e che abbiano il desiderio di aiutare il prossimo. Sappiamo bene che non è così; siamo, al contrario, perfettamente consapevoli che nessuno di noi, sia quelli generosi sia quelli avari ed egoisti, trascorsi più di trenta secondi si ricorderà di quell’infelice e sciagurato individuo.
Qualcuno, addirittura, arriva ad augurarsi che prima o poi il mendicante sia investito da qualche automobilista distratto: un modo pietoso per mettere fine alle sue sofferenze. Tanto, disgrazia più disgrazia meno… Naturalmente, questi rimangono soltanto pensieri, mai e poi mai potrebbero essere espressi in maniera palese. Non sarebbe corretto, sarebbe anzi manifestazione di insensibilità, di disumanità, e via con amenità di questo genere.
Al contrario, io non ho timore di esprimere ciò che penso e del giudizio altrui, come diceva il Vate, me ne frego. Certo, in fondo sono abituato alla presenza di quel relitto umano che, se da un lato urta il mio senso estetico, dall’altro non mi disturba più di tanto. Dopo tanto tempo è come fosse diventato parte del paesaggio urbano. Comunque, presto sempre molta attenzione a non urtarlo, in senso fisico intendo, nel non farlo cadere toccandolo inavvertitamente con il lungo muso della mia auto. Non voglio avere grane, non vorrei mai che, con qualche pretesto, mi fosse sospesa la patente, oppure avere noie con le compagnie assicurative. Detto tra noi, non è che io abbia del tempo da perdere in queste sciocchezze.
Mi rendo conto che queste mie riflessioni, questi miei pensieri in libertà, potrebbero apparire, agli occhi di persone sensibili – che parola ridicola! – come una prova tangibile di cinismo, di scarsa umanità, di sprezzante indifferenza. Ebbene, lo confermo: queste persone, pur nella loro colpevole debolezza d’animo, in fondo hanno ragione. Sono cinico e freddo, e me ne vanto. E farò di tutto per trasmettere anche ai miei figli questi indispensabili ragionamenti, questi consigli di vita. Sono certo che loro saranno fieri di me e che mi ringrazieranno per sempre. 
Oh! Il semaforo è verde! Non devo neppure fermarmi. I miei occhi abituati alla bellezza non saranno disturbati a lungo dalla visione di quello sgorbio. Per sicurezza, accelero.
Sì, anche nelle piccole cose sono proprio un uomo fortunato.